Archivi del mese: aprile 2015

L’America di Simon & Garfunkel

Simon & Garfunkel

Nelle nostalgiche e belle (ancorché fatte in economia, come un po’ tutta l’operazione) note che corredano il libretto di “The Columbia Studio Recordings 1964-1970”, box quintuplo con l’opera (più o meno) omnia di Simon & Garfunkel, Bud Scoppa ricorda che nell’autunno 1965 era possibile, accendendo la radio a New York, imbattersi in una siffatta scaletta di successi del momento (ha ragione Scoppa a essere nostalgico!): Ticket To Ride dei Beatles, Satisfaction degli Stones, Turn! Turn! Turn! dei Byrds, Like A Rolling Stone di Dylan, The Sound Of Silence dei nostri due eroi. In dicembre i quattro di Liverpool pubblicavano “Rubber Soul” e il giorno stesso la WABC lo trasmetteva (fatto senza precedenti) integralmente: segnale più chiaro che l’epoca dei 45 giri era finita e cominciava quella degli album non avrebbe potuto esserci. La musica giovane diventava adulta e importante come mai era stata. Quella settimana il primo posto nelle graduatorie di vendita dei singoli era occupato proprio da The Sound Of Silence. L’omonimo LP avrebbe visto la luce nel successivo gennaio e non sarebbe riuscito a entrare nei Top 20. Eterna in compenso la sua permanenza in classifica: 143 settimane, quasi tre anni filati.

È la storia di un successo giunto per caso, solo per la brillante intuizione di un produttore, quella dei primi Simon & Garfunkel. Nati a pochi giorni l’uno dall’altro nel 1941 i due inauguravano precocemente il loro sodalizio recitando insieme, dodicenni, in una rappresentazione scolastica. Era però alla musica che indirizzavano presto attenzioni e speranze. Nel ’57 il provino di una canzone scritta da Simon in stile Everly Brothers attirava l’attenzione di un discografico che ingaggiava i due ragazzetti con gli imbarazzanti nomi d’arte di Tom (Art) & Jerry (Paul). Dopo un’apparizione ad “American Bandstand” Hey Schoolgirl otteneva un rispettabile e promettente numero 49. Svanivano però nel nulla i numerosi successori disseminati nell’arco di un biennio e nel 1959, finito il college, la coppia si divideva, pur continuando separatamente, fra una lezione universitaria e l’altra, a frequentare il mondo della musica. Entrambi pubblicavano qualche 45 giri e Simon vedeva suoi brani interpretati da altri, senza peraltro mai grandi riscontri mercantili. Al ritorno da una vacanza inglese lui e Art decidevano di riprovarci e rimediavano un insperato contratto nientemeno che per la Columbia.

Siamo arrivati al 1964. Grazie a Bob Dylan è il folk la musica più acquistata dai giovani americani bianchi. Alla Columbia hanno già in squadra Zimmie e pensano che versioni più soft di quei materiali potrebbero dare loro molte soddisfazioni. Insomma: si tratta di mettere insieme il rock’n’roll acustico degli Everly Brothers, materia perfettamente padroneggiata dal duo, con una canzone di protesta all’acqua di rose. L’immagine nel contempo educata e scapigliata della coppia parrebbe prestarsi alla bisogna. L’album che esce in ottobre, “Wednesday Morning, 3AM”, raccoglie però solo indifferenza. Nuovo subitaneo scioglimento, con Simon che dà alle stampe un lavoro solistico, e via, sembrerebbe che la storia si sia definitivamente conclusa. E invece no.

Siamo arrivati al 1965. Grazie ai Byrds, che hanno elettrificato Mr. Tambourine Man di Bob Dylan, è ora il folk-rock la musica più acquistata dai giovani americani bianchi. Fra la dozzina di canzoni di quel 33 giri passato inosservato, il produttore Tom Wilson individua un brano che si presterebbe a venire addizionato di sezione ritmica e chitarra elettrica. Così fa, senza nemmeno chiedere il permesso ai titolari, i quali non avranno però certo a offendersene. In tal guisa riarrangiata, The Sound Of Silence va difilata al primo posto. Il primo di una serie di primi posti con tanto di trionfo finale nel 1970, con Bridge Over Troubled Water, LP e singolo, a capeggiare per mesi le graduatorie su entrambe le sponde dell’Atlantico. Oltre trent’anni dopo è ancora tale la popolarità di Simon & Garfunkel che ogni voce di ulteriori rimpatriate (quella dell’81 fruttò un doppio live vendutissimo) manda in fibrillazione l’industria dello spettacolo. E lo scarno catalogo, cinque album appena, viene costantemente riciclato.

Il cofanetto da qualche settimana nei negozi è già il terzo dedicato ai Nostri. È relativamente accessibile nel prezzo ma anche parco di inediti e di quei piacevoli ammennicoli – corposi saggi critico-biografici e foto mai viste – che corredano di solito operazioni del genere. Resta la musica, con i CD infilati in facsimili delle confezioni originali, e non è poco: folk-rock di rara seduzione pop, scarno negli arrangiamenti e squisito nelle melodie, con le voci che armonizzano come forse solo in paradiso. Restano i testi ed è tantissimo: come ha confermato nella sua fortunata e splendida vicenda solistica (Art si è dato al cinema e ha fatto bene), Paul Simon è uno dei più grandi Poeti del XX secolo. A scorrere i versi di The Sound Of Silence ci si chiede chi altri abbia detto tanto con così poche parole sul tema dell’incomunicabilità. Ed è mai stata rappresentata l’innocenza degli anni ’60 meglio che nel bozzetto di amore in viaggio di America? Un film e un’epoca in tre minuti e trentasei secondi.

Quel decennio cruciale fu attraversato dai due ragazzi newyorkesi con grazia impareggiabile, con l’entusiasmo della giovinezza sfumante senza cesure nella saggezza della maturità, offrendo un ritratto dei tempi assai meno agiografico di quanto la memoria non suggerisca. Con un nocciolo di amarezza al centro della polpa di canzoni straordinariamente amabili. Le recuperi chi le conosceva o credeva di conoscerle. Vi si accosti chi, per ragioni anagrafiche (unica scusa accettabile), ha con esse poca o nessuna familiarità. Metterà allora al giusto posto l’odierno New Acoustic Movement.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.459, 23 ottobre 2001.

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Kool Things (i miei Sonic Youth preferiti)

Oggi compie gli anni Kim Gordon, “girl in a band” come recita il titolo della sua autobiografia fresca di pubblicazione. E che band! E che girl! Una delle più cool – anzi: delle più kool – di sempre.

Sonic Youth - Daydream Nation Deluxe Edition

Daydream Nation (Enigma, 1988)

Quando nel 1981 Thurston Moore, Lee Ranaldo e Kim Gordon scelsero il nome con il quale volevano farsi conoscere collettivamente, probabilmente non immaginavano che oltre un quarto di secolo dopo sarebbero stati in circolazione e tutto sommato ancora una delle forze più vitali del rock (il che però la dice più lunga sul cattivo stato di salute del secondo che non su quello buono dei primi). O forse sì, e pregustavano l’effetto che avrebbe fatto una simile ragione sociale appiccicata a dei baldi cinquantenni. Che bel nome comunque, Gioventù Sonica. Fate caso in particolare al “sonica”. Più che di canzoni, benché ne abbiano ad ogni buon conto scritte di memorabili (a cominciare da quella che inaugura “Daydream Nation”, Teenage Riot, assalto d’estasi testosteronica di rara efficacia), i Sonic Youth sono sempre stati soprattutto una faccenda di suoni: un maelstrom di chitarre avvinte una all’altra nel cui gorgo si sono avvitati no wave e punk, improv e avanguardia, i Velvet Underground di Sister Ray, gli Stooges più allucinati e i Grateful Dead più oscuri, il Neil Young più esasperatamente elettrico e il grunge, ben prima che di grunge si parlasse. Qualcuno ricorda che furono i Sonic Youth a portare i Nirvana alla Geffen? Da quelle parti non hanno più smesso di ringraziarli, gli occhi umidi di un pianto riconoscente.

A portare i Sonic Youth alla Geffen fu invece “Daydream Nation”, monumentale in tutti i sensi – già in origine durava oltre settanta minuti e su vinile era doppio – ultimo loro album indipendente (su Enigma negli Stati Uniti, su Blast First in Gran Bretagna) e un campione di vendite in quell’ambito. Una pietra miliare datata 1988. Non un monolite, come può parere a un primo e relativamente intimidente ascolto (ben altro ci avevano propinato prima e ci propineranno in seguito i nostri eroi), ma un prisma sfaccettato su cui si rifrangono le luci al neon della New York più marginale e decadente. “Un viaggio al fondo della notte per cuori forti e orecchie intrepide” ebbi a scriverne al tempo e direi che il tempo è stato galantuomo. Questa sontuosa “Deluxe Edition” è fatta ulteriormente appetibile da una demo di Eric’s Trip e più che mai da un secondo CD, registrato in concerto e con in coda quattro cover viceversa in studio. Ampia la gamma coperta: Beatles (Within You Without You), Mudhoney (Touch Me I’m Sick), Neil Young (Computer Age), Captain Beefheart (Electricity).

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.636/637, luglio/agosto 2007.

Sonic Youth - Goo Deluxe Edition

Goo (DGC, 1990)

Ma chi lo dice che la gratitudine non esiste? Chiedetelo ai Sonic Youth, da tre lustri presso una multinazionale e questo sebbene i loro numeri, che sarebbero di assoluto rilievo in ambito indipendente, non siano grandissima cosa nella categoria merceologica superiore. Chiedeteglielo, ai Sonic Youth, che oltretutto hanno il privilegio raro di potere pubblicare degli album in proprio quando decidono che non sono adatti all’etichetta di David Geffen. E domandatelo poi al signor Geffen, che li mise sotto contratto nel 1990 per aggiudicarsi il successore di quel monolite del noise-rock chiamato “Daydream Nation”, giustappunto questo “Goo” appena riedito in una “Deluxe Edition” che agli undici brani originali aggiunge diciannove fra lati B, demo, partecipazioni a raccolte, più un’intervista. “Goo” vendeva discretamente, entrava nei Top 100 di “Billboard” e giacché da cosa nasce cosa Neil Young, che lo aveva ascoltato e si era entusiasmato, si portava i ragazzi in tour come spalla e contribuiva la sua parte a farli conoscere al grande pubblico. I lavori immediatamente successivi sarebbero andati meglio, ma non è mica per quello che Geffen adora la Gioventù Sonica e se l’è tenuta stretta. No. È che Thurston Moore e soci lo convinsero a ingaggiare un gruppo il cui primo LP, su Sub Pop, aveva venduto quarantamila copie, non granché. E quel gruppo erano i Nirvana.

In questo senso si può affermare allora che “Goo” sia stato decisivo per il rock degli anni ’90, ma ciò corre il rischio di sminuirlo, così come al tempo lo sminuirono i raffronti con l’ingombrante predecessore. È in realtà il disco melodicamente più solido dei Nostri, con dentro classici come Dirty Boots, Tunic e soprattutto Kool Thing che fanno a pezzi il 90% di quello che il grunge era stato e sarà.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.262, novembre 2005.

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I primi Semi Cattivi di Nick Cave

Nick Cave & The Bad Seeds

Intruppato nella new wave alla sua prima vera apparizione alla ribalta, alla testa di quei Birthday Party che da Melbourne si trasferivano nel 1980 a Londra, per mera coincidenza temporale, Nick Cave ha in realtà fatto da subito categoria a sé, già nei classici quando una voce i cui limiti ha imparato presto a valorizzare svettava su fragorose orgie. Non avendo mai tradito sé stesso non ha mai tradito il pubblico e, tanto con la prospettiva data una vicenda artistica ultratrentennale che in forza di un riascolto che li scopre ostici, sì, ma meno che nel ricordo, si coglie appieno la verità di quanto affermava nel ’94 in una conversazione con Gavin Martin, quando osservava che “già nei Birthday Party il blues, il soul, il country erano presenti, ma era come se tutto quanto fosse esploso e schegge fossero state scagliate in ogni direzione, perché non provavamo rispetto per niente, mentre adesso ci accostiamo con la dovuta reverenza a influenze che ci sono sempre state”. Uso del “noi” da intendersi non come plurale maiestatis bensì come riconoscimento al contributo di un gruppo, i Bad Seeds, eccezionale perché composto da personalità una per una eccezionali: Mick Harvey e Blixa Bargeld per citare due che non ci sono più ma la cui militanza è stata ventennale, Barry Adamson per dire di uno che se ne andò ma è tornato. Cointestari di tutti gli album di Cave tranne che del primo, “From Her To Eyernity”, datato ’84 ed esordio raffazzonato per confezione se non per esiti, fiore del male sbocciato quasi casualmente dalla rancorosa dissoluzione dei Birthday Party. Il successivo “The Firstborn Is Dead” gli andrà dietro poco più di un anno dopo ma sarebbero potuti essere mesi, se la pubblicazione non avesse dovuto aspettare un OK da parte di Bob Dylan. Fatto è che in scaletta c’è una canzone di costui, Wanted Man, cui Cave incrementandone l’incalzante epicità aggiungeva diverse strofe e serviva il benestare dell’autore per farla uscire. Nel mentre che lo si attendeva saltava persino un tour.

Ombre mitologiche si allungano su “The Firstborn Is Dead”. Di Dylan ho detto. La presenza più forte è tuttavia quella di Elvis, cui fanno riferimento sia il titolo (Presley aveva un gemello che morì alla nascita) che il formidabile brano che lo inaugura, Tupelo, musicalmente un po’ John Lee Hooker e un po’ Howlin’ Wolf, testualmente lettura cristologica della nascita di Elvis, annunciata da un diluvio biblico. Ben presente il defunto Re del Rock’n’Roll, tanto in una Say Goodbye To Little Girl Tree che parte come Fever e arriva come Heartbreak Hotel (nella versione di John Cale) che nella desolata Knocking On Joe. E poi, proprio alla fine, c’è Blind Lemon Jefferson, dedica a un personaggio leggendario, prima star del blues, elevato a simbolo da Cave che di lui all’epoca sapeva quasi nulla ma gli piaceva il nome. Conosceva magari meglio Robert Johnson: ascoltate The Black Crow King e sappiatemi dire. Con il senno del poi, che il successore di “The Firstborn Is Dead” sia stato “Kicking Against The Pricks” è di una logica assoluta: dopo essersi confrontati con alcuni miti d’America, che potevano fare Cave e i Bad Seeds se non misurarsi più estesamente e organicamente con le radici della propria musica? Reputato unanimemente il loro zenit, il disco nasceva in realtà in fretta (con sei canzoni messe su nastro nel primo giorno trascorso in studio e altre cinque il giorno dopo) e principalmente per due motivi. In primis perché il leader, alle prese con il romanzo And The Ass Saw The Angel, non aveva avuto tempo per comporre nuovo materiale e un album di cover gli consentiva di ovviare. Secondariamente per ripicca nei confronti della stampa musicale britannica, che dopo avere bene accolto il primo LP era stata fredda con il secondo. Ricorda Mick Harvey che “Nick pregustava l’idea di collezionare stroncature e aveva pensato di intitolare l’album ‘Head On A Platter’”. Titolo sarcastico (la testa su un piatto) che veniva lasciato cadere a favore del ben più malizioso “Kicking Against The Pricks”, che vuol dire sì “Opporsi all’inevitabile”, ed è una citazione dagli “Atti degli Apostoli”, ma può anche essere interpretato come un rude “Prendendo a calci le teste di cazzo”. Fantastica commedia degli equivoci: la critica si prostrava dinnanzi al disco e il titolare quasi ci restava male. Indiscutibile capolavoro giocato sull’alternarsi di tensione e rilascio che lo anima tutto, così che ad esempio allo sguaiato, tagliente blues di I’m Gonna Kill That Woman (John Lee Hooker) segue l’incantevole valzerino Sleeping Annaleah (Tom Jones), all’ultraconfidenziale By The Time I Get To Phoenix (Jim Webb, ma ancora di più Isaac Hayes) va dietro la marziale The Hammer Song (Alex Harvey) e a quella l’almondiano melò Something’s Gotten Hold Of My Heart (Gene Pitney). Colpi di genio: una Hey Joe arrangiata a bolero; il classicissimo gospel (da fare invidia agli Alabama Singers) Jesus Met The Woman At The Well; soprattutto, una All Tomorrow’s Parties resa come se i Velvet Underground del primo LP fossero stati quelli del secondo. Forse l’apice di un album che attinge pure al country (un’apocalittica The Singer di Johnny Cash), al folk-rock (Long Black Veil), al pop più zuccherino degli anni ’60 (The Carnival Is Over dei Seekers). Disco irripetibile in cui forma e sostanza, gradevolezza e lirismo vanno di pari passo.

“Kicking Against The Pricks” usciva l’8 agosto 1986. A ribadire un momento artisticamente felicissimo (altra faccenda la vita privata di Cave, arrestato a più riprese per storiacce di droga), passavano meno di tre mesi e nei negozi arrivava “Your Funeral… My Trial”, album stupendo che si può dire divida la carriera del Nostro fra un “prima” e un “dopo”. Se con la terza e quarta facciata ci si reimmerge fra mefitici miasmi da Birthday Party (esemplare Hard On For Love) e ciò facendo da essi ci si congeda (salvo saltuari, un po’ nostalgici ritorni), le prime due preconizzano un futuro di organi tondi e toccate d’armonica (Sad Waters), circensi fughe nel felliniano (The Carny), carilloneschi rovelli (la traccia omonima), visite a chiese negre (Stranger Than Kindness). Se già non lo sapevate o lo avete sempre posseduto in forma di CD avrete inteso: vinile doppio ma, inusualmente per l’epoca, trattavasi di doppio mix (si superano di poco i quaranta minuti). La Mute, già etichetta originale, lo ha da poco riedito nel medesimo formato e risalgono sempre allo scorso ottobre le ristampe di “The First Born Is Dead” e “Kicking Against The Pricks” (ora anch’esso doppio). Qualità inappuntabile e prezzi abbordabili, grazie al fatto che in questo caso i master erano a disposizione e non rappresentavano dunque un costo.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.360, febbraio 2015.

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L’apocalisse gioiosa dei Culture di “Two Sevens Clash”

Culture - Two Sevens Clash

Dicono che Picasso ambisse a morire con un pennello in mano e non è in fondo il più logico dei desideri per un artista? Uscire di scena definitivamente nel bel mezzo di una performance, andarsene ancora intento alla ricerca di un briciolo o più di immortalità. Il pittore spagnolo ci lasciò però alla veneranda età di novantadue anni, Joseph Hill – che dei Culture fu uno dei tre fondatori e dal ’93 del gruppo era qualcosa più di un incontrastato leader – ha salutato troppo presto, cinquantasettenne, accasciandosi su un palco berlinese lo scorso 19 agosto. Incerte le cause dell’improvviso decesso – le cronache hanno parlato di non meglio precisati problemi di fegato – ma se è possibile che Hill fosse malato da tempo mai lo aveva dato a vedere in un principio di nuovo secolo produttivamente felicissimo. Ben recensiti pure su queste pagine, “Humble African” (del 2000) e “World Peace” (del 2003) restano fra gli articoli più notevoli di un catalogo che ne annovera alcune decine (nessuno indegno) e in mezzo aveva visto la luce un fors’anche più rimarchevole “Live In Africa”. Dipartita dunque doppiamente intempestiva, quella del nostro uomo, e della quale doppiamente bisogna dolersi: è morto mentre era vivo, vivissimo, addirittura il più vitale fra i superstiti di quel decennio, i ’70, che per il reggae fu un’Età dell’Oro. Pure per lui e per il gruppo cui dava vita nel 1976 – African Disciples la prima ragione sociale, presto cambiata su suggerimento del produttore Joe Gibbs – insieme ai cugini Albert Walker e Roy “Kenneth” Dayes. Per quanti bei dischi abbiano fatto in seguito i Culture il debutto “Two Sevens Clash” è rimasto insuperato, un classico assoluto della battuta in levare e oltretutto – particolare che lo rende ancora più interessante, e storicamente rilevante, per chi al reggae arriva dal rock – uno dei tre o quattro decisivi per fare innamorare della musica giamaicana la generazione del punk. Colonna sonora, con “War In A Babylon” di Max Romeo e “Police & Thieves” di Junior Murvin, degli scontri a sfondo razziale a Notting Hill Gate che ispirarono ai Clash White Riot, per dire. Hill aveva all’epoca ventott’anni e alle spalle una storia lunga così.

Gli inizi si perdono in tardi ’60 che lo vedono far girare dischi in vari sound system nella natìa Linstead per poi, come tutti, cercare fortuna nella capitale Kingston. Nel 1971 si unisce come percussionista e corista ai Soul Defenders (un solo LP all’attivo e postumo) e con loro partecipa, da turnista, a innumerevoli incisioni per questo o quello dei cantanti accasati presso la Studio One di Clement “Coxsone” Dodd. Ci prova da solista, con alcuni singoli che non vanno tuttavia da nessuna parte e allora è lui ad andarsene, a tornarsene al paesello a guadagnarsi da vivere cantando e suonando per i turisti. Non ringrazieremo mai abbastanza i cugini di cui sopra per esserselo portato via da lì.

L’esordio a 45 giri di quello che è fondamentalmente un trio vocale – a fare da fenomenale backing band provvedono i Revolutionaries – si intitola This Time e fa discreti sfracelli, cogliendo probabilmente di sorpresa gli stessi artefici, nelle classifiche locali. Purtroppo sull’album non lo troverete. Ci sono vivaddio i due singoli successivi: See Them A Come, rutilante, tastiere bene in vista, passo quasi rocksteady; e Two Sevens Clash, che il 33 giri battezzerà. Gioiosa in uno spartito fragrante d’Africa, apocalittica nella visione che dipinge di una Giamaica – e un pianeta – tormentati dall’ingiustizia dello sfruttamento, dalla povertà, dalla violenza. Stupirsi se trovò orecchie attente in un’altra isola, la Gran Bretagna, che fatte le debite proporzioni era anch’essa immersa in una crisi profonda? Nella visione rastafari il 7/7/1977 – da qui il titolo sulla coppia di sette in collisione – era data fortemente indiziata come quella del principio della fine del mondo. Potrebbe sorprendersi il lettore. Potrebbe sembrargli incongruo che un paesaggio così fosco venga dipinto con una musica così esuberante, ma non c’è incoerenza: la fine del mondo si porterà via i problemi materiali e nel paradiso in terra che verrà nessun uomo sarà più… uguale di un altro. Dell’ala militante del reggae i Culture saranno in ogni caso sempre fra i moderati, il loro messaggio offerto con un sorriso e con melodie e scansioni indimenticabili. Subito esemplare la cantilena a orologeria di Calling Rasta Far I, non sono da meno una I’m Alone In The Wilderness insieme svelta e distesa, terrigna e alata, una Pirate Days ancora più incalzante, una I’m Not Ashamed sospettosamente simile al Jimmy Cliff che rifaceva Cat Stevens, una marziale Black Starliner Must Come così come una Natty Dread Taking Over disegnata da fiati avvolgenti. Soprattutto, Get Ready To Ride The Lion Of Zion: orecchiabilità e carisma da Marley sulla linea di confine fra roots e pop, capolavoro fra i capolavori. A quasi trent’anni dalla pubblicazione, “Two Sevens Clash” abbacina come al suo primo disvelarsi.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.631, febbraio 2007.

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To Be Gifted And Black: Nina Simone

Ci lasciava dodici anni fa a oggi. Così la ricordavo sulle pagine dell’allora settimanale “Il Mucchio”.

Nina Simone

Dicono che la signora, che del resto ha sempre avuto un carattere battagliero, negli ultimi anni fosse divenuta un tipino di quelli che è meglio non contraddire, mai. A fare le spese della sua irascibilità, prima il figlio di una vicina di casa, preso a pistolettate perché colpevole di avere disturbato la concentrazione dell’artista nota come Nina Simone, ma nata Eunice Kathleen Waymon. Poi un discografico, sottoposto al medesimo trattamento perché qualcosa non tornava nel conteggio dei diritti d’autore. Si può supporre che il contratto sia stato prontamente modificato a favore della cantante e un po’ sorriderne, dacché il signore in questione è sopravvissuto senza danni alla disavventura. Soltanto un po’, siccome Nina Simone, che ci ha lasciati lo scorso 21 aprile, settantenne, aveva i suoi buoni motivi per non fidarsi dell’umanità in generale e in particolare degli squali che nuotano nelle acque del business discografico. Ne aveva sposato uno nel 1961 e quando un decennio dopo divorziarono scoprì che costui si era preso come buonuscita un quarto di milione di dollari, più o meno tutto quello che possedeva. E quanto al resto del genere umano, i bianchi soprattutto…

Afroamericana con nelle vene sangue pellerossa e irlandese, Eunice imparava presto il significato della parola “discriminazione”: quando per la prima volta suonava il piano in pubblico, a otto anni, il padre e la madre venivano isolati in platea, evento che metteva in diversa prospettiva l’amore per Bach e il fatto che i suoi studi fossero stati pagati da una signora bianca. La passione per la musica classica nondimeno sopravviverà al giustificato furore nei riguardi della cultura che l’ha espressa e contribuirà, con l’altrettanto pronunciata inclinazione per gospel, blues e jazz, a forgiare uno stile di soul unico, inclassificabile, già ben delineato nel sensazionale esordio del 1958 “Little Girl Blue”, l’album sul quale stanno i due più grandi successi di Nina Simone, una versione della gershwiniana I Loves You Porgy che incontrava subito il favore del pubblico e quella My Baby Just Cares For Me, capolavoro di spumeggiante romanticismo, che diverrà un hit ventinove anni più tardi, grazie allo spot di un profumo. Una delle due canzoni di Nina Simone che il lettore di questo giornale che pure nulla ha di lei in casa conosce sicuramente, essendo l’altra quella Lilac Wine sulla quale Jeff Buckley ricalcherà sin nei dettagli la sua struggente interpretazione, come potrete verificare procurandovi il disco del ’67 che la contiene, il meraviglioso “Wild Is The Wind”, ristampato qualche tempo fa in un compact che gli affianca l’altrettanto valido “High Priestess Of Soul”. È uno dei tre CD da possedere assolutamente, essendo gli altri due il già nominato “Little Girl Blue” e quello che accoppia “& Piano!” e “Silk & Soul”, di un’artista e una donna straordinaria, che fu amica di Langston Hughes e James Baldwin e una figura chiave del movimento per i diritti civili, apprezzata da Martin Luther King come da Malcolm X. Pianista sublime e ultima di una serie di grandi voci femminili che ha incluso Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Dinah Washington.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.534, 20 maggio 2003.

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Matthew E. White – Fresh Blood (Domino)

Matthew E. White - Fresh Blood

Ci sono in giro certi giovani che danno l’idea di non essere mai stati giovani, nati adulti e in un’epoca che non è la nostra. Ci sono in giro certi giovani che solo oggi li si può ancora chiamare giovani, esordienti a un’età in cui una volta si era vecchie glorie. Ad esempio Jonathan Wilson, che addirittura è già negli “anta” ed è forse il nome nuovo più chiacchierato dell’attuale decennio in forza di due album oggettivamente rimarchevoli (il primo in zona capolavoro). Non vale come obiezione notare che in precedenza aveva avuto un gruppo, né che quello che avrebbe dovuto essere il debutto da solista restava clandestino: sotto praticamente ogni punto di vista “Gentle Spirit” è il suo esordio “vero”. Ad esempio Matthew E. White, che va per i trentatré e prima di pubblicare nell’agosto 2012 “Big Inner” faceva avant-jazz ma non se n’era accorto nessuno. Ad accomunare ulteriormente i due è l’essere californiani di adozione e ossessionati dai primi ’70, con Wilson però che guarda ancora più indietro, all’era aurea psichelica. Lui è rock, White pop. Anche Matthew E. produce ora un secondo lavoro inferiore al primo, solo che non partiva da altrettanto in alto.

Al netto di un plagio che faceva scalpore, era un bell’album “Big Inner”, un suo punto di forza gli arrangiamenti sofisticati. Non direi che adesso siano un punto debole, quanto piuttosto che non sono sufficientemente solide le canzoni per reggere orchestrazioni tanto imponenti, archi e fiati che scappano per ogni dove. Finisci per guardare più il dettaglio che il disegno generale, per poi accorgerti che era comunque banalotto. Da un contesto che tende al romantico/languoroso – fra un Harry Nilsson bulimico e un Randy Newman che si è perso il sarcasmo per strada – si stacca in positivo la briosa Rock & Roll Is Cold.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.361, marzo 2015.

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I ventuno anni indelebili di Eddie Cochran

Sconvolgentemente giovane, Eddie Cochran periva in un incidente stradale cinquantacinque anni a oggi. Impossibile immaginare una storia del rock senza di lui, si può sfortunatamente solo fantasticare di cosa sarebbe stata avesse avuto il tempo di scrivere altri Summertime Blues, altre C’mon Everybody e Somethin’ Else.

Eddie Cochran - The Best Of

The Best Of (EMI Gold, 2005)

Il James Dean del rock’n’roll? Ma magari! Al ribelle senza una causa venivano concessi ventiquattro anni su questa terra, tre in più di quelli che la malasorte riservava a Edward Raymond Cochran, che chissà cos’altro avrebbe combinato di memorabile se la sua parabola fulminea fosse così raddoppiata di durata. Moriva invece come l’attore in un incidente automobilistico, vittima anche dell’istintivo gesto di generosità che lo induceva a proteggere con il corpo, quando il taxi che stava portando a Londra lui e Gene Vincent si schiantava contro un lampione, la sua ragazza, Sharon Sheeley. Aggiunge una nota beffarda a un destino tragico il fatto che, rimasto molto turbato qualche mese prima dalla morte dell’amico Buddy Holly, Eddie si fosse ripromesso di farla finita presto con i tour. Quello nel Regno Unito avrebbe dovuto essere uno degli ultimi. Tant’è: forse senza quei concerti, che impressionavano enormemente la gioventù locale, l’influenza di Cochran sul rock successivo – evidentissima sugli Who, che di Summertime Blues faranno un cavallo di battaglia (e da loro transitata a Clash e Sex Pistols), ma chiara anche su Stones e Small Faces, Led Zeppelin e T.Rex – sarebbe stata meno marcata. O forse non sarebbe cambiato niente, se qualcuno ricorda eseguendo quale canzone un Paul McCartney ragazzino convinse nel 1957 John Lennon a farlo entrare nei Quarrymen: Twenty Flight Rock, che l’anno prima Eddie aveva cantato nel film The Girl Can’t Help It e la sua carriera decollava così.

Con i suoi quaranta titoli questa doppia antologia guarda caso britannica (più profeta su questa sponda dell’Atlantico che in patria, il Nostro) mette insieme obiettivamente tutto l’Eddie Cochran che bisogna ascoltare e pure qualcosa di più: quello invecchiato non benissimo delle ballate romantiche impostegli da discografici che sognavano di avere un secondo Elvis fra le mani, quello stilosamente rockabilly appartenente comunque al suo tempo e infine quello che il suo tempo lo trascese, immaginando l’hard e il punk, addirittura, quando ancora gli anni ’50 dovevano dirci ciao.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti, 2012.

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Il capolavoro in cuffia di Cody ChesnuTT

Colui che in un articolo sorprendentemente ben fatto “La Repubblica” ha definito “il guerriero del soul” è in Italia per un tour acustico di quattro date. Ieri sera era a Ferrara, stasera sarà a Firenze, domani a San Ginesio (nella splendida cornice del Teatro Leopardi) e sabato al Bloom di Mezzago. Ottima scusa per recuperare uno dei due panegirici che feci a suo tempo di un esordio memorabile come pochi nel nuovo secolo.

Cody ChesnuTT - The Headphone Masterpiece

Ci voleva proprio: anni trascorsi scrutinando nuove uscite e certo non mancano i dischi belli e magari parecchio, ma quasi mai (l’ultima volta era successo con “69 Love Songs” di Magnetic Fields) ti imbatti in uno capace di qualificarsi da subito come un capolavoro, di reggere (crescendo sempre più) la frequentazione prolungata e confronti con i classici conclamati. Quasi mai, ma che brivido quando accade! Si rinnova allora l’inneffabile gusto della scoperta che era comune migliaia di ascolti fa e ricordi perché mai ti sei scelto questo pazzo mestiere. E per un po’ non lo rimpiangi più, perché è avere il privilegio di scrivere di dischi come questo che giustifica sacrifici e frustrazioni che chi legge nemmeno può immaginare. E allora, caro lettore, alza gli occhi dalla pagina, chiama il tuo negoziante di fiducia e chiedigli di procurarti “The Headphone Masterpiece”. Non gli sarà troppo difficile, ora che ha una distribuzione italiana dopo mesi in cui si poteva averlo solo di importazione o ordinandolo all’autore. Fatto? Puoi ricominciare a leggere.

Ti racconterò allora che il nativo di Atlanta, ma residente a Los Angeles, Cody ChesnuTT (esige che si scriva così) è un arrogante di prima grandezza. Ci va una faccia tosta fenomenale per esordire con un album con la parola “masterpiece” nel titolo e per farlo doppio, trentasei brani dentro (tanti sono però fulminei siparietti) e una durata complessiva che sfiora i cento minuti. E ci va del Genio per farla franca come riesce al nostro eroe, che una volta (non molto tempo fa) aveva un gruppo chiamato The Crosswalk e un contratto con un’etichetta importante come la Hollywood Records, e un giorno ha scoperto che quel contratto era stato stracciato, un disco già pronto accantonato e i suoi compagni l’avevano mollato. Scoraggiarsi? Si è invece rinchiuso nel suo studio privato, battezzato con la modestia che lo contraddistingue The Sonic Promiseland, e ha cominciato a buttare giù su un quattro piste, in quasi perfetta solitudine, un compendio di quarant’anni e oltre di musica nera e non solo. Si parte con una miniatura di blues acustico, Music In A Mortal Minute, per la quale Lenny Kravitz e Ben Harper farebbero carte false e dopo c’è di tutto un po’. Ad esempio: un funkaccio alla Rolling Stones chiamato Upstarts In A Blowout, un gioiello di funk virato soul virato pop detto Boylife In America, l’incontro fra Gil Scott-Heron e i Kraftwerk di Bitch, I’m Broke, una The Most Beautiful Shame clamorosamente beatlesiana (dalle parti del “White Album”), una The World Is Coming To My Party che è una sorta di versione black di The Passenger, una ballata folk-blues immane come My Women, My Guitars, il gospel laico e moderno con tracce di B.B. King di When I Find Time, lo storto vaudeville di 6 Seconds. Gli Strokes lo hanno ospitato in un video, i Roots lo accompagnano dal vivo. Cody ChesnuTT è qui per restare ed è la cosa migliore capitata alla musica nera (hip hop escluso) da Prince in poi.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.534, 20 maggio 2003.

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Quando un uomo amava una donna (Percy Sledge, 25 novembre 1941-14 aprile 2015)

Percy Sledge - It Tears Me Up

Nessuno dei nomi che si incontrano in questo volume è legato a un singolo brano quanto Percy Sledge a When A Man Loves A Woman: non solo con ogni probabilità il lento più suonato di sempre (e anche uno dei più fraintesi siccome è l’impulso ad amare puntualmente la persona sbagliata a occuparne il centro; dolente anziché celebratorio il sentimento, come dovrebbe far capire l’organo funereo), ma anche il primo esempio di soul meridionale ad andare al numero uno tanto nella classifica R&B che in quella generalista. Accadeva nel maggio 1966 e di rado esordio è stato tanto fortunato, condannando però nel contempo il suo titolare a venire sempre guardato come un uomo da una sola canzone. Ingiustizia cui il nostro eroe si è peraltro adattato con buona grazia, cogliendo dalla situazione tutto il buono che si poteva, lucrando su revival immancabili in  ogni decennio (negli ’80 grazie a uno spot pubblicitario di una marca di jeans, nei ’90 in forza di una pedestre cover di Michael Bolton e di un film omonimo) e tenendo in piedi una fitta attività concertistica.

Chi volesse avere la bontà di mettersi in casa l’antologia su Rhino “It Tears Me Up” avrà belle sorprese. Scoprirà, per dire, che se Sledge non si è fatto scrupolo di tentare più di una volta di replicare la fortunata formula di When A Man… (la ballata Out Of Left Field un chiaro esempio), è stato altresì fra gli interpreti più validi rintracciabili al crocevia fra country e soul: certificazione più eclatante quella Warm And Tender Love che diede un seguito al primo e più grande successo dell’artista. Che la sua Try A Little Tenderness vale a momenti quella di Otis e la sua Love Me Tender appena un’infinitesimale frazione meno di quella di Elvis. Che Drown In My Own Tears regge il confronto con Ray Charles. Che con la sua batteria ticchettante, l’organo liturgico, i fiati che sono sassate, le chitarre che svisano e funkeggiano, la traccia omonima è una dimostrazione da manuale di soul del profondo Sud (Percy Sledge è nativo dell’Alabama) valida quanto qualunque altra possa venirvi in mente. In una produzione rada che annovera una decina scarsa di LP in tre decenni e mezzo, non si rintracciano titoli che valgano più di una buona raccolta. Bella curiosità che quello per cui le enciclopedie spendono le annotazioni più positive sia “Blue Night”, un’uscita francese del 1994 a tutt’oggi l’ultima dell’immarcescibile Percy.

Pubblicato per la prima volta in Soul e Rhythm & Blues – I classici, Giunti, 2004.

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The Pop Group – Citizen Zombie (Freaks R Us)

The Pop Group - Citizen Zombie

Ancora disturbante per quanto è adrenalinico, si può a malapena evocare oggi in che misura risultò inaudito nel 1979 l’urticante industrial-ska di She’s Beyond Good And Evil, debutto a 45 giri del – mai nome così bugiardo! – Pop Group, da Bristol. Così, qualche mese dopo, la parimenti vetriolica declamazione punk-funk di We Are All Prostitutes. E quelli erano i singoli! Ben più alieni risultarono i due LP – “Y” e “For How Much Longer Do We Tolerate Mass Murder”: caotiche per quanto in una loro strana maniera danzabili collisioni di punk e free jazz, noise e dub – realizzati dal complesso prima di una diaspora che dava vita a Rip Rig & Panic, Maximum Joy, Pigbag. Optava invece per la carriera solistica Mark Stewart e al confronto dei suoi primi dischi (“Learning To Cope With Cowardice”, ma soprattutto l’estremissimo “As The Veneer Of Democracy Starts To Fade”) i lavori della casa madre sembreranno pop sul serio. Così come appariranno un po’ più potabili che nel ricordo quando li si ritirerà fuori nel 2010, alla notizia del tutto inattesa che Stewart aveva rimesso insieme la band per alcuni concerti. Un paio dei quali in Italia e chi scrive fu testimone, dapprima scettico e poi ammirato, di uno. E adesso un album nuovo.

Che ci si possa interrogare sul senso del riesumare tre decenni e mezzo dopo ciò che fu avanguardia ma da allora è entrato nel canone della popular music, ci sta. Che “Citizen Zombie” non aggiunga nulla di indispensabile alla vicenda dei Bristoliani è innegabile. Ma a prenderlo in sé e per sé è un buon disco, che non prova a rifare i predecessori, optando piuttosto per un arrotondamento degli spigoli e un’organizzazione più lineare del sound. Ci scappa persino un pezzo – S.O.P.H.I.A., molto Talking Heads – che potrebbe essere una piccola hit.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.361, marzo 2015.

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