Archivi del mese: Maggio 2015

Rolling Stones: il più grande spettacolo dopo il Bigger Bang

Il lettore di VMO che abbia la fortuna di risiedere a Columbus, Ohio (immagino ce ne siano… uh… un mucchio), starà probabilmente per mettersi in coda davanti al locale stadio per assistere fra qualche ora alla seconda data del “Zip Code Tour”, ennesima campagna concertistica dei Rolling Stones. Da Jagger, Richards, Wood e Watts ormai un album nuovo non ce l’aspettiamo più e l’ultimo, il sorprendente in positivo “A Bigger Bang”, risale a ben undici anni fa. La lunghissima tournée che gli andava dietro veniva documentata da un poker di DVD altrettanto formidabili.

Rolling Stones - The Biggest Bang

Un’inveterata e invereconda T.R.O.I.A.: che a Austin canta Bob Wills Is Still The King e a Shanghai duetta con una rockstar locale; che a Rio de Janeiro si presenta alla ribalta con una T-shirt verdeoro e a Buenos Aires con la maglia della nazionale di calcio argentina (a Milano con quella dell’italiana, fresca di titolo mondiale); che blandisce i giornalisti giapponesi rivolgendosi loro nell’idioma locale e quelli di qualunque altro paese confessando che il pubblico più caldo è… dove diavolo è che suoniamo stasera? Mick Jagger è una zoccola per professione ma pure per vocazione, talmente sfacciata da conservare a oggi, dopo oltre (un bel po’ oltre) quarant’anni di onorata professione, una certa… innocenza che finisce per farla irresistibilmente simpatica. Tantopiù ora che, se il fisico si mantiene incredibilmente asciutto e in forma per uno della sua età (vale per tutti i – massì! – ragazzi della band), il volto è ormai un reticolo di rughe. Colossale – quattro DVD per abbondanti sette ore – come il tour che documenta, The Biggest Bang è la testimonianza di un miracolo: di come sia possibile suonare il rock’n’roll a sessant’anni suonati divertendosi come pazzi. Conservando una dignità che gli Stones un quarto di secolo fa erano andati assai vicini a perdere ma, per dirla con Dylan, erano molto più vecchi allora, sono molto più giovani adesso.

Invano cercherete un che di patetico in un’estenuante campagna concertistica affrontata con cameratesco spirito da soldati. Invano cercherete una ruga non sui volti di Mick, Keith, Ron e Charlie ma su un repertorio da immortali eseguito con una vivacità e una grinta pazzesche e producendosi in un secondo miracolo: quello di rendere in qualche modo intima, da club, l’atmosfera in stadi affollati a ogni tappa da parecchie decine di migliaia di persone. Ecco: l’altro protagonista di The Biggest Bang è il pubblico. Addirittura un milione e duecentomila (dati non degli organizzatori ma della questura) sulla spiaggia di Copacabana. Vedere pogare all’unisono tre chilometri di persone è uno spettacolo che mozza il respiro. Lascia senza fiato l’energia. Lascia senza fiato l’ondata di affetto che sale da quel mare di teste e braccia verso lo smisurato palcoscenico, fino a sommergerlo. Mi sia consentita un’ultima annotazione: ho sempre pensato che la differenza fra un gruppo figo e uno sfigato sia data dalla quantità di figa che si agita fra le prime file. Qui ce n’è più che a una convention di “Playboy”.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.638, settembre 2007.

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The Shape Of Rock To Come: i Quicksilver Messenger Service di “Happy Trails”

Parola di Tom Verlaine: senza i Moby Grape non ci sarebbero probabilmente stati i Television. Parola mia e di tanti altri: anche senza i Quicksilver Messenger Service di “Happy Trails”. Impossibile non cogliere la prossimità fra i duelli chitarristici inscenati da Verlaine con Richard Lloyd e quelli fra Gary Duncan e John Cipollina. Quest’ultimo ci lasciava, appena quarantacinquenne, il 29 maggio 1989.

Quicksilver Messenger Service - Happy Trails

Della San Francisco del magico biennio psichedelico ’66-’67 i Quicksilver Messenger Service sono i protagonisti principe con Jefferson Airplane e Grateful Dead, invariabilmente presenti nei momenti cruciali – allo “Human Be In” come al “Monterey Pop Festival” – e perennemente in cartellone al Fillmore come all’Avalon Ballroom. Eppure: preceduto di qualche mese dalla partecipazione con due brani non autografi – una versione definitiva della narcotica Codine; una singolare lettura di quella Babe I’m Gonna Leave You che i Led Zeppelin renderanno ben più efficacemente – alla colonna sonora del film(etto) Revolution, l’omonimo debutto a 33 giri dei Nostri non vedrà la luce che nel maggio 1968, Jefferson e Dead già superstar. Nella vulgata comune è un LP interessante, certamente gradevole ma colpevole del medesimo peccato che macchia “Grateful Dead”, ossia di non riuscire a riprodurre la magia dei concerti. È vero solo in parte e, di sicuro, non per il gran finale di The Fool: 12’10” onirici e sulfurei, eterei e turgidi, gioco in moviola di vuoti e pieni, sublime western mentale che Morricone per certo apprezzerebbe. Per il successore si riteneva in ogni caso saggio organizzarsi altrimenti.

E però in The Fool “Happy Trails”, in massima parte registrato dal vivo nel novembre ’68 e spedito nei negozi cinque mesi dopo, già era contenuto pressoché per intero. Non fanno che portarne alle conseguenze estreme l’idea di un acid rock concepito come fosse free jazz i venticinque minuti mozzafiato di una Who Do You Love – da Bo Diddley – qui tribale e là ustionante, rarefatta ma muscolare, che ora è liturgia e un attimo dopo gorgo orroroso che inghiotte per risputare al centro di una favola. Qui gli anni ’60 più arditi. Qui, da qualche parte fra Sister Ray e Dark Star. Qui, oppure in un secondo lato che parte ancora da Bo Diddley, stavolta da Mona, per approdare, avendo lambito qualsiasi landa fra il flamenco e il blues, al country da vaudeville di una traccia omonima con tanto di fischiettata. E di nuovo Morricone approverebbe.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti, 2012.

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The Old Man Down The Road: John Fogerty dopo i Creedence

John Fogerty compie oggi settant’anni. Lo festeggio ripescando un resoconto della sua vicenda artistica post-Creedence Clearwater Revival cui per essere aggiornato mancherebbero giusto il grazioso “The Blue Ridge Rangers Rides Again” (2009) e l’autocelebrativo “Wrote A Song For Everyone” (2013).

John Fogerty

Qualche numero? Stando agli ultimi dati disponibili, quelli del 2006, alla faccia della crisi della discografia annualmente nei soli Stati Uniti continuano a volatilizzarsi 350.000 CD dei Creedence Clearwater Revival, un gruppo che dal 1968 a oggi si calcola, approssimando per difetto, che di dischi ne abbia venduti trenta milioni: venti di album e dieci di singoli. Quanto sia ancora straordinariamente forte l’appeal del marchio è dimostrato anche dalle incredibili cifre – 700.000 copie – totalizzate da “Recollection”, il doppio live pubblicato nel ’98 dai Creedence Clearwater Revisited, ragione sociale con la quale sin dal ’95 e a tutt’oggi girano Stu Cook e Doug Clifford, più variabili accoliti, facendo anche cento date all’anno. Un avvilente jukebox o un commovente tributo al bel tempo che fu e, lui pur nolente, al genio di John Fogerty? Fate vobis. Sempre a proposito di numeri: il Bordowitz, citato diverse volte nel corpo centrale di questa monografia, dedica 146 pagine a raccontare la storia dei CCR, prodromi compresi, fino allo scioglimento. Per dettagliarci sui successivi deliri gliene servono 170 e d’accordo che le usa anche per riferire delle varie vicende solistiche, principalmente dell’unica degna di nota, ma la sproporzione è clamorosa. Sempre a proposito di numeri ma in questo caso nel senso di gente che li dà: nella spesso folkloristica e talvolta drammatica storia dei contrasti finiti in tribunale fra etichette e artisti non si ricorda una causa più grottesca di quella intentata nel 1986 dalla Fantasy a John Fogerty, accusato di plagio… di sé stesso. Troppo simile The Old Man Down The Road, singolo di punta del vendutissimo “Centerfield”, a Run Through The Jungle dei Creedence. Oltre che a Green River, dal che si deduce che la Fantasy – che naturalmente perdeva, mentre Fogerty doveva acconciarsi dal suo canto a più miti consigli smorzando un velenoso attacco a Saul Zaentz presente sempre in “Centerfield” – il nostro uomo avrebbe dovuto metterlo sotto tiro già nel 1970. Sarebbe stato lievemente illogico, un ammazzare la gallina dalle uova d’oro? Certamente, ma di logico non c’è mai stato alcunché nella lotta all’ultima lettera (di avvocati o ai giornali) che per oltre tre decenni ha opposto John Fogerty alla Fantasy, la Fantasy ai Creedence, la Fantasy e il resto dei Creedence a John Fogerty. In un “tutti contro tutti” originato non soltanto dai contratti-capestro di cui ho riferito altrove ma anche dalla totale mancanza di flessibilità da parte dei contendenti. Rifiuto di perdermi e perdervi in un percorso labirintico e disarmante e torno piuttosto sull’indubbia somiglianza fra The Old Man Down The Road e Run Through The Jungle/Green River. Per annotare che con due rilevanti eccezioni, una in positivo e una in negativo, in una carriera in proprio proceduta a strappi e con silenzi talvolta lunghissimi (causa cause, blocchi creativi, esaurimenti nervosi) fra un’uscita e l’altra, John Fogerty è stato sostanzialmente fedele al canone disegnato con i CCR nel magico triennio ’68-’70. Aggiungendo un discreto gruzzolo di canzoni memorabili a un rilevantissimo patrimonio già con i crismi della classicità.

Spiazzante ma assolutamente soddisfacente la prima sortita, ancora su Fantasy, datata 1973 e presentata come opera di un gruppo inesistente, tali Blue Ridge Rangers. In realtà Fogerty (uno che giocasse a calcio farebbe il portiere, il difensore, il centrocampista, l’attaccante, l’allenatore, il presidente e se possibile pure l’arbitro) non solo vi suona tutti gli strumenti ma fa anche tutte le voci. Lo stile è country della più bell’acqua, la scaletta tutta di cover e l’album, nel complesso delizioso, ha citabilissimi vertici nella spumeggiante Jambalaya (già di Hank Williams), nella tenerissima Today I Started Loving You Again e in un programmatico California Blues (Blue Yodel No.4). Come minimo. Due anni dopo l’esordio solistico “vero”, l’omonimo “John Fogerty”, pur’esso realizzato in perfetta solitudine e pubblicato da una Asylum che ha comprato il contratto del Nostro dalla Fantasy, riporta in zona “Willie And The Poor Boys”/”Cosmo’s Factory”. Con verve molto prossima a quella di quei due capolavori. Almost Saturday Night è una nuova (e superiore!) Down On The Corner, Rockin’ All Over The World una seconda Travelin’ Band. I riscontri commerciali sono modesti se paragonati all’era Creedence, ma non disprezzabili, e per l’artista californiano sembrerebbe che una seconda età aurea sia alle porte. Invece no: da lì a qualche mese confeziona “Hoodoo”, una boiatella (persino qualche scivolata nella disco) brutta ma così brutta che alla Elektra, per i cui tipi dovrebbe uscire, gli suggeriscono di ripensarci. Se insiste la daranno alle stampe, ma per la reputazione dell’autore sarebbe meglio di no. Per la prima e unica volta in vita sua Fogerty dà ragione a un discografico, ringraziandolo anche. Chi ha bootlegato questo 33 giri probabilmente lo odia il nostro – ahem – eroe.

La reazione del mondo alla pubblicazione, per la Warner, di “Centerfield” può essere riassunta in quattro parole e un punto esclamativo: “Non ci posso credere!”. L’incredulità è duplice: per cominciare lascia stupefatti il semplice fatto che, a quasi dieci anni dal precedente, John Fogerty pubblichi un LP; poi e ancora di più che per esso si possa serenamente spendere una parola forte come “capolavoro”. La stampa applaude estasiata, il pubblico risponde con pari entusiasmo spedendo The Old Man Down The Road al numero dieci in classifica, una giubilante Rock And Roll Girls al venti e l’album dritto al primo posto. Una title track da allora suonata in ogni partita di baseball negli Stati Uniti e l’omaggio a Elvis di Big Train (From Memphis) sono irrinunciabili in un’ideale antologia fogertyana. Visti risultati tanto brillanti, alla Warner purtroppo non se la sentono di imitare la Elektra rifiutando nel settembre ’86 “Eye Of The Zombie”, un equivalente per il Nostro (a parte che almeno il vocoder ce lo risparmia) di quello che era stato per Neil Young “Trans”. Pessimi gli arrangiamenti venati di elettronica, ondivaga ma mai apprezzabilmente ispirata – fra batterie squadrate, riffoni esagerati e malintesa dance – la scrittura. Da evitare.

Lo schema che prevede una coppia di album editi a distanza ravvicinata e seguiti da silenzi apparentemente senza fine è confermato dagli undici anni di attesa per “Blue Moon Swamp”, prova in studio gagliarda e sottovalutata sul versante dei Creedence più campagnoli (Hot Rod Heart e Swamp River Days gli indiscutibili classici), tallonato a un anno e un mese (ancora e per l’ultima volta su Warner) dall’ottimo live “alla carriera” “Premonition”. Era da un quarto di secolo che John si rifiutava di affrontare dal vivo materiali Creedence. Da qui in avanti vivaddio si rifarà.

“Deja Vu All Over Again” si fa aspettare “appena” sei anni e Crosby Stills Nash & Young non c’entrano: c’entra una guerra in Iraq sempre più simile a quella nel Vietnam e che fa tornare il Nostro, nella traccia che apre e battezza il lavoro, a una polemica politica diretta e aspra. Il disco, che vede la luce per la Geffen e resterà l’unico con tale griffe, paga come effetto complessivo il suo saltabeccare di palo in fresca (ditemi un po’ voi se She’s Got Baggage non sono i Ramones) ma compositivamente è solido e insomma un’aggiunta benvenuta a un catalogo davvero smilzo se si contano gli anni lungo i quali si distribuisce.

Siamo a ieri l’altro, all’ottobre 2007, a “Revival” e mai titolo fu così ammiccante. Dentro ci trovi addirittura una Creedence Song. Dietro il marchio che mai avresti immaginato di rivedere: Fantasy. Saul Zaentz l’ha venduta e la nuova proprietà si è affrettata a fare ponti d’oro all’uomo cui l’etichetta deve da quattro decenni le sue fortune. La faida è finita, andate in pace.

Tratto da Il blues della luna cattiva. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.28, inverno/primavera 2008.

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Fra zucchero e vetriolo: il Marvin Gaye di “Here, My Dear”

Marvin Gaye - Here, My Dear

Il nostro rapporto non è stato caratterizzato da una fedeltà estrema”, confessava Marvin Gaye a David Ritz riguardo al matrimonio con Anna Gordy. Un eufemismo, ma niente rispetto alla risposta che dava al cronista di People che all’indomani dell’uscita di “Here, My Dear”, arrivato nei negozi in prossimità del Natale 1978, gli chiedeva se non pensasse che violava la privacy della ex-moglie: “Dovrei riascoltarlo”. E velenoso aggiungeva: “Ma in guerra e in amore tutto è lecito”. Pure pagare i conti di una separazione con i proventi di un album artatamente concepito come un suicidio commerciale, oltre che come una lettera aperta alla fu consorte. La storia è nota. Marvin aveva sposato Anna, sorella maggiore del padre padrone della Motown, Berry Gordy, nel 1961. Lui aveva ventidue anni, lei trentanove e potete immaginare i pettegolezzi considerato anche che, unendosi ad Anna, Marvin si imparentava con il proprio datore di lavoro. E nondimeno fra alti e bassi il matrimonio teneva per un abbondante decennio. Fintanto che lui non si innamorava di un’altra e stavolta era la nuova lei a essere diciassette anni più giovane. Addirittura (figurarsi la gioia del cognato, che aveva comunque di che consolarsi con vendite sontuose) dedicava a costei un LP dal titolo quantomai esplicito: “I Want You”. A quel punto Anna chiedeva divorzio e alimenti. Marvin si dichiarava non in grado di pagarli. Il giudice decideva che ad Anna toccasse il ricavato dell’album successivo di Marvin. Al che il nostro uomo entrava in studio, intenzionato a fare spendere il più possibile alla Motown, dandole un doppio, e a fare guadagnare il meno possibile alla ex-signora Gaye. Dalla sensuale disco di “I Want You” si passava alle orchestrazioni debordanti di “Here, My Dear”. Dallo zucchero al vetriolo.

Però – si sa – il diavolo fa le pentole eccetera. In corso d’opera l’artefice si appassionava al progetto e quella che sarebbe dovuta essere una collezione di recriminazioni si trasformava nel romanzo di un amore il cui finale amaro non cancellava il ricordo di momenti di una felicità ineffabile. In corso d’opera quello che avrebbe voluto essere un lavoro tirato via diventava il suo album più complesso e rifinito di sempre. Resterà il più incompreso e sottovalutato e – obiettivo raggiunto malgrado tutto – il meno venduto. Riascoltato oggi si configura come l’anello mancante, aggiunto a posteriori, fra la black a tutto tondo di “What’s Going On” e il viagra-funk di “Let’s Get It On”. Accorato e sadico, romantico e sprezzante, mellifluo e danzabile. Cazzuto con eleganza, come trovo scritto accanto a A Funky Space Reincarnation negli appunti presi durante il riascolto. A parte che ne sottolinea la modernità, aggiunge poco a questa riedizione Hip-O Select un secondo CD di remix da parte di produttori odierni.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.645, aprile 2008.

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The Jon Spencer Blues Explosion – Freedom Tower: No Wave Dance Party 2015 (Mom & Pop)

The Jon Spencer Blues Explosion - Freedom Tower No Wave Dance Party 2015

Quanto blues c’era dapprincipio nella Explosion di Jon Spencer, Judah Bauer e Russell Simins? Se si guarda agli spartiti – ammesso si possa pronunciare la parola “spartiti” riferendo del cacofonico caos dell’omonimo debutto datato ’92 e del di poco successivo “Crypt Style” (dischi messi insieme in realtà con materiali provenienti dalle medesime sedute di registrazione) – quasi nulla. Un po’ di quello spirito, ecco, in forma di propensione alla millanteria, in special modo di argomento sessuale. Quanta no wave in quello che per il trio è il decimo album in studio, al netto di un paio di collezioni di remix, nonché secondo dacché nel 2012 “Meat+Bone” interrompeva un prolungatissimo silenzio? Se possibile anche di meno, praticamente zero, siccome con buona pace del buon James Chance (qualcuno ricorderà: ospite nel 2004 in “Damage”) qui le eventuali dissonanze sono squisitamente punk e il funk un ballo, mica una nevrosi. Sul dance party ci siamo. È qui la festa e il rischio – elevato, trattandosi di una celebrazione di una New York che c’era, non c’è più e non tornerà – che fosse una festa mesta è subito scansato. Dice bene il recensore di “Pitchfork”, una tantum brillantissimo, quando osserva che sì, il brano inaugurale si chiama Funeral ma datemi solo una “f”, datemi una “u”, datemi una “n” e cosa otterrò? “Fun”, divertimento.

In vari frangenti è come se questo lavoro più che il seguito di “Meat+Bone” fosse quel “To The 5 Boroughs” parte seconda che, per il triste motivo che sappiamo, i Beastie Boys non potranno regalarci. Wax Dummy potrebbe idealmente giungere da lì, idem The Ballad Of Joe Buck (che ballata naturalmente non lo è manco un po’), ancora di più Tales Of Old New York: The Rock (che sa pure tanto ma tanto di Run-D.M.C.). Sono tre ottime ragioni per mettersi in casa “Freedom Tower” e ve ne fornisco subito altrettante: la già menzionata Funeral, che è James Brown che si esibisce al CBGB’s; una smaccatamente dollsiana, con tanto di battito di mani, Betty Vs. The NYPD; una stoogesiana e in bassissima fedeltà White Jesus. Di nuovo a proposito del Godfather Of Soul: in Do The Get Down collide con Rufus Thomas e in Crossroad Hop con Jimi Hendrix. E di punk rock: Dial Up Doll nel repertorio dei Dead Boys avrebbe fatto la sua porca figura. Siamo a nove e senza problemi avrei potuto citarle in positivo tutte e tredici le tracce che sfilano in trentacinque minuti scarsi: certamente non la prova migliore di sempre della Jon Spencer Blues Explosion (personalmente voto per “Now I Got Worry”, con qualche rimpianto per “Extra Width” e “Orange”) e però quella che forse meglio a oggi è riuscita a fotografarne in studio un sound particolarmente dirompente dal vivo e, da un dato punto in poi, in perfetto equilibrio fra energia, una stilosità istintiva, il senso della storia. Una volta di più e, nel nostro cuore, una volta per sempre: no sleep till Brooklyn.

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La saga triste e magnifica di Gene Clark

Duplicemente intempestiva l’uscita di scena di Gene Clark: se ne andava troppo presto e accadeva un 24 maggio, quello del 1991, stesso giorno in cui compie gli anni il principale dei suoi ammiratori e mentori, tal Bob Dylan.

Gene Clark

Le strade che portano all’inferno, si sa, sono lastricate di ottime intenzioni e si può ipotizzare allora che quell’anima gentile di Tom Petty avesse un secondo fine quando, nel 1989, incluse nella scaletta del primo album solistico il cavallo di battaglia byrdsiano I’ll Feel A Whole Lot Better. Per certo desiderava omaggiare una canzone che molto aveva voluto dire nella sua educazione sentimentale e i cui echi erano risuonati evidenti nei primi LP degli Heartbreakers. Davvero non è da escludere però che, incidendo quel brano, volesse dare una mano a chi lo aveva scritto, che sapeva in pessime condizioni fisiche, mentali, economiche. Non poteva immaginare che “Full Moon Fever” avrebbe collezionato un platino dopo l’altro finendo per diventare il suo disco di gran lunga più venduto di sempre. Più che la prevista pioggerella era un acquazzone di diritti d’autore, un nubifragio persino, a cadere su uno stupito Gene Clark. Buona cosa e anzi pessima e la situazione peggiorava l’anno dopo, quando la pubblicazione di un cofanetto dei Byrds gli faceva recapitare altri cospicui assegni. Ne aveva allora da spendere di soldi in alcool e droghe, fintanto che un quarto di secolo di stravizi non presentava il conto, il 24 maggio 1991. Gene Clark se ne andava a quarantasei anni ma la sua leggenda gli sarebbe sopravvissuta. Crescendo. Sempre più. Ma a oggi non ancora abbastanza da rendergli appieno giustizia.

Saga pregna di delusioni di grandezza quella del nostro eroe sin dal giorno in cui, fresco di concerto con i New Christy Minstrels in onore del presidente Johnson (avrà a raccontare di essersi fatto la prima canna in una stanza della Casa Bianca), si imbatteva nei Beatles e decideva di averne avuto abbastanza di una musica tradizionale cui sarebbe più avanti tornato apportandole modernità. Si trasferiva a Los Angeles in cerca di altri convertiti e al Trobadour si imbatteva in Jim (poi Roger) McGuinn. Quindi in David Crosby. Tre chitarre e tre voci nate per intrecciarsi. Completato l’organico con il batterista Michael Clarke e il mandolinista bluegrass prestato al basso Chris Hillmann, i Byrds svolazzavano per qualche tempo rasoterra, con altri nomi, prima di spiccare il volo altissimi con una versione elettrica di Mr. Tambourine Man di Bob Dylan, atto ufficiale di nascita del folk-rock e numero uno su entrambe le sponde dell’Atlantico. Ai Byrds Clark fornirà buona parte del repertorio dei primi due 33 giri, provocando però l’invidia dei compagni, ancora in relativa miseria quando lui già poteva scorazzare in Ferrari. La sua idiosincrasia per i viaggi in aereo, lascito di un trauma infantile, sarà pretesto per non richiamarlo dopo un’uscita che avrebbe voluto essere solo una breve vacanza dalle pressioni derivanti dalla fama subitaneamente conquistata. Ci saranno rimpatriate nel quarto di secolo seguente, ma tutte con approdi amari. Ci saranno uno squisito (fra Everlys e Beatles) album con i Gosdin Brothers, lo stellare country-rock (saranno però gli Eagles a passare alla cassa) congiurato con Doug Dillard nei capitali “The Fantastic Expedition Of Dillard & Clark” (ve lo raccontavo in breve nella puntata di questa rubrica pubblicata sul numero 332) e “Through The Morning, Through The Night”. E poi e ancora dischi cantautorali belli e sfigati, e inferni personali senza redenzione. Tutti conoscono i Byrds ma lo sanno in pochi che l’autore o co-autore di classici clamorosi quali la succitata I’ll Feel A Whole Lot Better, I Knew I’d Want You, She Don’t Care About Time, Here Without You ed Eight Miles High ebbe una carriera solistica di vaglia di cui un omonimo LP, meglio noto però come “White Light” e datato 1971, rappresentava il primo, magnifico capitolo e il successivo di due anni “Roadmaster” un altro vertice.

Di “White Light” per cominciare si può dire questo: che a fronte di otto brani autografi contiene un’unica cover ma indimenticabile, quella Tears Of Rage che Dylan aveva composto a quattro mani con Richard Manuel e di cui il nostro uomo offre una versione di pregnanza tale da rivaleggiare con quella di The Band; e che di uno degli altri otto pezzi, la malinconica For A Spanish Guitar, Dylan stesso ebbe a dire che è “una delle più grandi canzoni che siano mai state scritte” e se non si intende lui di grandi canzoni ditemi voi chi. Si può poi annotare che, se nei suoi anni più disperati Clark si ritroverà talvolta a suonare in giro con formazioni raccogliticce, qui ad accompagnarlo è un complesso formidabile, il produttore Jesse Ed Davis alle chitarre elettriche e slide, Mike Utley all’organo, al basso Chris Ethridge dei Flying Burrito Brothers e al piano e alla batteria due prestiti dalla Steve Miller Band, rispettivamente Ben Sidran (che avrà poi la carriera di alto profilo nel jazz che sappiamo) e Gary Mallaber. Tutti al totale servizio, con la discrezione che è propria dei musicisti veri, di un repertorio per la più parte introspettivo, intimista, e per il resto tagliato dalla stoffa country, con comunque ancora reminiscenze di jingle jangle, dalla quale il suo ex-gruppo aveva ricavato “Notorious Byrd Brothers”. Esempio paradigmatico della prima maniera Because Of You, della seconda la title track. Scrosciano gli applausi quando il disco arriva nei negozi, ma soltanto quelli della critica. Pressoché ignorato dal pubblico americano, il disco non ha successo che nei Paesi Bassi e non è abbastanza per la A&M per confermare il contratto. Guarda caso sarà una sua succursale olandese, la Ariola, a griffare “Roadmaster”, che negli Stati Uniti addirittura non uscirà per la prima volta che nel ’94 e dunque postumo. È un altro lavoro stupendo e ciò a dispetto di una gestazione travagliata, otto degli undici titoli che vi sfilano provenienti da un album rigettato dalla casa USA, due (i primi in scaletta, She’s The Kind Of Girl e One In A Hundred) da un singolo mai pubblicato con dentro tutti i Byrds originali e uno (Here Tonight) da un’estemporanea seduta di registrazione con i Flying Burrito Brothers. Ascolti In A Misty Morning e non ci credi che a Nashville non l’abbiano rifatta in duecento. Ascolti Full Circle Song, che vale tranquillamente una I’ll Feel A Whole Lot Better, e non ci credi che la prima e unica stampa americana in vinile di “Roadmaster” (copertina diversa sia dall’originale olandese che dalla riedizione britannica griffata dalla Edsel nell’86) sia stata quella attualmente in catalogo, approntata dalla benemerita Sundazed nel 2011. Sempre nel catalogo Sundazed è disponibile pure “White Light” ed è accoppiata dalla quale non potete esimervi se vi volete un po’ di bene.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.361, marzo 2015.

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Time Passes Slowly (per i settantaquattro anni di Bob Dylan)

Bob Dylan - New Morning

Se ne parla da chissà quanto tempo – decenni – e a questo punto, visto che l’uomo è ancora del tutto vivo e ben più che vegeto (imminente l’uscita di un nuovo album) ma gli anni cominciano a essere davvero tanti (settantatré), sarebbe il caso che si sbrigassero a darglielo, a Bob Dylan, ’sto benedetto Nobel per la letteratura. Quando sarà, chissà se con la pazienza e la saggezza portategli in dote dalla vecchiaia lo riceverà con gratitudine o viceversa, essendo pur sempre Dylan, lo accoglierà con scetticismo, sarcasmo, quasi fastidio. Se farà storie per mettersi in ghingheri per la cerimonia come quando nel 1970 la Princeton University gli conferiva una laurea honoris causa e lui, recatosi di malavoglia a ritirarla, rifiutava stizzito di indossare i paramenti accademici. E a chi gli faceva notare che se non si vestiva adeguatamente il prestigioso riconoscimento sarebbe stato cancellato replicava beffardo che non aveva chiesto niente, lui. Da lì a breve l’episodio gli avrebbe fornito l’ispirazione per il testo di Day Of The Locusts, una delle dodici canzoni incluse (in capo a una lavorazione problematicissima che fece giurare ad Al Kooper, produttore delle prime sedute d’incisione, poi accantonate, che mai più avrebbe avuto a che fare con un datore di lavoro tanto lunatico) in “New Morning”.

Ecco, dipendesse da me io a Zimmie il Nobel per la letteratura più che per un sacco di altri titoli strafamosi contenuti in dischi ben più celebrati lo darei per Day Of The Locusts, per Time Passes Slowly, per If Dogs Run Free, per Three Angels, tutte canzoni incluse in “New Morning” delle quali mi innamoravo, in un giorno lontanissimo della mia adolescenza, leggendone i testi tradotti in una bella antologia (introduzione di Fernanda Pivano) edita da Newton Compton. Mi piaceva quella lingua singolarmente asciutta, quell’economia se vogliamo così poco dylaniana, ed è forse a ragione di ciò che da sempre colloco “New Morning” (che non avrò occasione di ascoltare per la prima volta che diversi anni dopo) in una posizione più alta, nella produzione del Nostro, di quella dove dovrebbe stare giudicandone solo i meriti musicali. Non sono insommma gli spartiti, che svagatamente passeggiano fra blues (Time Passes Slowly, One More Weekend) e Stax (Went To See The Gypsy), valzer (Winterlude) e carabattole jazz (If Dogs Run Free), talking-gospel (Three Angels) e litanie lunari (Father Of The Night), e quasi mai sul serio conquistano, al più incuriosiscono, a farne uno degli album maggiori fra i minori di Dylan. Per quanto pure quelli dovessero parere al tempo oro colato se raffrontati al campionario di sciatterie insensate esposto pochi mesi prima nell’orripillante, e per colmo di tragedia pure doppio, “Self Portrait”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.359, gennaio 2015.

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Minimalismo vs. punk rock: il dio del tuono Rhys Chatham

Rhys Chatham - Die Donnergötter & An Angel Moves Too Fast To See

Mamma mia! Altro che Glenn Branca!! Altro che i Sonic Youth!!! Detto con il massimo del rispetto sia per questi che per quello, fra l’altro in varia misura coinvolti in questi due album appena ristampati dalla Table Of The Elements, etichetta minimalista per eccellenza: il primo, contenente adesso registrazioni effettuate fra il ’77 e l’86, in una versione allargata rispetto all’edizione Homestead dell’87; il secondo, registrato nel 1989, con la medesima scaletta invece di un New Tone del ’94. Sfasamenti temporali che insieme con i referenti succitati già vi avranno fatto intendere come non sia di pop che si sta parlando. Per essere uno in giro dai primi ’70  Rhys Chatham, quintessenziale newyorkese finito però a vivere a Parigi, non ha pubblicato granché e oltretutto, fino all’uscita di un cofanetto triplo sempre su Table Of The Elements tre anni or sono, non si trovava più praticamente nulla. Ma ad ascoltare questa complessiva – e complessivamente stupefacente – ora e tre quarti di spartiti principalmente per chitarre elettriche vien da pensare che ciò sia dovuto più a un proverbiale caratteraccio che all’avanguardia a tratti più rock’n’roll che si sia mai udita.

Flautista classico come origine, Chatham ha studiato con Morton Subotnick e LaMonte Young per quindi gravitare intorno a Eliane Radigue e a Tony Conrad, ma furono prima un concerto dei Ramones al CBGB’s, poi la conoscenza dei Television a persuaderlo che era con le chitarre elettriche che doveva lavorare. Primo, fenomenale esito un Guitar Trio del 1977 perfetto incontro fra minimalismo e punk-rock che da lì a nove anni la suite dal groove invincibile di “Die Donnergötter” (in tedesco, “gli dei del tuono”: di rado titolo fu più azzeccato) portava alle estreme conseguenze. Ecco: a collocare Chatham in una categoria superiore rispetto a Branca, a farlo almeno della stessa lega delle cose migliori tramate a oggi dalla Gioventù Sonica, è il gusto per ritmi cui non si può dire di no (resistete voi al passo di marcia di un’esuberante ossessione fiatistica chiamata Waterloo, No.2, se ci riuscite) coniugato alla solarità di melodie altrettanto immediate, che si distendano lievi o precipitino in vortici mozzafiato. Per quanto possano essere lievi chitarre elettriche che all’altezza di Die Donnergötter il brano erano già sei e con “An Angel Moves Too Fast To See” diventeranno – ci credete? – cento. Un’autentica sinfonia quest’ultima, certamente più meditata e meditativa di un Drastic Classicism che si rivela quanto di più prossimo a una seconda Sister Ray sia mai stato concepito o di un Massacre On MacDougal Street tripudio di ottoni strombazzanti. Due dischi colossali, pazzeschi, di un altro pianeta.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.624/625, luglio/agosto 2006.

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Modest Mouse – Strangers To Ourselves (Epic)

Modest Mouse - Strangers To Ourselves

Avete presente la bizzarra traiettoria dei Radiohead? Subito superstar grazie a innodie con spirito da cameretta e suono da stadio e poi un’azzardata svolta post-rock dalla quale non solo non venivano danneggiati ma ricavavano una fama più diffusa. Dischi analoghi ai loro si sono venduti al più in migliaia di copie, quelli dei Radiohead in milioni. Ebbene, pare quasi una parabola di normalità a confronto di quella dei Modest Mouse, formatisi mentre il grunge spadroneggiava laddove quella scena aveva avuto i natali e che senza mai corteggiare quei suoni vedevano crescere una piccola fama declinando un pop-rock sghembo e altero, un po’ della schiatta dei Pavement. Entrati in area major all’altezza del terzo album, nel 2000, ossia proprio mentre le major stavano finendo di buttare a mare tutti i gruppi frettolosamente imbarcati in scia al boom dei Nirvana, i ragazzi senza mai farsi meno eccentrici si ritrovavano a vendere un milione di copie del quarto e a capeggiare la classifica di “Billboard” con il quinto. Era il 2007. Il sesto lo si attendeva da allora e la sapete una cosa? Incredibile a dirsi, Isaac Brock e soci sono probabilmente più famosi oggi, non avendo mai smesso di suonare dal vivo nel frattempo e avendo inoltre scaltramente intrattenuto gli estimatori anche con assortite operazioni di riciclo discografico.

Sempre uguali a se stessi ma sempre diversi, i Modest Mouse redigono con “Strangers To Ourselves” uno zibaldone di stili che in mani altrui non si terrebbero e nelle loro invece sì: fra valzer innervati di archi e rap mutante, boogie carnascialeschi e synth-pop, funky-wave alla Talking Heads e ballate indifferentemente da college rocker o da cowboy. Per non dire che di un po’ di quanto si affastella in quindici canzoni e quasi un’ora.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.362, aprile 2015.

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Do The Reggae With Toots & The Maytals

Chissà in quanti si ricordano che molto di quanto sapevano in materia di reggae Clash e Specials lo appresero dai Maytals. Chissà quanti sanno che il reggae stesso è stato così chiamato da una canzone del gruppo capitanato da Toots Hibbert.

The Maytals 1965

54-46 era davvero il tuo numero di matricola in prigione?” “No, me lo sono inventato. Suonava bene.

Così, in una chiacchierata con David Katz in occasione della ristampa in digitale su un solo dischetto dei due capolavori Island “Funky Kingston” e “In The Dark”, a trentacinque esatti anni dagli eventi Frederick “Toots” Hibbert smentiva la più nota delle leggende che lo riguardano: quella che il grande successo che nel 1968 lanciò la seconda delle almeno quattro carriere dei Maytals, ossia 54-46 That’s My Number, oltre a derivare la sua genesi dall’esperienza carceraria del Nostro – due anni per pochi grammi di marijuana: in Giamaica! – vi aderisse fedelmente. Del resto, nella medesima intervista Mr. Hibbert attribuiva il celebre arresto a un gratuito atto di prepotenza della polizia. Non ci sarebbe di che stupirsi e nondimeno, dopo tale asserzione, leggendo ci si attende da un momento all’altro che, clintonianamente, se ne esca con un “but I never inhaled”. Risulta più attendibile, l’oggi sessantenne birbante, quando rievoca gli anni dell’infanzia e i primi passi nel – se così si può dire – musicbiz.

Sono cresciuto girando per chiese, principalmente Avventisti del Settimo Giorno ma non solo, posti dove la gente si incontra per cantare le lodi del Signore e le canta così bene che vorresti che le funzioni non finissero mai. Mio padre era un predicatore e così mia madre. Poi nella mia vita sono entrati Ray Charles, Mahalia Jackson, Wilson Pickett, James Brown. Li ascoltavo alla radio e la voglia di cantare si faceva sempre più prepotente. A tredici anni me ne sono andato da casa, ho lasciato May Pen per Kingston, Trench Town, e ho cominciato a lavorare da barbiere. Tiravo pure di boxe, ma tutti quelli che conoscevo mi dicevano che come cantante ero meglio e qualcuno, anche gente più vecchia di me, veniva persino in negozio a prendere lezioni.

Fra gli altri tali Henry “Raleigh” Gordon e Nathaniel “Jerry” Mathias McCarthy, più anziani di lui rispettivamente di otto e sei anni e il secondo con già qualche esperienza discografica all’attivo, sotto la tutela di quel Duke Reid che diverrà uno dei produttori cruciali della musica isolana. I Maytals nascevano così, negli ultimi mesi del ’61 o nei primi del ’62, come trio vocale e nell’identico modo in cui, un lustro prima e nel New Jersey, erano nati i Parliaments e tanti altri esempi si potrebbero trarre dagli annali della black americana, in particolare in quell’era del doo wop al tempo non ancora del tutto tramontata. Il giovanissimo Toots ne assumeva subito la guida, le sue influenze gospel evidenziate sin dai titoli dei primi fortunati singoli (supervisione di un pivello Lee Perry) per la rampante Studio One di Clement “Coxsone” Dodd: Hallelujah, Six And Seven Books Of Moses. Canzoni che, non essendo stato possibile acquisire i diritti, non troverete nel fantastico cofanetto freschissimo di pubblicazione per Trojan “Roots Reggae”, ristampa in box con le deliziose copertine originali miniaturizzate di sei dei sette album giamaicani della banda Hibbert, sulla falsariga del recente ed acclamato “Soul Revolutionaries” dei Wailers. Manca per le ragioni suesposte quello che fu l’esordio a 33 giri, “Never Grow Old”, ma gli appassionati (visto anche un prezzo a dir poco allettante) avranno lo stesso di che esultare pugni levati al cielo, qualcuno magari masticando agro per avere già comprato nell’ultimo lustro una peraltro bellissima raccolta come “Sweet And Dandy” solo per sostituirla poco dopo con il doppio (che resta fondamentale) “Pressure Drop” e magari, in mezzo, “Monkey Man/From The Roots”, che manco potrà rivendersi siccome il primo è compreso nel cofanetto e (filologicamente, giacché era in origine un 33 soltanto britannico) il secondo no. Ma che ci si può fare? C’est la Trojan, baby.

Bando alle lamentele! “The Sensational Maytals”, “Sweet & Dandy”, “Monkey Man”, “Greatest Hits” (titolo mendace), “Slayam Stoot”, “Roots Reggae”: questi gli album che potrete portarvi a a casa in un colpo solo. Usciti fra il 1965 e il 1974 e gli ultimi dunque quando in Gran Bretagna i Nostri, sulla scia della partecipazione a The Harder They Come, si erano accasati presso una succursale Island, secondi solamente a Marley e a Jimmy Cliff nella scuderia reggae di Chris Blackwell. Benissimo fa Harry Hawke ad annotare nel libretto (poverello, eh!) che si era in un’epoca e in un ambito in cui giusto i campionissimi potevano permettersi, rispetto ai ben più lucrosi 45 giri, l’azzardo di un LP, figurarsi di sette. E i Maytals erano campionissimi: ne danno ulteriore e definitiva testimonianza lavori di una brillantezza che il ritornare periodico di alcuni cavalli di battaglia non sciupa, ponte via rocksteady (che quasi si persero per l’arresto del leader) fra lo ska e quel reggae cui addirittura con l’epocale Do The Reggay (scritto così e che qui – ahem – non c’è) diedero il nome. Risulteranno dei maestri, fra gli altri, per gli Specials (che riprenderanno Monkey Man) e per i Clash (rifaranno Pressure Drop). Rimasto dal 1981 proprietario unico della sigla, Toots Hibbert tuttora gira il mondo divertendosi e facendo divertire.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.616, novembre 2005.

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