Frugo negli archivi e vi rinvengo le recensioni di due album per me “classici” di Ornette Coleman e di un interessante lavoro “minore”. Eccole qui, piccolo e indegno omaggio a un grandissimo che ci ha lasciati ieri.
Tomorrow Is The Question! (1959)
“Ritengo che la musica di Ornette sia uno sviluppo di quella di Charlie Parker senza che di Parker riprenda le scale o lo stile. È un qualcosa di assai più profondo e spero che sia lui che Don Cherry abbiano una vita artistica lunga e fruttuosa”: così quella vecchia lenza di John Lewis riguardo a un Coleman che aveva appena fatto irruzione – era il 1959 – sulla scena del jazz senza che in molti se ne accorgessero e, fra quanti lo avevano notato, senza che i più lo considerassero il genio che è, semmai un bluff. Coglieva nel segno Lewis e presto in tanti gli avrebbero dato ragione. Nondimeno, sempre un passo davanti o di fianco al fluire del jazz, Coleman avrebbe seguitato a stupire negli oltre quarant’anni trascorsi da allora. Ancora recentissimamente (questione di pochi giorni fa nel momento in cui scrivo, di uno straordinario concerto torinese con il fido Denardo assiso dietro piatti e tamburi e i contrabbassi di Tony Falanga e Greg Cohen in costante dialogo) capace di svettare sul resto di una musica inanemente consegnatasi all’eterna ripetizione di se stessa.
Non direi che suona ancora avanti, ma è per certo fresco e moderno l’Ornette Coleman catturato fra il gennaio e il marzo del 1959 da Lester Koenig a Los Angeles, su incarico della Contemporary. Affiancano il suo sax alto la tromba di Cherry, il contrabbasso di Percy Heath (o di Red Mitchell) e la batteria di Shelly Manne ed è un gioioso e magmatico scorrere di blues alterati (Tears Inside, Giggin’, Turnaround), ballate (Compassion, Lorraine), presagi di armolodia (Mind And Time, Endless). Tappa intermedia fra gli storici “Something Else!!!” e “The Shape Of Jazz To Come”, “Tomorrow Is The Question!” non li vale ma resta testimonianza preziosa dei preparativi per una rivoluzione.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.239, ottobre 2003.
The Complete Science Fiction Sessions (1971)
Riuscite a immaginarvi una squadra di calcio che cede in un un colpo i suoi quattro elementi di punta, i suoi campionissimi? È esattamente quanto fece la divisione jazz della Columbia nel 1973, quando tagliò Keith Jarrett, Charles Mingus, Bill Evans e Ornette Coleman. Sicché per quest’ultimo, che lì si era accasato nel ’71, la discografia per tale etichetta si trovò a contare due titoli appena. Ma che titoli! Quello “Skies Of America” pietra d’angolo della teoria armolodica e questo (precedente) “Science Fiction”. Solo nel 1982, con materiale coevo, assemblerà un terzo LP, “Broken Shadows”. Trascorsi altri diciotto anni, ecco che con scrupolo filologico i due album vengono ristampati insieme con l’aggiunta, il primo, di due versioni alternative di Street Woman e Civilization Day, e il secondo di un inedito, Written Word. Considerate, oltre alla bellezza dei due lavori, che il secondo era da tempo irreperibile e che questo doppio è venduto come un singolo, cioè a parecchio meno di quanto costava la stampa giapponese (l’unica disponibile) del solo “Science Fiction”, e converrete che si tratta di un evento.
Se queste storiche sedute suonano ancora qui e là radicali, riascoltate oggi paiono comunque nel complesso più fruibili di quanto non dovettero apparire all’epoca, ora incontro con il gospel (What Reason Could I Give), ora frenetica giostra di stridulo funky (Rock The Clock), alato incontro con il soul (All My Life) o sarabanda post-ayleriana (School Work). Fuori luogo, forse, ma trascinante l’errebì Good Girl Blues, superbi Don Cherry e Charlie Haden, buono il remastering.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.205, settembre 2000.
Dancing In Your Head (1977)
Uno dei dischi più iconoclasti di uno dei jazzisti più iconoclasti di sempre. Nell’esilarante e invincibile Theme From A Symphony (Variation One), il sax di Coleman vola a scatti lungo le tangenti disegnate dalla batteria di Ronald Shannon Jackson, incrociandosi con il basso ultradinamico di Rudy MacDaniel e le chitarre affilatissime di Bern Nix e Charlie Ellerbee. Se la circolare e ossessiva Variation Two è replica ancora più nevroticamente danzerina, funky e frenetica come solamente New York può essere, con il congedo Midnight Sunrise l’orgiastico e insieme mistico baccanale si trasferisce a migliaia di chilometri e molti secoli di distanza, nell’arcaico Marocco dei Masters Musicians Of Joujouka. Il successivo di un anno “Body Meta” evidenzierà un più maturo sviluppo di alcune idee, ma per l’enorme influenza esercitata sulla no wave, che lo elesse a Vangelo, “Dancing In Your Head” è la prima scelta.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.13, primavera 2004.
L’ha ribloggato su sergiofalcone.
Buonasera Maestro, gradito l’omaggio al grande Ornette.
Mi ha molto incuriosita questa teoria armolodica riportata nelle recensioni, ho tentato d’informarmi (wikipedia), ma poche e generiche notizie: come di una specie di atonalità, con una libera e democratica associazione di melodia e armonia… Troppo poco e generico per essere addirittura un qualcosa che contraddistingue l’opera di Coleman. Cos’é l’armolodia?
Con parole mie non potrei mai dirlo meglio.
https://en.wikipedia.org/wiki/Harmolodics
Sì, avevo letto. Ma questo (di là dell’apparenze) ritengo sia insufficiente per poter riscontrare applicate e applicabili teorie musicali in dischi o brani (di Coleman o di altri) che ne determinino le loro peculiarità sia in senso relativo sia in senso assoluto. Rimarrà un mistero…Grazie lo stesso.
Quindi avrei dovuto spiegare io, con parole mie, una teoria che nell’enunciazione stessa di chi la formulò non è esattamente un capolavoro di intellegibilità? O mi sopravvaluti grandemente, o mi stai perculando. Nella stessa misura.
Ho solo chiesto lumi visto che hai citato questa teoria armolodica per esplicare meglio le tue recensioni. Però se affermi che non è chiara per nessuno, forse nemmeno per Coleman…
Scrivendo di “Science Fiction” non ho fatto che riportare quanto sosteneva, riguardo al peraltro successivo “Skies Of America”, lo stesso Coleman. Punto.
Che dici Eddy? Ci vai?