Mamma mia! Altro che Glenn Branca!! Altro che i Sonic Youth!!! Detto con il massimo del rispetto sia per questi che per quello, fra l’altro in varia misura coinvolti in questi due album appena ristampati dalla Table Of The Elements, etichetta minimalista per eccellenza: il primo, contenente adesso registrazioni effettuate fra il ’77 e l’86, in una versione allargata rispetto all’edizione Homestead dell’87; il secondo, registrato nel 1989, con la medesima scaletta invece di un New Tone del ’94. Sfasamenti temporali che insieme con i referenti succitati già vi avranno fatto intendere come non sia di pop che si sta parlando. Per essere uno in giro dai primi ’70 Rhys Chatham, quintessenziale newyorkese finito però a vivere a Parigi, non ha pubblicato granché e oltretutto, fino all’uscita di un cofanetto triplo sempre su Table Of The Elements tre anni or sono, non si trovava più praticamente nulla. Ma ad ascoltare questa complessiva – e complessivamente stupefacente – ora e tre quarti di spartiti principalmente per chitarre elettriche vien da pensare che ciò sia dovuto più a un proverbiale caratteraccio che all’avanguardia a tratti più rock’n’roll che si sia mai udita.
Flautista classico come origine, Chatham ha studiato con Morton Subotnick e LaMonte Young per quindi gravitare intorno a Eliane Radigue e a Tony Conrad, ma furono prima un concerto dei Ramones al CBGB’s, poi la conoscenza dei Television a persuaderlo che era con le chitarre elettriche che doveva lavorare. Primo, fenomenale esito un Guitar Trio del 1977 perfetto incontro fra minimalismo e punk-rock che da lì a nove anni la suite dal groove invincibile di “Die Donnergötter” (in tedesco, “gli dei del tuono”: di rado titolo fu più azzeccato) portava alle estreme conseguenze. Ecco: a collocare Chatham in una categoria superiore rispetto a Branca, a farlo almeno della stessa lega delle cose migliori tramate a oggi dalla Gioventù Sonica, è il gusto per ritmi cui non si può dire di no (resistete voi al passo di marcia di un’esuberante ossessione fiatistica chiamata Waterloo, No.2, se ci riuscite) coniugato alla solarità di melodie altrettanto immediate, che si distendano lievi o precipitino in vortici mozzafiato. Per quanto possano essere lievi chitarre elettriche che all’altezza di Die Donnergötter il brano erano già sei e con “An Angel Moves Too Fast To See” diventeranno – ci credete? – cento. Un’autentica sinfonia quest’ultima, certamente più meditata e meditativa di un Drastic Classicism che si rivela quanto di più prossimo a una seconda Sister Ray sia mai stato concepito o di un Massacre On MacDougal Street tripudio di ottoni strombazzanti. Due dischi colossali, pazzeschi, di un altro pianeta.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.624/625, luglio/agosto 2006.