Sei Bob Dylan. Hai settantatré anni e hai plasmato il mondo che tu stesso ancora abiti come nessun singolo autore di canzoni prima e dopo di te. Hai rivoluzionato il folk, il rock, più in generale la popular music in modi che erano semplicemente inauditi. Icona di incomparabile potenza, hai segnato quegli anni ’60 che ancora ci segnano come forse soltanto i Beatles. E anche una volta venuta meno quella centralità culturale hai seguitato, per quanto più saltuariamente, a dispensare illuminazioni di immenso. È da oltre mezzo secolo che sei BOB DYLAN. Il tuo catalogo di classici non ha eguali, non si contano coloro che hai influenzato e diversi dei quali a loro volta sono assurti alla dignità di maestri, con annesso codazzo di discepoli. Sei Bob Dylan. Hai settantatré anni e da lungi ti sei guadagnato il diritto che è un privilegio di fare ciò che in realtà già facevi da giovane: quello che ti pare. Tipo portare avanti (fino all’ultimo?) un “Never Ending Tour” nel quale i classici di cui sopra ti diverti spesso a smontarli e riassemblarli nei modi più implausibili e, per molti, fastidiosi. Oppure pubblicare una collezione di brani tratti dal repertorio di Frank Sinatra. Tu hai il diritto di farlo, noi quello di sbuffare. Rassegnati.
Ci ho provato a farmi piacere “Shadows In The Night”, ci ho provato davvero, al ritmo di minimo un passaggio a settimana e già sono due mesi che è uscito. Ma niente. Ogni volta il blando interesse indotto dalle prime battute di I’m A Fool To Want You svanisce in breve, lasciando il posto a un languore inane se va bene o se no a una noia un po’ stizzita. Più che in altre occasioni giustifico il florilegio di superlativi immancabile in questo secolo, che pure non gli appartiene, ogni qualvolta Sua Bobbitudine fa discendere il Verbo su noi comuni mortali. Intendo cosa volesse fare Lui e capisco che faccia risuonare nella critica anglo-americana corde particolari. Colgo tanto l’antica fascinazione di Dylan per Ol’ Blue Eyes (la condivido pure, in parte) che la vena testamentaria che pervade queste ballate confidenziali, quel sapore di autunno inoltrato in cui è implicito che la primavera si è inesorabilmente ridotta a disapparente ricordo, non più promessa di un qualcosa che tornerà. Saranno pure canzoni senza tempo ma soprattutto sono canzoni che sanno che di tempo non ce n’è più. E anche su quanto segue sono d’accordo: che mai mai mai mai mai in vita sua il nostro uomo aveva cantato così bene e che “Shadows In The Night” è uno dei suoi album meglio prodotti di sempre, se non addirittura, in tal senso, il migliore. Paradossale a dirsi di un disco inciso sostanzialmente in diretta, gli strumenti in studio ad accompagnare la voce senza sovraincisione alcuna.
Tutto estremamente suggestivo, sulla carta. È la realizzazione a non persuadermi, con il suo iterare dal principio alla fine sempre lo stesso tempo, la stessa atmosfera esangue, lo stesso danzare in moviola della pedal steel. Il basso in punta di dita, sullo sfondo una batteria fantasmatica, qui e là un esalare di ottoni. Non si swinga mai in questa notte dove tutte le vacche sono nere ed è nella scelta, che non mi azzarderei a dire incapacità, dell’Omaggiante di misurarsi appieno con la complessità dell’Omaggiato che risiede il fallimento di una scommessa da applaudire solo in quanto tale. Secondo me.
VMO ai suoi vertici di lirico umanesimo, qui.
Anche a me non è piaciuto. Come Van Morrison, Bob Dylan dimostra di non avere più idee. Preferisco di gran lunga il buon vecchio Neil Young. Long may he run!
Ot: ier sera a Bologna sono andato ad ascoltare Howe Gelb e Grant Lee Phillips. Phillips è un cantante fantasmagorico, Gelb è un istrione sempre in bilico fra genio e cazzeggio. Comunque, due ore ben spese, specie nel set in comune. Insomma, stasera sono a Torino, è un consiglio per gli acquisti.