Archivi del mese: giugno 2015

Ryley Walker – Primrose Green (Dead Oceans)

Ryley Walker - Primrose Green

Quel che si dice esser chiari riguardo alle proprie influenze: guardi la copertina di “Primrose Green” e subito esclami “‘Astral Weeks’!”; ascolti la traccia inaugurale e omonima e, prima ancora che entri la voce, nomini il santo nome di Tim Buckley. E via citando, nel prosieguo di quello che per il chitarrista chicagoano è, a meno di un anno dal debutto “All Kinds Of You”, il secondo album. Proprio come furono per Van The Man le Settimane Astrali e, guarda che caso, è di jazzisti o di gente che comunque il jazz sa maneggiarlo che si circonda il giovanotto. A parte che non ha già firmato e probabilmente mai firmerà una sua Gloria, una sua Brown Eyed Girl, le affinità elettive sono evidenti, la linea di discendenza esplicita, fieramente rivendicata ed ecco subito dopo una Summer Dress tesa e vorticosa. In un altro mondo, Miles Davis ha svoltato elettrico un po’ in anticipo e di “Bitches Brew” il bardo irlandese ha doverosamente preso nota. Mentre Tim – scegliete voi quale, se ancora Buckley oppure Hardin (o non è piuttosto Fred Neil?)– si è mandato a memoria “Sketches Of Spain” prima di porre mano a Same Minds. Ricorderà qualcuno: al suo apparire alla ribalta i pochi che ebbero modo di ascoltare le prime, iperclandestine uscite accostarono Walker più che a chiunque altro a John Fahey: e Griffiths Bucks Blues sta lì a rinfrescare la memoria. Ove con i suoi equilibrismi fra folk-rock e jazz elettrico Love Can Be Cruel rimanda senza “se” e senza “ma” al migliore John Martyn. A questo punto se di “Primrose Green” avessi l’edizione in vinile sarebbe giunto il momento di alzarmi e andare a girare il disco. Sfortunatamente mi hanno mandato il CD, ma grazie in ogni caso per avermi regalato questi scorci di infinito, queste illuminazioni di immenso.

La seconda facciata inebria tutto sommato di meno e tuttavia uno zero virgola qualcosa. La canzone più derivativa è una The High Road che sembra scappata dai solchi di “Five Leaves Left”. Ma averne avuti di Nick Drake apocrifi di simile classe e sostanza fra i forse troppi ascoltati nel secolo nuovo! Se Sweet Satisfaction riporta al proscenio Buckley padre lo fa dopo averlo ubriacato di fuzz. Se On The Banks Of The Old Kishwaukee resuscita la buonanima di Bert Jansch, trasferendola nel contempo oltre Atlantico, All Kinds Of You richiama in scena Van Morrison e Hide In The Roses – il congedo – potrebbe tranquillamente andare a celarsi nel programma di una raccolta di Davy Graham. Nessuno la sgamerebbe.

In molti hanno applaudito, estasiati. Qualcuno ha storto la bocca, pur senza arrivare a ridurre il nostro eroe a mero calligrafo di folk-rock in grazia di psichedelia all’incrocio fra ’60 e ’70. In ogni caso perfetto, ammettono pure i più cavillosi fra i più dubbiosi, per questi nostri anni retromaniaci. Io dico che questo Ryley Walker possiamo datarlo oggi, ma è destinato a ricadere presto nella categoria dei capolavori senza tempo. E siccome ero troppo giovane per godermi “Goodbye & Hello”, “Astral Weeks”, “Basket Of Light”, “Five Leaves Left”, “Solid Air” quando uscirono, a Ryley Walker dico grazie per avermi emozionato come dovette emozionarsi chi ebbe il privilegio, quei dischi, di scoprirli allora.

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Once He Was (per i quarant’anni dalla morte di Tim Buckley)

Tim Buckley

La critica è pressoché unanime: il frutto più sapido e succoso dell’albero del primo Tim Buckley è “Goodbye And Hello”, che viene impresso su nastro nel giugno 1967 e raggiunge i negozi in agosto. Lietamente mi accodo, se non altro perché regala, sistemandole ciascuna in apertura della rispettiva facciata, due delle mie quattro canzoni preferite del Nostro: la marcia funebre per chitarre, congas ed esplosioni di No Man Can Find The War e il dolente poemetto epico di Once I Was, in cui è esplicito l’omaggio – nel passo, nell’atmosfera, in un ritornello che è trasparente citazione – a un brano di Fred Neil, Dolphins, che più avanti Tim riprenderà direttamente. Ma quasi tutto è bellissimo, si tratti della giostrina felliniana di Carnival Song o del raga oltre le porte della percezione di Hallucinations, del tumulto folk-blues di I Never Asked To Be Your Mountain piuttosto che del sommesso quanto gioioso caracollare elettroacustico di Phantasmagoria In Two, del carillon fiabesco Knight-Errant così come di una Morning Glory che favolosamente racchiude in 2’52” un’estasi di liturgia lisergica. Certo: spiace che proprio la lunga traccia omonima costituisca, con la sua prosopopea che fatica a tenersi, l’unico inciampo. Che è però quello ammirevole di chi, correndo a perdifiato, ha scoperto che volare si può. Alla Elektra di questo disco sono contentissimi, orgogliosi di essersi messi in catalogo una grande opera d’arte e persuasi che, se non diventerà un campione di vendite, come minimo costituirà la rampa di lancio per una carriera ai massimi livelli. Non va esattamente così. Nelle classifiche il 33 vede fermarsi la sua ascesa a un modesto numero 171 e nondimeno le copie vendute nel primo anno saranno cinquantamila, più del doppio dell’omonimo debutto del dicembre ’66 e allora si va avanti, fiduciosi. Il nome sta circolando, i concerti sono sempre più affollati e al tirare delle somme per Tim Buckley il 1967 è stato un anno stupendo. Il ’68 non porterà seco un nuovo album – inciso in dicembre, il terzo non verrà pubblicato che nell’aprile 1969, marcando così uno iato lunghissimo per gli usi del tempo – e ciò nonostante sarà anche più bello.

È l’anno della partecipazione a diversi festival negli Stati Uniti e delle prime incursioni in Europa, dove in aprile è spalla a Londra della Incredible String Band e ospite nel programma alla BBC di John Peel. Torna a ottobre da attrazione principale nella capitale britannica e ad accoglierlo è una Queen Elizabeth Hall gremita e plaudente. In mezzo ci sono stati mesi gaudiosi di ozio operoso, trascorsi espandendo interessi musicali già ampi con il sodale Lee Underwood che gli regala la scoperta di Erik Satie. Mentre il resto del pianeta giovane ascolta Hendrix o i Cream, Tim e Lee trascorrono giornate intere persi fra Bill Evans e Cecil Taylor, Roland Kirk e Laurindo Almeida. Quando non cavalcano le onde del Pacifico o non si abbronzano al sole della California. È come una primavera incantata che porterà però a un’estate di sottili inquietudini, a un autunno di spigoloso scontento, a un inverno spiritualmente mortifero. Per tre lustri gli esegeti buckleyani si sono chiesti perplessi cosa fosse accaduto fra “Goodbye And Hello” ed “Happy Sad”, lavori egualmente ma assai diversamente meravigliosi: quello una propaggine di folk-rock in mari acidi, questo un’istanza di psichedelia “d’autore” e “in jazz”. Mancava l’anello di congiunzione e mancherà fino alla pubblicazione nel 1990 di “Dream Letter”, un eccezionale doppio dal vivo testimonianza del concerto dianzi citato alla Queen Elizabeth Hall. Fiancheggiato alla solista dal solito Underwood, al vibrafono da David Friedman e al basso da un Danny Thompson in prestito dai Pentangle, Tim recupera dal secondo LP una manciata di brani in versioni che ne asciugano ogni eventuale ampollosità e ne anticipa alcuni dal terzo donando loro accenti non ancora così dissimili dal già noto. Strada facendo, salda gli ultimi debiti a trascorsi che paiono già remotissimi da folksinger con le inedite The Earth Is Broken, Wayfaring Stranger e You Got Me Runnin’ e si diverte a dispiegare rock’n’roll con la pure mai sentita prima Who Do You Love, a citare via Vanilla Fudge le Supremes di You Keep Me Hanging On, a gorgheggiare un classico del sentimentalismo cinematografico come Hi Lily, Hi Lo, ad autoplagiarsi con una seconda Phantasmagoria In Two chiamata Troubadour. Quando poi a imporre l’acquisto basterebbe una Dolphins (rieccola!) che ci vorranno altri sei anni perché la registri, in una versione invero inferiore, in studio.

Erano state dodici le canzoni selezionate per il primo LP, dieci sul secondo. A mettere sull’avviso che il terzo è una storia diversa già dovrebbe bastare che non siano che sei: un’unica – il delicato suggello Sing A Song For You – con i tempi radiofonici giusti, sotto i tre minuti e d’accordo che è un’era di libertà e qualche stazione i 12’19” furiosi e ansiogeni di una Gypsy Woman non distante da lande beefheartiane li trasmette pure. Qualcuna in più i 10’47” dell’acquatico intreccio di folk e jazz di Love From Room 109 At The Islander. Eccetto il canto per la Donna Zingara “Happy Sad” è in ogni caso sì una collezione di esperimenti ma non ancora di ispidezze. Esibiscono elevato potere seduttivo tanto la languida Strange Feelin’ che una Buzzin’ Fly costola misconosciuta di “Astral Weeks”. E poi c’è la Dream Letter in studio: appropriatamente onirica e memento di Tim a se stesso che, sebbene lo abbia abbandonato, avrebbe un figlio. Di Jeff il mondo nulla saprà per molti, molti anni ancora.

Più assente che presente nei cataloghi dal 1990, del doppio dal vivo è attualmente disponibile una stampa Manifesto del 2011. A me sul momento di registrazioni live dei tardi ’60 tanto persuasive non ne vengono in mente molte, forse nessuna. “Goodbye & Hello” e “Happy Sad” (cosi come “Tim Buckley”) sono invece freschissimi di riedizione da parte della sempre impeccabile Music On Vinyl, prossima a rispedire nei negozi (questione di giorni nel momento in cui scrivo) pure “Starsailor”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.345, luglio/agosto 2013.

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Quello tranquillo degli Who: John Entwistle

Avendo scioccamente tirato qualche riga di cocaina di troppo, lui che già qualche problema con il cuore lo aveva avuto, tredici anni fa a oggi ci lasciava John Entwistle. Lo ricordavo così sulle pagine del settimanale “Il Mucchio”, scrivendo quando ancora le cause del prematuro decesso non erano note.

John Entwistle

“Un uomo quieto che suonava musica fragorosa”, ha detto di lui il non più Rolling Stone Bill Wyman, amico, collega di strumento e di stardom. E quietamente John Entwistle se n’è andato, morendo nel sonno in un albergo di Las Vegas nella notte fra il 26 e il 27 giugno, a poche ore dall’inaugurazione di una mostra di suoi dipinti e disegni in una galleria della città del Nevada e a due giorni dall’inizio di un tour americano degli Who. Non c’entrano i drogati e alcolici eccessi che poco meno di ventiquattro anni fa si portarono via il suo compagno di sezione ritmica Keith Moon, o se c’entrano è perché la vita non fa sconti e i vizi talvolta li paghi pure decenni dopo: nulla, al momento in cui andiamo in stampa, sembra indicare che il decesso non abbia avuto cause naturali. Un infarto, probabilmente, e del resto si sapeva che Entwistle qualche problema con il cuore l’aveva avuto.

Era quello tranquillo degli Who, quello seminascosto in un angolo del palco e invisibile fra un’uscita pubblica e l’altra, ove Moon era il folle burlone, Roger Daltrey il proletario incazzoso, Pete Townshend l’intellettuale disposto a farsi sovversivo. Il che non gli ha impedito di segnare in profondità la storia del rock, determinante nella nascita di uno dei gruppi che maggiormente hanno contribuito a forgiarla negli anni ’60 e nei primi ’70, bassista venerato per uno stile che univa un’eleganza innata a una potenza inaudita. E allora poco conta che il suo apporto compositivo sia stato modesto e i suoi album in proprio non esattamente memorabili. Sta altrove la sua importanza. Un altro ragazzo degli Who se n’è andato “prima di diventare vecchio” e come farà Daltrey a cantare una volta di più quei versi di My Generation? Fatto è che li canterà. Lui e Townshend vanno avanti e quando leggerete queste righe il tour sarà in pieno svolgimento. “È quello che avrebbe voluto John”, hanno detto i suoi stessi congiunti. Possibile. Mette però a disagio questa incapacità dello spettacolo di fermarsi dinnanzi alle tragedie. Almeno per una volta. Almeno per un po’.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.495, 16 luglio 2002.

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La vita dopo i Clash di Mick Jones

Tanti auguri a Mick Jones, che compie oggi sessant’anni e da ragazzo sognava di essere uno dei Rolling Stones, o come minimo dei Mott The Hoople. È stato invece uno dei Clash e via, non gli è andata male. Per qualche anno ancora dopo la fine di quella epopea il nostro eroe continuò a scrivere pagine importanti per il romanzo della popular music, alla testa di un progetto chiamato Big Audio Dynamite.

Mick Jones

Gli amici si perdono, spesso, ma a volte si ritrovano. Fu un’emozione nell’ottobre ’86 avere fra le mani il secondo LP dei Big Audio Dynamite, “No. 10, Upping St.”, e apprenderlo “produced by Mick Jones & Joe Strummer”, e scoprire poi dalle etichette che oltre metà della scaletta era firmata congiuntamente dai due (a ribadire la pace scoppiata, il successivo “Tighten Up Vol.88” avrà un dipinto di Paul Simonon in copertina). Tre anni erano trascorsi ormai dall’acrimonioso divorzio ma meno di uno da quando nei negozi erano apparsi, per perversa strategia commerciale della CBS negli stessi giorni, il fallimentare “Cut The Crap” e il per molti versi entusiasmante “This Is Big Audio Dynamite”. Chi avrebbe mai potuto pensare, allora, che Jones e Strummer avrebbero diviso di nuovo uno studio? Se si eccettuano incontri imposti dalla cura di raccolte di materiali clashiani, non è poi più accaduto. Si sa che i due – i tre, con Simonon – si frequentano oggi con una certa regolarità, ma le ipotesi di ulteriori rimpatriate (soprattutto se siglate Clash) ventilate ogni tanto dalla stampa sono state finora sempre rigettate. E così sia.

Buon album “No. 10, Upping St.”, con i gravi handicap però, come il resto della discografia targata B.A.D., di suoni non esplosivi (non abbastanza) come ragione sociale avrebbe imposto e di doversi confrontare con un esordio del peso delle pietre miliari. Mi riferisco non tanto al primo 33 giri, comunque nel complesso eccellente (e fra l’altro, con la raccolta “Super Hits” uscita qualche mese fa, l’unica cosa attualmente reperibile del gruppo), ma al mix che lo precedette di un mese. Presentate in versioni felicemente espanse rispetto a quelle offerte dall’album, le telluriche The Bottom Line e Bad definirono da subito il canone del combo – con Jones un antico collaboratore dei Clash come Don Letts e inoltre Greg Roberts, Leo Williams e Don Donovan – con il torto però, se di torto si può parlare, di situarlo a un livello impossibilmente alto. Insomma: i B.A.D. non riusciranno mai a superarne l’efficacia. Nemmeno a impattarla. Come suonano? Come se su un crocicchio convergessero la disco di The Magnificent Seven, il soul di scuola Motown di Hitsville U.K., l’electro-funk di Radio Clash e il Morricone-punk di Know Your Rights. E lì ascoltassero un mucchio di reggae ’80, Grandmaster Flash, i Public Enemy e un po’ di Beatles.

Ho citato il Nemico Pubblico non a caso: cosa sarebbero potuti essere i Big Audio Dynamite se a produrli avesse provveduto la Bomb Squad! Restano nondimeno un gruppo che fu enormemente sottovalutato, in grande anticipo sui tempi (vogliamo parlare di crossover?) e che meriterebbe una riscoperta. “This Is Big Audio Dynamite”, “No.10, Upping St.” e “Tighten Up Vol.88” sono senz’altro da avere. Mezzo gradino sotto il successivo “Megatop Phoenix”, che all’epoca in cui uscì (settembre 1989) scaldò però assai i cuori per ragioni extramusicali, essendo il ritorno di Jones alla vita dopo che un malanno virale aveva seriamente minacciato di strapparcelo. Siccome raramente si impara dagli errori propri o altrui, da lì a qualche mese il nostro eroe liquidava i quattro compagni di avventure (che proseguiranno insieme il tempo bastante a congegnare uno scadente LP a nome Screaming Target) in maniera non dissimile da come Strummer e Simonon lo avevano allontanato dai Clash e rifondava la band come Big Audio Dynamite II. “Kool-Aid” e “The Globe” (1990 e 1991) – quasi lo stesso lavoro dacché i programmi per larga parte, incomprensibilmente, si sovrappongono – accentuavano gli elementi più eminentemente dance e pop e, a parte un paio di brani carini (Change Of Atmosphere/Rush e Innocent Child), deludevano. Sono tuttavia quasi dei capolavori rispetto ai seguenti, pessimi “Higher Power” (1994, ultimo titolo su CBS) e “F-Punk” (1995, su Radioactive). Da allora, il silenzio.

Tratto da La vita dopo lo Scontro. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.3, autunno 2001.

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Il Sensazionale Alex Harvey

The Sensational Alex Harvey Band

È una storia gloriosa e tragica, incastonata fra due morti premature e suggellata da altre due. Il 3 maggio 1972 al Top Rank Bingo Club di Swansea, Galles, sono in programma gli Stone The Crows, gruppo di blues progressivo in decisa ascesa (il loro manager è Peter Grant, lo stesso dei Led Zeppelin) reso inconfondibile dalla voce della cantante Maggie Bell. Li caratterizza quasi altrettanto la chitarra del ventisettenne Leslie Harvey. Quella sera qualcosa non va nell’impianto di amplificazione. Leslie si avvicina a un microfono per scusarsi e ci posa sopra una mano. Muore all’istante, fulminato da una scarica elettrica. Colpo tremendo per Alex Harvey, che quel fratellino talentuoso, di tanto più giovane di lui (dieci anni) se l’è cresciuto svezzandolo a dixieland, blues e rock’n’roll. Eventi simili possono rivoluzionare una vita ed è quanto accade ad Alex. Da un paio di anni ha lasciato le scene musicali, dopo un’ultradecennale carriera che l’ha visto pubblicare quattro pregevoli LP. Performer fenomenale e interprete e compositore eclettico, ha praticato un robusto errebì (in questo un pioniere nella natìa Scozia) come un blues di ricerca, mai dimentico delle radici folk, sperimentando anche con la psichedelia alla testa dei misconosciuti Giant Moth. È come se la scomparsa di Leslie fosse per lui un segnale che il suo cammino artistico deve riprendere ed è un’autentica frenesia di vita che si impossessa di lui. Con complici scovati casualmente e dell’età di Leslie o meno piuttosto che della sua (sono all’orizzonte i quaranta), in poco più di cinque anni pubblicherà otto album (i primi sette per i tipi della Vertigo), conoscendo pure in patria un successo di cui in precedenza aveva avuto assaggi da emigrante in Germania. Tolto il trascurabile “Fourplay”, inciso senza il leader, l’intera discografia della Sensational Alex Harvey Band è stata appena ristampata su quattro doppi CD Mercury. Ottima occasione e perdipiù a buon mercato per fare la conoscenza di un artista che fu fra i pochi della vecchia guardia rispettati dalla generazione del punk (molto di lui nel vociare malevolo di Johnny Rotten) e del cui club di estimatori fanno parte nomi tanto diversi come Nick Cave, che ne ha coverizzato un brano nel capolavoro “Kicking Against The Pricks”, e Marc Almond.

Primo frutto dell’incontro fatale fra Harvey e i Tear Gas – Zal Cleminson alla chitarra, Hugh McKenna alle tastiere, Chris Glenn al basso, Eddie McKenna alla batteria -, registrato sul finire del 1972 e pubblicato a inizio ’73, “Framed” è apprezzabile debutto in bilico fra il passato del capobanda e la voglia di attualità che in quel momento in Gran Bretagna si chiama glam. Ne offre sintesi perfetta proprio la title track, classico di Leiber & Stoller che Alex ha in repertorio dai tempi in cui chiamava casa Amburgo ed è qui bluesone ultraelettrico con su la polvere di stelle di un piano luccicante. Ove più avanti I Just Want To Make Love To You di Willie Dixon è impossibilmente intensa e randellata da ottoni striduli. Altri apici: la gotica ballata folk Hammer Song, che stregherà Cave; la favolistica e molto articolata Isobel Goudie. Chiudono la cabarettistica There’s No Lights On The Christmas Tree Mother, They’re Burning Big Louie Tonight e l’hard schiacciasassi di St. Anthony ed è fra questi due estremi che si colloca una formazione che da subito offre soprattutto dal vivo il meglio di sé, con spettacoli di accentuata teatralità. “Next” (ancora 1973) va comunque assai vicino a riprodurre in studio la possenza tutt’altro che priva di sottigliezze di performance circondate da un alone di mito. Bellissimo il brano che lo battezza, cover di Jacques Brel inondata d’archi e valgono poco di meno la politicamente scorrettissima Gang Bang, che è una coda di cometa Ziggy Stardust, una Vambo Marble Eye di cui Bo Diddley potrebbe essere orgoglioso e il finalino alla American Graffiti di The Last Of The Teenage Idols. Volendo scegliere uno solo fra i quattro doppi CD da poco disponibili, è su questo che conviene puntare.

Vale certamente l’esborso comunque pure quello che accoppia “The Impossible Dream” (1974) e “Tomorrow Belongs To Me” (1975), i due 33 giri di maggior successo. Nel primo scorci di funkadelia e innodie da pub (Anthem: basta il titolo), nel secondo hard’n’roll melodico, scampoli di dodici battute, music hall da suburbia alla Irvine Welsh e il non plus ultra della scorrettezza politica con la canzone omonima, struggente resa (ma non fatevi strane idee; il nero di Harvey era piuttosto quello dell’anarchia) di un inno della gioventù nazionalsocialista. Per completisti “Live” (1975) e “The Penthouse Tapes” (1976), quest’ultimo tutto di brani altrui, mentre valgono più di quanto di solito non si dica “SAHB Stories” (ancora 1976) e il congedo “Rock Drill” (1978). Quest’ultimo vede la luce (poca) dopo che la banda ha pubblicato il dispensabile “Fourplay” senza il leader, ormai in china discendente.

È accaduto che nel luglio ’76 un incidente aereo si è portato via Bill Fehilly, che più che semplicemente un ottimo manager per Alex Harvey era il migliore amico. La fiamma che ha arso in lui per un lustro vacilla. La bottiglia sostituisce Bill. Il solistico “The Mafia Stole My Guitar” sarà, nel 1979, ancora degno. In alcuni momenti viceversa imbarazzante il postumo “Soldier On The Wall”, uscito a qualche mese dalla morte per infarto, il 4 febbraio 1982. Esattamente un anno dopo un infarto si porterà via anche Leslie Harvey Snr, sopravvissuto a entrambi i figli. Ebbe il tempo di rimpiangere di avere instillato in loro l’amore per la musica.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.501, 17 settembre 2002.

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Il minimalismo “pop” di Terry Riley

Compie oggi ottant’anni Terry Riley, fra i padri del minimalismo forse il più padre di tutti. Per l’occasione recupero la scheda di uno dei suoi lavori più classici, “In C”, che scrissi nel 2010 per “Extra”.

Terry Riley

Pensi a cosa è l’elettronica oggi e sono computer e programmi di estrema potenza e versatilità che ti vengono in mente, alla portata di ogni tasca e intelligenza. Non così quando il Maestro californiano cominciava a manipolare registratori e nastri magnetici e marchingegni – in primis il leggendario Time Lag Accumulator, da lui stesso ideato – spesso complessi e quasi sempre inaffidabili. La necessità aguzza il genio, si potrebbe dire nel suo caso. E sarà anche vero che l’ultimo sprazzo di autentica brillantezza di un compositore che del resto va per i settantacinque risale a due abbondanti decenni or sono, vale a dire alla collaborazione con il Kronos Quartet che fruttò “Salome Dances For Peace”, e nondimeno Terry Riley resta uno di cui risulta impossibile sopravvalutare l’importanza: ispirava l’uso del bordone nel rock, costeggiava la psichedelia, preconizzava ambient, trance e new age, svolgeva un ruolo decisivo nell’introduzione in Occidente della musica indiana. Si può persino sostenere che i suoi mitici concerti per harmonium dei primi ’60, che solevano iniziare alle dieci di sera e andare avanti sino al sorgere del sole la mattina dopo, siano stati i primi rave. Magari non si ballava, ma si sballava eccome e senza neppure bisogno di aiutini chimici.

Quattro le pietre d’angolo dell’edificio dell’immortalità artistica rileyana, posate nel breve arco di sei anni, fra il 1963 e il 1969. La prima “Music For The Gift”, giocata sull’iterazione perennemente cangiante di un frammento di una registrazione del Chet Baker Quartet alle prese con Miles Davis. La terza e la quarta, “Poppy Nogood And The Phantom Band” e “A Rainbow In Curved Air”, rispettivamente per sax soprano e organo e piano elettrico, dumbak e cembalo. A incantare, sedurre e fare circolare il nome del Nostro ben al di fuori dei circoli iniziatici era però “In C”: tanto azzardato concettualmente (consta di cinquantatré frasi musicali di durata compresa fra la mezza e le trentadue battute, ciascuna delle quali può essere ripetuta per un numero arbitrario di volte dai musicisti di un ensemble consigliabilmente di trentacinque elementi) quanto melodicamente insidioso. Probabilmente il minimalismo più pop su questo lato di Philip Glass.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.34, estate 2010.

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Fra dancefloor, jazz e sperimentazione: l’elettronica di Squarepusher

La scorsa settimana mi sono ritrovato a scrivere di un disco di Squarepusher –il claustrofobico “Damogen Furies” – ed era da un bel po’ che non mi accadeva. Per quanto da sempre assai meno hip (meno capace di “vendersi”, questo è certo) dell’amico Aphex Twin, Tom Jenkinson resta uno da seguire, certi che non annoierà mai. Altro che diventare “manieristico”! Come paventavo in questo articolo scritto per un “Blow Up” ai primi passi, ancora nemmeno distribuito in edicola.

Squarepusher

Mettete Aphex Twin e Charlie Parker nella stessa stanza, allungate loro una canna e questo è ciò che otterrete.

Così scriveva Rene Passet a proposito di Tom Jenkinson, meglio noto come Squarepusher (aka The Duke Of Harringay), all’altezza dell’uscita di “Feed Me Weird Things”, lavoro datato 1996, uno dei più acclamati della nuova elettronica. Pittoresca e un po’ ironica, oltre a far sorridere la frase del Passet ha il merito di identificare e collegare i due universi messi in comunicazione dal giovane Jenkinson (allora appena ventenne: un altro enfant prodige, come il fraterno amico Richard James/Aphex Twin): da un lato il jazz; dall’altro, più della drum’n’bass, la techno. Lo stesso Squarepusher ci tiene a precisarlo: “Quando recensiscono i miei dischi finiscono sempre nella sezione jungle e personalmente trovo la cosa alquanto discutibile. Se proprio si vuole etichettarli, dovrebbero finire fra quelli techno, con i quali hanno sicuramente più affinità”. Non è questione soltanto di suoni e di ritmi ma di attitudine, dacché il Nostro è distantissimo dall’integralismo che ha sempre caratterizzato, in special modo nella sua fase underground, la scena drum’n’bass. Merito di un’educazione musicale precoce e caratterizzata dall’eclettismo.

Non ancora teenager il futuro Squarepusher è esploratore curioso e instancabile della ricca collezione di dischi – in prevalenza jazz e reggae, con molto dub in mezzo – del padre. Imbraccia presto il basso elettrico e a dodici anni fonda un gruppo metal. Quattordicenne si innamora di Stanley Clarke e dei Weather Report e da lì passa a Dizzy Gillespie e Charlie Parker. A quindici anni, un’illuminazione: “Ascoltai ‘LFO’, del gruppo omonimo, e istantaneamente mi convertii alla techno. Prima pensavo che l’elettronica fosse spazzatura. Il mio punto di vista era: come è possibile chiamare musica un qualcosa che è stato composto su una tastiera, non su uno strumento vero?”. Sei anni dopo Jenkinson si troverà a incidere proprio per l’etichetta dei seminali LFO, la Warp.

Che abbia cominciato a fare musica suonando con altri piuttosto che in solitudine, come larga parte degli esponenti della nuova elettronica, è particolare non irrilevante. La circostanza farà del suo spettacolo live, che pure lo vede solo sul palco, basso a tracolla, uno dei pochi dignitosi in quest’ambito (per Björk addirittura “la cosa migliore ch’io abbia visto da molti anni a questa parte”) e quel che più conta influenzerà il suo modo di comporre: “Ho suonato in gruppo sin da quando avevo dodici anni ed è così che ho imparato l’arte dell’arrangiamento. Quando scrivo musica, anche se è elettronica, tendo sempre a farlo come se stessi componendo per una band. Non mi ci approccio come a una banca di suoni. Penso per settori separati: questa è la parte delle tastiere, questa quella del basso e la batteria occupa questo spazio. E ogni parte interagisce con le altre con le dinamiche tipiche di un gruppo”.

A diciassette anni, nell’isolamento della sua cameretta (come, a pochi chilometri di distanza, Richard James), Tom Jenkinson, ora Squarepusher, inizia a registrare le proprie composizioni utilizzando una batteria elettronica DR-660, un campionatore Akai S-950, un basso elettrico e un otto piste a bobine.

Se si desidera seguirne la carriera, ancora giovane ma già ricca di produzioni, rispettando l’ordine cronologico dei suoi tre album è l’ultimo uscito che bisogna ascoltare per primo. “Burningn’n’Tree” (Warp) ha una confezione di un’austerità faustiana. Non ci sono nemmeno i titoli dei pezzi, circostanza che induce a pensare che si tratti di materiale altrimenti inedito, e l’unica informazione che è fornita riguarda le date di registrazione: quattro brani risalgono al ’95 (Jenkinson aveva allora diciannove anni), cinque al ’96 e i restanti tre sono del ’97. Difficile, per non dire pretestuoso, individuare comunque una linea evolutiva. Ci si muove già fra i paesaggi sonici che caratterizzeranno i primi due LP pubblicati dal Nostro, fra cupezze industrial (la seconda traccia), giustapposizioni fra un caloroso basso funky-jazz e gelide sincopi jungle (un po’ ovunque e in particolare nella quarta e nella sesta traccia), riattualizzazioni dei Weather Report (la quinta e la settima traccia: davvero clamorose), tastiere effetto piano elettrico filtrate attraverso camere d’eco (gli ultimi due brani) e altre simil-Hammond alla maniera di un Jimmy Smith (il primo e il terzo, aperto da sintetiche ondate metalliche). Per essere scarti, c’è di che leccarsi le dita.

Se si vuole avere un solo album di Squarepusher è tuttavia l’esordio sulla lunga distanza “Feed Me Weird Things” (Rephlex) che bisogna mettersi in casa. È un disco di gusto e eclettismo fuori dal comune, come esplicita già il trittico d’apertura: in Squarepusher Theme, a fronte di una batteria jungle, chitarra e basso sprigionano aromi brasiliani e l’insieme ha una compattezza e uno swing irresistibili; Tundra è ambient drum’n’bass allo stato dell’arte; in The Swifty sullo scheletrico ritmo di partenza si incastrano un piano elettrico memore dei primi Return To Forever e un basso alla Jaco Pastorius. E non sono forse neppure i titoli più memorabili. Che dire della sospesa desolazione di Goodnight Jade che nella successiva Theme From Ernest Borgnine deflagra in un’esplosione jungle? O della badalementiana U.F.O’s Over Leytonstone? O della ritmica quasi ragtime e degli inserti da cartoon di Smedley’s Melody? Giova ricordarlo: l’autore di simili meraviglie è un ventenne.

Tanto è stato incensato “Feed Me Weird Things”, tanto il successivo di un anno “Hard Normal Daddy” (Warp) è stato snobbato e finanche vilipeso. La principale accusa mossagli, quella di marcare uno spostamento verso la figlia degenere del jazz-rock, la fusion, pare in verità pretestuosa. Se anzi gli si può muovere un rimprovero è quello di non evidenziare scarti stilistici rilevanti rispetto al predecessore. Giusto qualche invenzione: un basso in Coopers World che porta dritti dalle parti del Miles Davis di “On The Corner”, un arrangiamento in Anirog 09 che richiama (forse involontariamente) la Penguin Cafe Orchestra, un non so che di electro che fa capolino (ancora più evidente nelle due versioni uscite su un mini) in Fat Controller e in Vic Acid. Manca l’effetto sorpresa, ma ciò accade in tutti i secondi album, nevvero?

Ma nondimeno bisogna ammettere che lo stile di Squarepusher, dapprincipio così fresco, corre il serio rischio di farsi in breve manieristico (e in questo imiterebbe sì la fusion). Se saprà o no seguitare a stupirci come l’amico e mentore Richard James, lo scopriremo solo vivendo.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.5, marzo/aprile/maggio 1998.

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Van Hunt – The Fun Rises, The Fun Sets (Thirty Tigers)

Van Hunt - The Fun Rises The Fun Sets

Beffa delle beffe che si chiami “Popular” un album che, quando non solo una data di uscita (15 gennaio 2008) era stata fissata ma addirittura alcuni promo erano stati inviati alla stampa, veniva accantonato dalla casa discografica che avrebbe dovuto pubblicarlo. E devono essersi lasciati proprio male Van Hunt e la Blue Note se, dopo averci speso pare non poco per la registrazione, la seconda non è mai tornata sui suoi passi e il primo si è visto respingere un’offerta per riscattare i master. Piccola tragedia (i privilegiati che hanno potuto ascoltarlo quel lavoro ne dicono meraviglie) che segna una cesura netta in una carriera fino ad allora mai baciata da vendite stratosferiche ma lo stesso tutta in ascesa, in curriculum già qualche hit scritta conto terzi, due album su Capitol molto applauditi dalla critica, una candidatura ai Grammy per il primo e omonimo e successivamente una vittoria per una cover di Family Affair in comproprietà con John Legend e Joss Stone. Lì si è rotto qualcosa. Da lì in poi il nostro uomo ha optato per l’indipendenza e questo è il secondo capitolo ufficiale della sua nuova vita dopo l’ottimo “What Were You Hoping For?” del 2011.

Dovrebbe trionfare al botteghino “The Fun Rises, The Fun Sets” anche solo per permettere all’autore di avanzare una nuova offerta alla Blue Note per “Popular”. Dovrebbe semplicemente perché se lo stramerita, ma difficilmente accadrà. Disco fantastico diviso piuttosto nettamente fra una prima metà in cui prevale un funk scarnificato devoto a Prince (un’ossessione per il Nostro) come ai Parliament e una seconda di ballate che potrebbero essere ascrivibili a un Curtis Mayfield inaudito in vena di sperimentazioni. Non vale l’ultimo D’Angelo ma, qualitativamente, non ne è granché distante.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.363, maggio 2015.

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Per i settantatré anni di Sir Paul McCartney

“Mi amerai ancora quando avrò sessantaquattro anni?”, cantava quando non ne aveva che venticinque e oggi che ne compie settantatré certo che sì, che lo amiamo ancora. Faccio gli auguri al Baronetto ripescando una recensione di quello che è forse il suo album migliore post-Beatles (o comunque uno dei due o tre migliori), “Chaos And Creation In The Backyard”. Un piccolo capolavoro clamorosamente datato 2005, tre decenni e mezzo dopo lo scioglimento dei Fab Four.

Paul McCartney - Chaos And Creation In The Backyard

È la vecchia domanda, meno sciocca di quanto non paia siccome è fra due visioni della musica e persino del mondo e non solo fra due grandi gruppi che si deve scegliere: Beatles o Rolling Stones? Voto per i primi e dire che i secondi li adoro. Però, a parte che furono i Beatles a creare il mondo in cui gli Stones hanno potuto muoversi, se si parla di sapienza compositiva non c’è gara. E ove la banda Jagger/Richards si è quasi sempre aggirata in un universo relativamente ristretto i Fab Four non si posero limiti. Misero casomai loro sulla mappa colonne d’Ercole superando le quali miseramente si naufraga. Ora… Risposto in tal modo alla prima domanda una seconda inevitabilmente segue: Lennon o McCartney? Qui spiazzerò chi mi conosce anche di più: sostenitore dapprincipio del primo, da parecchi anni in qua – diciamo dal ’97, dalla pubblicazione della magnifica biografia di Macca scritta da Barry Miles Many Years From Now – le mie simpatie, se mi obbligano a scegliere, vanno al secondo. È che mi pare che il suo ruolo nei Beatles sia sempre stato sottovalutato e più che mai dacché la scomparsa di Lennon ha prodotto un’agiografia che costantemente sminuisce il sodale. Detto ciò: se è di dischi in proprio che si discute, Lennon stravince e questo nonostante un catalogo giocoforza più smilzo e non senza magagne. Tolte le primissime cose, c’è sconfortantemente poco di salvabile nel McCartney con una foglia di fico chiamata Wings o, anche formalmente, solista. Qualche canzone ogni tanto a galleggiare su un mare di sentimentalismo.

Lunga premessa per dire quanto mi abbia preso in contropiede quello che è il suo album migliore del dopo-Baronetti. Un miracolo o poco meno sul quale devono avere pesato due fattori: che in una vita pur bellissima le cicatrici siano ormai tante (John, Linda, George) e che a produrre sia stato chiamato quel Nigel Godrich già regista di un altro prodigio chiamato “Kid A”. Godrich non ha stoltamente modernizzato, ha invece “asciugato” e se ne prendano a paradigma quegli archi che in passato avevano quasi sempre sciupato le poche idee valide, annegandole nella melassa, e sono invece qui austeri, a momenti lugubri. Godrich non è mai stato compiacente, rigettando una via l’altra le canzoni che non riteneva all’altezza. Ha fatto il resto un’ispirazione clamorosamente ritrovata, da decenni mai della consistenza di una Jenny Wren mediana fra Blackbird e Mother Nature’s Son, di una Friends To Go che apertamente omaggia Harrison, di una A Certain Softness più “Forever Changes” che “Sgt. Pepper’s”, di una English Tea fra Kinks, Zombies e XTC pastorali, di una Promise To You Girl che sembra uscire da “Abbey Road”. Mai si era sentito un McCartney della sobrietà di How Kind Of You: dolcissima, certo; solenne, certo; a ben ascoltare poco più che un bordone.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.20, inverno 2006.

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James Brown, prima della rivoluzione

James Brown - The Singles Vol.01

Quel che si dice un giudizio succinto ma che lascia spazio alla speranza e a più di un’interpretazione: “È la peggiore cagata che io abbia mai ascoltato”. Benevole parole di Syd Nathan riguardo a Please, Please, Please che gelavano l’uomo che tanto si era adoperato per portare il titolare del brano, un tal James Brown, all’etichetta di Nathan, la Federal. Per mettere sotto contratto l’ex-pugile, giocatore di baseball e galeotto Ralph Bass aveva addirittura ingaggiato una gara non per modo di dire con Leonard Chess, niente di meno, precedendolo in Georgia in auto in una notte atmosfericamente di tregenda, nel mentre il concorrente restava bloccato dal maltempo in Illinois. E una volta nella segregatissima Macon si era dovuto inventare stratagemmi da agente segreto per riuscire a parlare, lui bianco, con il manager di colore dell’artista. Fatica sprecata? No. Di fronte alle proteste di Bass, alle suppliche di fare uscire il singolo almeno in qualche stato del Sud per testare il mercato, serafico il patron gli spiegava che lo avrebbe invece distribuito su scala nazionale. Giusto per il gusto di dimostrare l’incompetenza del suo sottoposto, visto che per certo quel disco non avrebbe venduto niente. Se questo racconto fosse un film adesso lo schermo sarebbe nero e con al centro una scritta: “Un milione di copie dopo…”.

Essendo la doppia raccolta di cui vedete qui da qualche parte la copertina (occhio al promettente sottotitolo: “Volume One”) sistemata in ordine cronologico, Please, Please, Please – un numero 5 R&B e 105 Pop nella primavera 1956 e quel che più conta un long seller da manuale – la inaugura. Syd Nathan ebbe per fortuna torto, se no di James Brown potremmo non avere mai sentito parlare (incommensurabili le conseguenze sulla musica del Novecento). Però a riascoltare per la centesima volta questa accorata serenatona viene da dire che un minimo di ragione ce l’aveva, perlomeno nel giudicarla, nel pieno come si era dell’esplosione del rock’n’roll, vetusta. Una robina passatista – fra l’altro: una rielaborazione nemmeno troppo mascherata di una hit degli Orioles di tre anni prima, Baby Please Don’t Go – ove da lì a un decennio e per un altro tondo decennio filato il Soul Brother Number One non solo non sbaglierà un colpo ma cambierà per sempre pop e black music spostando l’accento dalla melodia al ritmo. Persino abolendola, la melodia. Facendo di ogni strumento e ogni voce un tamburo. Ma in Please, Please, Please tutto ciò è molto a venire e neppure lontanamente immaginabile e così nel retro Why Do You Do Me, pencolante fra blues e gospel. Così nella più parte dei ben diciotto altri 45 giri che il nostro eroe dava alle stampe da lì all’agosto 1960 e bisognerà arrivare all’undicesimo, Try Me, perché si replichi e pure in grande (#1 R&B, #48 Pop) il successo dell’esordio. Insomma: Nathan proprio fesso non era e sordo – impressionante l’elenco dei suoi artisti: Wynonie Harris, Roy Brown, Lonnie Johnson, John Lee Hooker, Freddie King, Champion Jack Dupree, Esther Phillips, Dominoes, Big Maybelle, Five Kings, Little Willie John – meno che mai. Il James Brown maggiore comincia, non direi a delinearsi ma a essere concepibile, soltanto dopo Try Me, che di suo non è che un’altra Please, Please, Please e dunque ancora più in ritardo sui tempi. Il rivoluzionario che sarà non balugina che in I’ll Go Crazy, un anticipo di garage bianco pubblicato nel gennaio ’60 che difatti i garagisti (primi i Blues Magoos) adotteranno entusiasticamente diversi anni dopo e da allora se lo sono sempre tenuto caro. E si concretizza un po’ di più nel 7” immediatamente successivo, Think, pura nitroglicerina e paradossalmente una cover, dei Five Royales. Ma non fatevi illusioni, leggendo il titolo, sul lato B: You’ve Got The Power non invoca sommovimenti sociopolitici e non è napalm che cola nei solchi ma melassa.

Scorgo volti perplessi, espressioni interrogative… Ah ’bbello! Stai sprecando una pagina per dirci di non comprare un disco? Assolutamente no. Pur facendo la tara al surplus di divertimento dato dalla conoscenza pregressa di una larga maggioranza di questi materiali, già antologizzati più volte su raccolte capitali come la quadrupla “Star Time” e la doppia “Roots Of A Revolution”, io me la sono spassata un casino facendo girare “The Federal Years 1956-1960”. Il punto è che se il nostro uomo non si fosse evoluto è certamente vero che lo si ricorderebbe oggi alla stregua di un Hank Ballard (e dunque al massimo di un minore fra i maggiori, non di un monumento), ma varrebbe comunque la pena di ascoltarlo. E a nessuno importerebbe di come in questo principio di carriera fosse spesso indietro sui tempi invece che avanti. Nessuno nemmeno se ne renderebbe conto, ilarmente disperso fra doo wop festosi e blues da guancia a guancia invece che l’opposto, rimembranze di spiritual e gigionerie alla Little Richard, ballate melliflue e stomp quasi alla Louis Jordan.

Syd Nathan aveva ragione, ma aveva torto. In vertiginosa ascesa di popolarità, James Brown nell’autunno 1962 gli proporrà di fare uscire un album dal vivo. “Dovrai passare sul mio corpo”, la risposta. Ricordatevene ogni volta che metterete su l’epocale “Live At The Apollo”.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.636/637, luglio/agosto 2007.

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