Ci lasciava dodici anni fa a oggi. Così la ricordavo sulle pagine dell’allora settimanale “Il Mucchio”.
Dicono che la signora, che del resto ha sempre avuto un carattere battagliero, negli ultimi anni fosse divenuta un tipino di quelli che è meglio non contraddire, mai. A fare le spese della sua irascibilità, prima il figlio di una vicina di casa, preso a pistolettate perché colpevole di avere disturbato la concentrazione dell’artista nota come Nina Simone, ma nata Eunice Kathleen Waymon. Poi un discografico, sottoposto al medesimo trattamento perché qualcosa non tornava nel conteggio dei diritti d’autore. Si può supporre che il contratto sia stato prontamente modificato a favore della cantante e un po’ sorriderne, dacché il signore in questione è sopravvissuto senza danni alla disavventura. Soltanto un po’, siccome Nina Simone, che ci ha lasciati lo scorso 21 aprile, settantenne, aveva i suoi buoni motivi per non fidarsi dell’umanità in generale e in particolare degli squali che nuotano nelle acque del business discografico. Ne aveva sposato uno nel 1961 e quando un decennio dopo divorziarono scoprì che costui si era preso come buonuscita un quarto di milione di dollari, più o meno tutto quello che possedeva. E quanto al resto del genere umano, i bianchi soprattutto…
Afroamericana con nelle vene sangue pellerossa e irlandese, Eunice imparava presto il significato della parola “discriminazione”: quando per la prima volta suonava il piano in pubblico, a otto anni, il padre e la madre venivano isolati in platea, evento che metteva in diversa prospettiva l’amore per Bach e il fatto che i suoi studi fossero stati pagati da una signora bianca. La passione per la musica classica nondimeno sopravviverà al giustificato furore nei riguardi della cultura che l’ha espressa e contribuirà, con l’altrettanto pronunciata inclinazione per gospel, blues e jazz, a forgiare uno stile di soul unico, inclassificabile, già ben delineato nel sensazionale esordio del 1958 “Little Girl Blue”, l’album sul quale stanno i due più grandi successi di Nina Simone, una versione della gershwiniana I Loves You Porgy che incontrava subito il favore del pubblico e quella My Baby Just Cares For Me, capolavoro di spumeggiante romanticismo, che diverrà un hit ventinove anni più tardi, grazie allo spot di un profumo. Una delle due canzoni di Nina Simone che il lettore di questo giornale che pure nulla ha di lei in casa conosce sicuramente, essendo l’altra quella Lilac Wine sulla quale Jeff Buckley ricalcherà sin nei dettagli la sua struggente interpretazione, come potrete verificare procurandovi il disco del ’67 che la contiene, il meraviglioso “Wild Is The Wind”, ristampato qualche tempo fa in un compact che gli affianca l’altrettanto valido “High Priestess Of Soul”. È uno dei tre CD da possedere assolutamente, essendo gli altri due il già nominato “Little Girl Blue” e quello che accoppia “& Piano!” e “Silk & Soul”, di un’artista e una donna straordinaria, che fu amica di Langston Hughes e James Baldwin e una figura chiave del movimento per i diritti civili, apprezzata da Martin Luther King come da Malcolm X. Pianista sublime e ultima di una serie di grandi voci femminili che ha incluso Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Dinah Washington.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.534, 20 maggio 2003.