Per Lowell George, che oggi avrebbe settant’anni

E invece no, perché ci lasciava – fatto e disfatto – quando ancora non ne aveva compiuti la metà, di settanta. I “suoi” Little Feat restano un esempio inimitato perché inimitabile di Americana. Questione di irriproducibilità di un suono e un modo di scrivere di un’originalità assoluta. Tantopiù rimarchevole perché raggiunta partendo da materiali che più codificati non si potrebbe: blues e country, folk e funk, soul, jazz e rock’n’roll.

Lowell George 2

La Willin’ che si affaccia quasi in chiusura di prima facciata in “Little Feat” è non poco diversa da quella che, collocata nella medesima posizione, un anno e un mese dopo si farà indiscutibile capolavoro di quell’indiscutibile capolavoro che è “Sailin’ Shoes”. Nondimeno è già meravigliosa così: scheletrica e sgangherata (la voce in una tonalità errata e apposta l’autore vorrà rifarla), dolente più che epica a dispetto del piglio più svelto. La precedono il rock in tempo medio e con la slide in gran spolvero di Snakes On Everything, la stoniana Strawberry Flats, il country Truck Stop Girl e la complessa ballata in scia a The Band sin dal corredo di suggestioni bibliche che la caratterizza Brides Of Jesus. Sigilla la prima facciata lo shuffle pianistico Hamburger Midnight ed è inevitabile che, dopo Willin’, paia la mezza battuta a vuoto che singolarmente non è. Inaugurato da un medley di due classici delle dodici battute, How Many More Years di Howlin’ Wolf a seguire il Forty-Four Blues di Roosevelt Sykes, in cui i Little Feat più che giocare a essere la Band giocano a essere la Magic Band, il secondo lato mette in fila quella contraddizione in termini di ballata uptempo chiamata Crack In Your Door, le ballate vere I’ve Been The One (particolarmente accorata) e Takin’ My Time (un che da Jackson Browne) e una gemma deliziosamente approssimativa di eccentricità Fab Four come tagliata da un Van Dyke Parks chiamata Crazy Captain Gunboat Willie.

Cose che rendono differente il primo Little Feat da tutti gli altri che gli andranno dietro: che sia l’unico con George e Bill Payne paritariamente al comando (quattro brani firmati congiuntamente, tre solamente dal primo, due dal secondo); che sia l’unico con un ospite che finisce quasi per essere un componente aggiunto (Ry Cooder, slide in sei pezzi ed è bizzarro considerando che Lowell George diverrà a breve la slide più riconoscibile della storia del rock); che sia l’unico sul cui davanti di copertina c’è una foto. Già il disco dopo esibirà il primo di tanti surreali dipinti di Neon Park (al secolo Martin Muller, 1940-1993) e negli annali della popular music non si danno altri casi al pari eclatanti di un grafico tanto caratterizzante e in sintonia con le sonorità illustrate da potere essere considerato parte integrante della cifra stilistica di un gruppo.

È come un salto quantico quello che si compie negli appena tredici mesi che separano “Little Feat” da “Sailin’ Shoes” (quanto quantico? come se i Beatles fossero passati direttamente da “Please Please Me” a “Rubber Soul”), ancora con Ted Templeman al mixer e lui pure tanto migliorato da non parere lo stesso.

Non è “solo” come se ogni tesserina andasse al suo posto. È che il disegno complessivo risulta insieme fantasticamente più nitido e particolareggiato, varietà di suoni e accenti e godibilità incrementate al quadrato e la slide di Lowell George ovunque come è ovunque la sua firma: sette canzoni soltanto sue più una a quattro mani con Martin Kibbee a fronte di tre di Payne, una delle quali in collaborazione con il batterista Richard Hayward. Squisito paradosso che nel preciso istante in cui da una leadership condivisa si passa a un’illuminata dittatura i Little Feat suonino più gruppo di prima, perfetta macchina al cui gioco armonioso di ingranaggi non aggiungeresti né sottrarresti nulla e invece quel gran genio di Lowell George riuscirà per un po’ ad aggiungere senza fare andare fuori strada. Se assumiamo a discriminante la qualità della scrittura “il” disco dei Little Feat da avere è questo, ciascuno degli undici brani destinato a farsi cavallo di battaglia e la capacità pazzesca di transitare senza suture apparenti dall’immediatezza pop di una Easy To Slip che sarebbe bastato aggiungerci un ritornello (i Doobie Brothers lo avrebbero fatto) per trasformarla nella hit che non fu al rock sudato e imbrillantinato di Cold Cold Cold e, da quello, alla ballata acustica con un nucleo disturbato sotto una scorza di dolcezza di Trouble. Di fare coesistere rock’n’roll a rotta di collo quali Tripe Face Boogie e una Teenage Nervous Breakdown affacciata su precipizi di isteria con gli ammiccamenti funky-jazz di Got No Shadow, blues stentorei come A Apolitical Blues, dondolanti come Cat Fever e fratturati come Texas Rose Cafe e il folk colto e stralunato alla Van Dyke Parks (che difatti prontamente se ne appropriava) della title track. E poi c’è una Willin’ come nuova, il piano di Payne che trilla ed è come fosse lui a sospingere avanti “da Tucson a Tucumcari, da Tehachapi a Tonapah”, luoghi da allora nell’immaginario mistico di ogni innamorato dell’America, il camionista che si ingegna a sconfiggere la stanchezza che lo attanaglia con “weed, whites and wine”, marijuana, coca e vino, ed è Lowell che anticipa senza saperlo la propria biografia. Da un brutto giorno di qualche anno dopo non sarà più possibile, ascoltandola, negarsi la nettezza del presagio e trattenere una lacrima.

Viene da urlare: “Sailin’ Shoes” vende giusto qualche migliaio di copie più del predecessore, stenta ad arrivare a venti e, se erano stati i buoni uffici di Parks (uno d’altro canto abituato di suo a collezionare dischi di latta invece che d’oro o platino) a scongiurare il licenziamento del gruppo all’indomani dell’uscita dell’esordio, a questo giro è la mazzetta delle recensioni entusiastiche a conservare nella scuderia Warner i nostri eroi. Dire a conservare loro un lavoro sarebbe troppo e di quanto siano miserevoli le condizioni economiche in cui versano è illustrazione paradigmatica che Roy Estrada a malincuore abbandoni la compagnia, per potere guadagnare qualche dollaro in più. E a chi si unisce? A Captain Beefheart! Viene da ridere. La bocca resta spalancata ma è stupore derivante dal constatare come Lowell George (che tanto per non perdere l’abitudine a suonare in classici negletti ha nel frattempo prestato i suoi servigi al John Cale di “Paris 1919”; rimarrà la session più memorabile, con “Tarzana Kid” di John Sebastian, del ’74) in luogo che acconciarsi a qualche compromesso rilanci. Sempre più impossibilmente ambizioso, oltre che suo, il progetto. Dove non c’era da mangiare per quattro potrà bene non esserci per sei. Bocciato come bassista ai provini per sostituire Estrada, Paul Barrère entra in squadra come chitarrista ritmico. Come bassista viene ingaggiato invece Kenny Gradney, da Delaney & Bonnie. “Avreste mica bisogno di un suonatore di conga?”, chiede, volendo raccomandare l’amico ed ex-compagno di gruppo Sam Clayton. George non ci aveva mai pensato ma coglie l’occasione. Sia Gradney che Clayton sono di colore, di New Orleans, maestri di quel mosso funk (l’opposto della fissità minimale di un James Brown) che è solo della città della Lousiana. Con il loro ingresso il tasso di negritudine della band, fino a quel punto di derivazione precipuamente blues, sale nettamente. Mentre l’arrivo di Barrère consente al leader di concentrarsi definitivamente sulla slide e variare e complicare ad libitum le tessiture chitarristiche.

Lowell George

Se assumiamo a discriminante la qualità del suono “il” disco dei Little Feat da avere è allora “Dixie Chicken”, che vede la luce a undici mesi dal predecessore ma per Lowell George sono stati undici mesi dei quali dirà che “mi hanno fatto invecchiare cinque anni”. Fatto è che ha voluto avocare a sé, oltre a quelli di cantante, chitarrista e principale autore (cinque canzoni su dieci firmate da solo, una con Payne, una con Kibbee sotto le mentite spoglie di Fred Martin), pure il ruolo di produttore e ha dovuto trasformare in pratica cammin facendo la teoria insegnatagli da Zappa. Fatto è che con quell’apprendere per prove ed errori mal si concilia la voglia – già quasi una smania, già quasi un’ossessione – che tutto sia impeccabile. Eppure tutto è impeccabile. Eppure tutto scorre con una fluidità e una naturalezza che non diresti mai frutto di giornate interminabili trascorse suonando e risuonando e notti al pari infinite passate mixando, per poi la mattina dopo mettersi a correggere le parti sulle quali ci si è scoperti dubbiosi. Pare invece di essere lì in studio a godersi ammirati la band in diretta, buona la prima per quanto sia chiaro che quella prima è stata a lungo provata. Del resto dal vivo – e sono i concerti che piano piano stanno facendo montare il mito del gruppo – i Little Feat sono così: talmente precisi da potersi concedere di essere rilassati.

Che è la sensazione che trasmette in toto il loro terzo 33 giri, da una traccia omonima intreccio morbidamente mozzafiato di percussioni sincopate, piano barrelhouse, voci femminili e slide svagata al dinoccolato, torpido procedere dello strumentale Lafayette Railroad. Passando per il caracollare funk di Two Trains e il dipanarsi malinconico dell’acustica Roll Um Easy, per la superba rilettura dell’Allen Toussaint romantico di On Your Way Down e una lunare Kiss It Off, per il country-soul Fool Yourself e una Walkin’ All Night sculettante à la Stones, per un’esultante, corale Fat Man in The Tub e la serenata Juliette. “Dixie Chicken” è il capolavoro dei Little Feat per molti di quelli che non votano per “Sailin’ Shoes”. Per tutti gli altri c’è “Feats Don’t Fail Me Now”: la magnifica fine di un inizio, il magnifico principio di una fine.

Dato alle stampe nell’agosto 1974, è questo l’ultimo capitolo indispensabile, imprescindibile del magnum opus georgiano. Qui ulteriori elementi – gli ottoni dei Tower Of Power, un sentore di jazz mai così evidente prima ma che lo sarà parecchio di più dopo – si aggiungono al quadro senza però che questo né perda coerenza né finisca per risultare sovraccarico di tratti e colori. Qui il nostro uomo comincia ad allentare le redini (due soli brani dei sette inediti tutti suoi, altri tre frutto di collaborazioni, uno concesso a Payne, uno a Barrère) ma tiene ancora per sé la direzione. È un “Dixie Chicken” più duro e denso, energico e scintillante, ancora più negro, danza da danzare euforici in una notte che pure minaccia – lo dichiara esplicitamente una copertina bellissima – tempesta. Ma stavolta più delle canzoni – e benché sia pur sempre il disco di una Rock And Roll Doctor molto soul in barba al titolo, della festa tumultuosa di Oh, Atlanta, di una Spanish Moon da Earth Wind & Fire in stato di grazia (alla batteria – guarda un po’! – Freddy White, fratello di Maurice) – restano in memoria i suoni. Suggerito dal recupero in medley a suggello delle stranote Cold Cold Cold e Tripe Face Boogie (e all’epoca oltrettutto si ignorava che The Fan fosse uno scarto del debutto), il sospetto che l’ispirazione vada appassendo si fa strada un attimo, salvo venire spazzato via dall’incisività dei nuovi arrangiamenti.

Tratto da L’artista sequestrato. Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.182/183, luglio/agosto 2013.

15 commenti

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15 risposte a “Per Lowell George, che oggi avrebbe settant’anni

  1. Tutto molto bello e tutto vero, a parte una cosa: Lowell George la slide più riconoscibile del rock. È un titolo che è sempre stato e resterà tra Nashville e Macon, passando per il Fillmore East.

  2. Francesco

    concordo con Orgio, qui il VM si era fatto un po’ prendere la mano..

  3. E non per fare polemica gratuita, ma solo per amor di discussione, si potrebbe obiettare anche sulla definizione tra grafico e band come unico caso nella storia del rock in cui la sinergia è stata tale da rendere il primo parte della cifra stilistica della seconda. In realtà, mi pare che casi del genere non manchino e che, comunque, siano riferibili ad altri, diversi dai Little Feat: Roger Dean con gli Yes; Derek Riggs con gli Iron Maiden; Mark Wilkinson con i Marillion. E poi ce ne saranno sicuramente altri che non mi sovvengono.

  4. Francesco

    e Cal Schenkel x zappa? si il VM si era fatto prendere la mano

    • Non per polemica, naturalmente, ma appunto per amore di discussione.. Schenkel, che oltretutto è principalmente un grafico e non un illustratore, è stato autore di molte copertine di Zappa ma il rapporto fra i due non era assolutamente esclusivo. Vale tanto di più, la non esclusività del rapporto, per Roger Dean con gli Yes e un po’ pure per Wilkinson con i Marillion. Su Derek Riggs posso invece essere d’accordo.

      • Grazie della risposta.
        Nemmeno Neon Park mi pare abbia lavorato in esclusiva per i Feat, ancorché la maggior parte delle sue opere faccia riferimento a loro. D’altronde, nemmeno il curare l’artwork in esclusiva per un gruppo comporta necessariamente l’influenzarne la cifra stilistica: vedi Curt Kirkwood.
        Insomma, Neon Park ha segnato la cifra stilistica dei Little Feat, ma nella storia del rock non è stato l’unico illustratore ad influenzare le sonorità del gruppo per cui ha precipuamente lavorato. Tutto qua.
        L’articolo resta bello e sentito, beninteso.

      • È meno di un terzo dell’articolo. Intero poté leggerlo chi si comprò quel numero di “Blow Up”.

  5. Mi fa piacere leggere qui (e ammetto con un po’ di stupore) qualcosa circa i Little Feat. Una band troppo intelligente e in parte sottovalutata dalla critica bigotta ed, al tempo stesso, ignorata da molte, quasi tutte, riviste italiane – che si innamorano spesso di gruppi inutili e cagate pazzesche dal retrogusto alternativo. Quindi bene. Condivido in particolare il giudizio dato ai primi due album che vedevano Roy Estrada nella banda. Grosso il loro debito verso Captain Beefheart (Hamburger Midnight e A Apolitical Blues, per non parlare dei primissimi lavori pseudoufficiali di Lowell George), vero maestro del (non) blues americano di seconda generazione. Aggiungo, ma forse lo dicevi nel resto dell’articolo, che Waiting For Columbus è probabilmente il migliore album dal vivo di sempre (combatte solo con The Last Waltz, più debole e più autocelebrativo in certi momenti ma testimonianza di un periodo musicale irripetibile), vero disco da isola deserta, aspettando appunto la colomba. Un lavoro in cui entra in scena (oltre ai cactus mobili e pittoreschi animali danzanti sui palchi del Rainbow e del Lisner Audutorium; oltre alla follia compositiva; oltre al magico Mick Taylor in a Apolitical Blues) l’enanziosi dei frutti di George e Payne, assente o non raggiunta nei due dischi ”The Last Record Album” e ”Time Loves a Hero” del 1977. Un gruppo unico, quello di Lowell George, non quello che risorse a metà qualche anno dopo. Lui, la mente, il virtuoso tra i virtuosi, l’Orson Welles del rock n’ roll più volte definito da una storica rivista americana (non le cacata carta italiana, questa volta in toto, sì, anche quelle su cui scrivi) ”la cosa più vicina a Bob Dylan”. Alcune volte ascoltare la Bonnie Raitt più nervosa (Road Tested 1995) risulta essere una dovuta celebrazione dello stile di Lowell George maestro della capellona dal pelo rosso e maestro dello slide, senza pari. “… I don’t care if it’s John Wayne I just don’t want to talk to him now”. Saluti.

  6. harper roy

    differenze abissali tra la slide affilata di Lowell e quella altrettanto contundente di fratello allman ! il primo succhiava da ogni genere, scremando un sunto di stli enciclopedico! il secondo più radicale e osservatore del dogma blues! giusto asserire che quella di george sia stata la slide più riconoscibile del rock! Perché a suo agio con partiture eterogene dense di sfaccettature che abbracciavano l’intero spettro della musica tutta! Una chitarra e un uomo che succhiavano la luce per fabbricare il fuoco!!!!

  7. Giancarlo Turra

    no, ma scusate, e Ry Cooder ?????

  8. Giancarlo Turra

    ah per me Ry Cooder è rock eccome. 😀

    • Lo è senza dubbio. Solo che, come sai meglio di me, non è solo (meglio ancora: prevalentemente) rock…

      • Giancarlo Turra

        Stilisticamente non c’è dubbio: è un calderone “a sé”, direi. Per questo, spiritualmente, lo trovo molto rock, per come intendo io il concetto alla base della cosa rock 🙂

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