The Story Of Bo Diddley (30 dicembre 1928-2 giugno 2008)

In almeno metà dei suoi conclamati classici Ellas McDaniel ha infilato nel titolo il suo nome d’arte: Bo Diddley, Diddley Daddy, Hey Bo Diddley, The Story Of Bo Diddley, Bo’s Blues, Bo Diddley Is Loose. Deliri di onnipotenza alla Diego Armando Maradona, che parlava di sé in terza singolare? Niente affatto.

Bo Diddley

La pratica del “bragging”, la vanteria esagerata, fa parte della cultura afroamericana da quando era solamente afro. Era del blues ed è dell’hip hop. Tutte quelle storie con un protagonista che è l’artista stesso che sa cavarsela in ogni situazione, ha la favella più sciolta, le mani più svelte, le donne più belle perché al suo fascino nessuna sa resistere e lui ce l’ha più grosso di tutti, l’ego. Da Bo Diddley a Snoop Doggy Dog, si avvicendano le generazioni ma resta intatto nel nucleo uno stile che viene da lontano. Ma anche non fosse un frutto di questa tradizione Bo Diddley avrebbe ogni diritto di autoincensarsi: pochi hanno inciso come lui sulla storia della musica popolare del Novecento.

Più giovane di un paio di anni di quel Chuck Berry suo grande amico e rivale premiato dalle classifiche non quanto avrebbe meritato ma parecchio più di lui (incredibile a dirsi: un unico disco nei Top 20 generalisti americani a fronte di una manciata di titoli nella graduatoria R&B), il nostro eroe festeggerà il settantottesimo compleanno il prossimo 30 dicembre. Magari suonando dal vivo, visto che la sua attività concertistica è ancora piuttosto fitta e neppure limitata ai soli Stati Uniti. Sarà ad esempio in Finlandia, attrazione di spicco del “Pori Jazz Festival”, il 19 e 20 luglio e se qualche lettore dovesse capitare da quelle parti ci faccia sapere se è ormai da museo oppure no. Per certo non lo era, già sessantenne, alla rassegna romana del novembre 1988 dei “Giganti del Rock’n’Roll” (con James Brown, Ray Charles, Fats Domino, B.B. King, Jerry Lee Lewis e Little Richard). I convenuti lo ricordano in forma smagliante, unico forse fra i non molti sopravvissuti di quell’epoca a non fare la figura un po’ patetica del reperto archeologico. Un anno dopo usciva, rimediando recensioni mediamente positive oltre che reverenti, “Breaking Through The Bs”. Per la Triple X, nientemeno, un’etichetta devota prevalentemente al punk che griffava anche i successivi “This Should Not Be”, del 1992, e “Promises”, del ’94, anno in cui apriva alcuni spettacoli dei suoi discepoli prediletti, tali Rolling Stones. Quello che a oggi è l’ultimo lavoro in studio, “A Man Amongst Men”, vedeva la luce nel 1996 e (di nuovo: incredibile a dirsi) era la sua seconda uscita major di sempre, a venti tondi anni dalla prima.

Tuttavia: per quanto i suoi dischi dei tardi ’60 e dei tre decenni seguenti siano tutti come minimo dignitosi e il Nostro abbia sempre conservato sul palco una vitalità prodigiosa è però quanto produsse dall’incredibile esordio del 1955 – Bo Diddley su un lato, I’m A Man sull’altro: nessuno ha mai debuttato con due classici di tale portata – al giro di boa del decennio seguente che ha fatto incommensurabile l’influenza di Ellas McDaniel sull’evoluzione del rock. Fu il primo bluesman che piuttosto che elettrificare la musica del diavolo, aggiungendole dunque una sovrastruttura, fece dell’elettricità un suo elemento portante. Fu fra i primi e fra i rari musicisti in tale ambito a registrare in stereo e a sperimentare con le nuove tecniche di registrazione (altro che primitivo!). Fu uno dei numi titolari dei teppisti del blues britannici: i già citati Rolling Stones, gli Animals, gli Yardbirds, i Them avevano suoi brani in repertorio e i primi Pretty Things, oltre che mutuarne lo stile, lo omaggiarono persino con la ragione sociale (il brano a onor del vero è di Willie Dixon, ma il Nostro come minimo lo personalizzò assai). Nel 1973 i New York Dolls cominciavano a inventare il punk riprendendo la sua Pills. Nel 1979 i Clash chiedevano e ottenevano che fosse lui ad aprire i concerti del loro primo tour americano. Per venire a tempi a noi relativamente più vicini, quella che in tanti considerano la canzone più memorabile degli Smiths, How Soon Is Now?, è costruita su un ritmo che è quintessenza di Bo Diddley sul quale si muove ondivaga una magnifica chitarra psichedelica.

A proposito di psichedelia: uno dei pilastri del genere, “Happy Trails” dei Quicksilver Messenger Service, è costituito per due terzi da lunghe improvvisazioni sui due cavalli di battaglia per eccellenza del nostro uomo, Who Do You Love e Mona. E nell’hard dei Led Zeppelin della sua lezione vi è più che qualche confusa traccia. E, prima che il rap le istituzionalizzasse, fu Bo Diddley a sdoganare le cosiddette “dozens”, le pittoresche gare di scherzosi insulti da sempre popolarissime nei ghetti: l’esilarante Say Man del 1958, con il braccio destro Jerome Green a fare da mordace spalla sul caracollante incedere di un piano latino, è un esempio da consegnare agli studiosi del costume oltre che a quelli della musica.

La musica, allora. Elettrica si è detto, al punto che prima che l’uso di amplificare gli strumenti diventasse comune un Bo Diddley è semplicemente inimmaginabile. Proiettata quindi verso il futuro quando il nostro eroe arrivò infine a inciderla, complice il solito Leonard Chess, dopo anni trascorsi a suonarla agli angoli delle strade e nei club (era stato in precedenza, pensate un po’, violinista classico e pugile). Però con le radici saldamente affondate in un passato ancestrale. Il ritmo che da cinquant’anni si è soliti definire “alla Bo Diddley” – tribale, incalzante, ossessivo – è figlio di Mamma Africa ed è il medesimo tempo dispari del clave cubano e della danza religiosa, chiamata shout, più popolare fra gli africani d’America nell’Ottocento. I compositori ragtime ne usarono e abusarono nelle parti di basso e l’autoproclamato “inventore del jazz” Jelly Roll Morton la utilizzò in una pietra miliare quale Black Bottom Stomp. È il ritmo del vudù, di Cuba e di Haiti, della Louisiana e del Mississippi. Fu quest’ultimo stato a dare i natali a Otha Ellas Bates. Quando nel 1936 si trasferiva a Chicago con una cugina della madre (da lì il cambio di cognome in McDaniel) non diventava uno sradicato perché l’emigrazione nera dal Mississippi verso quella città era stata, ed era ancora, massiccia.

Sull’origine del soprannome “Bo Diddley” ci sono due versioni. Quella dell’interessato è che è una variazione slang del termine “bully” (spaccone, bulletto) che gli venne affibbiata da ragazzino per la tendenza (sorprendente, vista l’aria mansueta e dottorale) a reagire agli sfottò con i pugni oltre che con la lingua. Si dà però il caso – tiri ognuno le sue conclusioni – che la rozza chitarra autocostruita a una corda tipica del folklore del sud del Mississippi si chiami diddley bow e che da sempre il buon McDaniel sia stato il liutaio di se stesso. Le sue chitarre dalla foggia bizzarra, generalmente rettangolari e singolarmente accessoriate (se ne ricorda in particolare una, mitica, foderata di pelliccia), fanno parte dell’iconografia del personaggio quanto gli occhiali da professore e le giacche a quadri.

Fino a poche settimane fa il miglior modo per accostarsi a Bo Diddley era mettere le mani su quel “The Chess Box” doverosamente incluso da “Extra” fra i dischi fondamentali della storia del rock: forte di un eccellente libretto con dentro uno splendido saggio di Robert Palmer e di quarantacinque titoli. Lo batte adesso, conquistandosi con cinquantaquattro tracce e finalmente nessuna assenza grave il titolo di migliore bignami di Bo Diddley mai allestito, un pure doppio “The Story Of”. Un’ora, trentaquattro minuti e cinquantacinque secondi di goduria senza requie, da una sferragliante Mumblin’ Guitar a una Bo’s Bounce a passo di carica, collana con l’immane pregio di inanellare, oltre ai classici che tutti conoscono, perle semidimenticate che certificano uno stile assai meno monocorde di quanto spesso non si affermi: da una caraibica Walkin’ And Talkin’ a una Crackin’ Up che invece pure (proto-reggae, ecco), da una Down Home Special sulla quale i Ten Years After ricalcheranno I’m Going Home ai tanti brani pregni di doo wop, in prima fila una I’m Looking For A Woman con i Moonglows ai cori. Ascoltate Craw-Dad o I Can Tell e ditemi se i Cramps non sono già tutti lì. Che diamine! Ci sono già gli White Stripes, per intero.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.623, giugno 2006.

4 commenti

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4 risposte a “The Story Of Bo Diddley (30 dicembre 1928-2 giugno 2008)

  1. Francesco

    grande Bo, lo vidi dal vivo con Ron wood un sacco di anni fa ed era una forza, altro che vecchia gloria e poi i miei amati QMS facevano sempre mona e wdyl…

  2. sergiofalcone

    L’ha ribloggato su sergiofalcone.

  3. Alessio

    Ciao Eddie, mi puoi dare un tuo parere sull’album “Super blues” pubblicato nel 1967 dalla Checker Records con Muddy Waters e Little Walter? Ne vale la pena o è il classico supergruppo che, come spesso accade, crea tante aspettative dati i pesi massimi in campo, ma che puntualmente delude?

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