E insomma sembrerebbe proprio che il vecchio (sessant’anni portati malissimo, ma tanta grazia che sia fra noi con la vita spericolata che ha condotto) fuorilegge di Nashville, l’uomo con più matrimoni e divorzi di Liz Taylor (sette più sette, gli tocca andare in tour per pagare gli alimenti) si sia affezionato agli album “a tema”. Se non lo era, se non stiracchiando molto il concetto (un piccolo “On The Road”, ma più con lo spirito di un Woody Guthrie che non di un Kerouac) l’ultimo “The Low Highway”, lo erano stati in precedenza la collezione di canzoni con come argomento il nostro essere mortali “I’ll Never Get Out Of This World Alive”, naturalmente il tributo al cattivo maestro e amico Townes Van Zandt “Townes”, l’omaggio a New York “Washington Square Serenade” e se vogliamo pure “The Revolution Starts… Now”, il più politicizzato dei suoi dischi. E a questo giro? A questo giro l’uomo cassato dall’industria musicale all’inizio della sua carriera perché troppo country per piacere al pubblico del rock, e troppo rock per piacere al pubblico del country, si dà appassionatamente al blues. Con esiti divertiti e divertenti.
Intitolato all’automobile che mise su quattro ruote l’America proletaria e ispirò a Robert Johnson uno dei suoi testi più birbanti, “Terraplane” lo declina nelle forme più varie, dal ragtime del delizioso duetto ammiccante e sexy Baby’s Just As Mean As Me a un King Of The Blues che si può immaginare da certi protagonisti del grunge o dello stoner. Con tutto o quasi quello che può starci in mezzo, sia una campagnola Ain’t Nobody’s Daddy Now o una The Tennessee Kid declamatoria alla John Lee Hooker, siano i Canned Heat che rivivono in Baby Baby Baby (Baby) o i primi Rolling Stones rievocati da The Usual Time.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.361, marzo 2015.