Ci sono due notizie, una buona e l’altra cattiva. La cattiva è che sembra sempre più improbabile che potremo ascoltare un terzo album dai Fleet Foxes. Non avrà insomma un seguito quel “Helplessness Blues” che nel 2011 portava a un apice probabilmente insuperabile la psichedelia post-moderna dell’omonimo esordio di tre anni prima. Pare avessero cominciato a lavorarci nel 2013 ma che più che qualche demo non sia stato prodotto. Da allora Robin Pecknold, autore dell’intero repertorio della band di Seattle, ha ripreso gli studi e questa immagine di una rockstar che alla fama, con tutti gli annessi e connessi, preferisce la solidità borghese del pezzo di carta stranisce. E la notizia buona? Che Joshua Tillman, che dei Fleet Foxes era il batterista e soprattutto l’arrangiatore ma per il quale costoro non sono stati che una parentesi in una solida vicenda artistica personale non ha intenzione di imitare Pecknold. A poco meno di tre anni da quel “Fear Fun”, più ruffiano e anni ’70 delle produzioni dell’ex-casa madre ma quasi al pari ammirevole, con cui faceva debuttare l’alias Father John Misty si riaffaccia alla ribalta e gli applausi che scrosciano sono stavolta anche più convinti e giustificati.
Regia di nuovo curata da Jonathan Wilson, “I Love You, Honeybear” sposta il baricentro ancor più verso i ’70, certa California più sardonica che acida, il pop. È un disco di melodie ammiccanti e arrangiamenti importanti, che conferma i Beach Boys di “Pet Sounds” fra i numi tutelari ma affiancando loro Harry Nilsson e soprattutto (la pianistica Bored In The USA un capolavoro di sarcasmo) Randy Newman. Fra gli undici brani un classico istantaneo, When You’re Smiling And Astride: come un George Harrison prestato ai Pink Floyd e domiciliato a Los Angeles.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.361, marzo 2015.