Un po’ è per mancanza di spazio e no, non posso prendere in considerazione l’idea di cambiare di nuovo casa perché non basta più a contenere i dischi: non ancora. Un po’ è proprio per scelta filosofica: così come espello quanto non mi è piaciuto, e di cui presumibilmente non dovrò più fare un uso professionale, riciclo al volo pure i doppioni. Con qualche rara eccezione per ragioni affettive, se esce un’edizione ampliata o meglio suonante di un album faccio fuori quella che era in mio possesso. Vale tantopiù per le antologie le cui scalette si sovrappongono. Non tengo occupato un prezioso centimetro di scaffale per un brano o due. “Cazzomenefrega!”, dirà qualcuno. Calma, ci sto arrivando.
Qualche giorno fa mi viene recapitato un doppio CD Trojan di uno dei miei cantanti reggae preferiti, Ken Boothe. Titolo a tal punto scontato – “Everything I Own”, che è la canzone con la quale il Nostro andò al numero uno in Gran Bretagna nel 1974 – che la Trojan stessa lo aveva già utilizzato per un’altra raccolta, quella però singola. Più promettente il sottotitolo: “The Definitive Collection”. Finalmente! Constato che i titoli in scaletta sono la bellezza di cinquantatré, metto su il primo dischetto, grugnisco di soddisfazione quando il display mi segnala 79’15” (il secondo dura pochi secondi di meno), non sto più nella pelle sin dalle prime battute di un brano che non avevo – Uno, dos, tres, una produzione ska di Duke Reid del 1963 per il duo che il quindicenne (!) Boothe aveva formato l’anno prima con Wilburn “Stranger” Cole. E naturalmente vado a estrarre dalla sezione giamaicana delle mie librerie quella “The Ken Boothe Collection” (sottotitolo: “Eighteen Classic Songs”) che mi fece innamorare del soulman caraibico per antonomasia. Fra i miei dischi da isola deserta da subito e non potrò mai ringraziare abbastanza il collega e amico che, in un rovente luglio romano di una vita fa, me la allungò da Disfunzioni Musicali con un perentorio consiglio d’acquisto. Ovviamente adesso la darò via. Altrettanto ovviamente – perché i dischi da isola deserta non si rivendono: si regalano – donandola a una qualche persona cui tengo, così che il Verbo possa continuare a diffondersi. Ebbene… l’ho dovuta rimettere a posto. Perché nella collezione presunta “definitiva” a parte una No Woman No Cry gustosa ma tutto sommato prescindibile mancano gemme viceversa irrinunciabili come una suadentissima Come Softly To Me, un’irresistibilmente melliflua African Lady, una resa da urlo di Speak Softly Love (dalla colonna sonora de Il padrino). E altro ancora. Mi metto a ’sto punto a spulciare i sacri testi e viene fuori un tale elenco di assenze gravi o gravissime – buona parte dei successi del periodo ska, la produzione di Studio One al gran completo… ed è meglio che mi fermi qui – che ci si sarebbe potuto allestire un terzo compact e riempire pur’esso ai limiti della capienza. Spazientito e nondimeno godutissimo per quanto di delizioso sta in ogni caso prorompendo dalle casse, fra cui fior di cose mai sentite in digitale, spalanco il libretto e le prime parole che leggo sono queste: “Tanto per cominciare, dovremmo forse ammettere che abbiamo un tantinello risparmiato in verità nel sottotitolo di questa raccolta. È da metà anni ’60 che l’artista che omaggia fa dischi brillanti e, in tutta onestà, servirebbero ben più di due CD per contenere un’antologia che davvero possa essere detta ‘definitiva’ del grande Ken Boothe”. Ma vaffanculo, signor Tony Rounce! E vaffanculo alla Trojan, che il cofanetto avrebbe potuto allestirlo ora e invece lo farà fra due o tre anni, mungendo per l’ennesima volta gli appassionati. Quasi mi fa specie dirvi che, nell’attesa, del doppio in questione non potete comunque fare a meno. Perché – e mi tocca dare ragione di nuovo a Mr. Rounce, citando la frase con cui si congeda – “chiunque vi dica che non gli piace Ken Boothe vi sta dicendo, semplicemente, che non gli piace il reggae”. Ora sull’isola di cui sopra (tanto ci sarà più spazio che nel mio studio, no?) di dischi di questo artista immane mi toccherà portarne due.
Ci si può lamentare all’infinito di quanto manca in “Everything I Own”, ma non si sminuirà mai il tantissimo che c’è e che traccia un ritratto formidabile di colui che è stato spesso detto “il Wilson Pickett giamaicano”. Definizione che non sottoscrivo: l’ho sempre visto piuttosto (e non solo per una stupenda You Send Me, purtroppo assente) come un Sam Cooke caraibico o al limite (e non solo per una altrettanto meravigliosa Let’s Get It On, che c’è) un Marvin Gaye della battuta in levare. Con tutti i suoi limiti, “Everything I Own” ne offre sublime dimostrazione e coprendo praticamente per intero, visto che nel finale si spinge fino agli anni ’80 e ’90 (il congedo affidato al travolgente remake in chiave dancehall e in coppia con Shaggy del vecchio successo The Train Is Coming), una vicenda oramai ultraquarantennale. Che è come dire che seguendo la storia di Ken Boothe puoi ricostruire la storia della musica giamaicana, dallo ska al reggae, passando per quel rocksteady che lanciò definitivamente il nostro allora ragazzo (poco adatta alle scansioni veloci la seduzione della sua voce serica) e giungendo fino al ragamuffin, senza nemmeno negarsi qualche scampolo di dub. Sempre ben presente la lezione dei maestri americani.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.635, giugno 2007.
al solo vedere comparire il nome di Ken Boothe, prima scatta la commozione, poi l’applauso. Ed infine, sì, la voce (di più, la dizione) di pura seta di quelle Diciotto Classiche Canzoni fa sì che esse stiano sempre nell’angolo dello scaffale dedicato ai preferiti (e da cultore terminale degli Scritti Nell’Anima, ricordo che il VM diceva che era uno dei 3 dischi 3 di reggae da possedere, volendone possedere solo 3…e chi pensa che sia forte, come affermazione, si accosti e poi ne riparliamo…)
Non è tra i miei 3 dischi reggae da possedere: prima verrebbero Lee Perry ( Super Ape), Gregory Isaacs ( Mr. Isaacs) e Prince Far I (Dubwise), ma ci va vicino… Ho potuto vederlo live anni fa al Rototom Sunsplash di Osoppo e devo dire che a dispetto dell’età ha fatto uno show incendiario. Il paragone con i grandi del soul sopracitati non è certo azzardato.
Mi permetto di inserirmi nel giochino. Io, dovendone scegliere tre, possederei “Legend”, “Marcus Garvey” e “Signin’ Off” degli UB40.
Ciao a tutti
Continuiamo, le migliori raccolte: Songs of Freedom di Bob Marley; Jesus Dread di Yabby You e Reggae Archive Volume 1 della On-U Sound. Arkology di Lee Perry è fuori classifica in quanto bibbia del reggae.