Quel che si dice un giudizio succinto ma che lascia spazio alla speranza e a più di un’interpretazione: “È la peggiore cagata che io abbia mai ascoltato”. Benevole parole di Syd Nathan riguardo a Please, Please, Please che gelavano l’uomo che tanto si era adoperato per portare il titolare del brano, un tal James Brown, all’etichetta di Nathan, la Federal. Per mettere sotto contratto l’ex-pugile, giocatore di baseball e galeotto Ralph Bass aveva addirittura ingaggiato una gara non per modo di dire con Leonard Chess, niente di meno, precedendolo in Georgia in auto in una notte atmosfericamente di tregenda, nel mentre il concorrente restava bloccato dal maltempo in Illinois. E una volta nella segregatissima Macon si era dovuto inventare stratagemmi da agente segreto per riuscire a parlare, lui bianco, con il manager di colore dell’artista. Fatica sprecata? No. Di fronte alle proteste di Bass, alle suppliche di fare uscire il singolo almeno in qualche stato del Sud per testare il mercato, serafico il patron gli spiegava che lo avrebbe invece distribuito su scala nazionale. Giusto per il gusto di dimostrare l’incompetenza del suo sottoposto, visto che per certo quel disco non avrebbe venduto niente. Se questo racconto fosse un film adesso lo schermo sarebbe nero e con al centro una scritta: “Un milione di copie dopo…”.
Essendo la doppia raccolta di cui vedete qui da qualche parte la copertina (occhio al promettente sottotitolo: “Volume One”) sistemata in ordine cronologico, Please, Please, Please – un numero 5 R&B e 105 Pop nella primavera 1956 e quel che più conta un long seller da manuale – la inaugura. Syd Nathan ebbe per fortuna torto, se no di James Brown potremmo non avere mai sentito parlare (incommensurabili le conseguenze sulla musica del Novecento). Però a riascoltare per la centesima volta questa accorata serenatona viene da dire che un minimo di ragione ce l’aveva, perlomeno nel giudicarla, nel pieno come si era dell’esplosione del rock’n’roll, vetusta. Una robina passatista – fra l’altro: una rielaborazione nemmeno troppo mascherata di una hit degli Orioles di tre anni prima, Baby Please Don’t Go – ove da lì a un decennio e per un altro tondo decennio filato il Soul Brother Number One non solo non sbaglierà un colpo ma cambierà per sempre pop e black music spostando l’accento dalla melodia al ritmo. Persino abolendola, la melodia. Facendo di ogni strumento e ogni voce un tamburo. Ma in Please, Please, Please tutto ciò è molto a venire e neppure lontanamente immaginabile e così nel retro Why Do You Do Me, pencolante fra blues e gospel. Così nella più parte dei ben diciotto altri 45 giri che il nostro eroe dava alle stampe da lì all’agosto 1960 e bisognerà arrivare all’undicesimo, Try Me, perché si replichi e pure in grande (#1 R&B, #48 Pop) il successo dell’esordio. Insomma: Nathan proprio fesso non era e sordo – impressionante l’elenco dei suoi artisti: Wynonie Harris, Roy Brown, Lonnie Johnson, John Lee Hooker, Freddie King, Champion Jack Dupree, Esther Phillips, Dominoes, Big Maybelle, Five Kings, Little Willie John – meno che mai. Il James Brown maggiore comincia, non direi a delinearsi ma a essere concepibile, soltanto dopo Try Me, che di suo non è che un’altra Please, Please, Please e dunque ancora più in ritardo sui tempi. Il rivoluzionario che sarà non balugina che in I’ll Go Crazy, un anticipo di garage bianco pubblicato nel gennaio ’60 che difatti i garagisti (primi i Blues Magoos) adotteranno entusiasticamente diversi anni dopo e da allora se lo sono sempre tenuto caro. E si concretizza un po’ di più nel 7” immediatamente successivo, Think, pura nitroglicerina e paradossalmente una cover, dei Five Royales. Ma non fatevi illusioni, leggendo il titolo, sul lato B: You’ve Got The Power non invoca sommovimenti sociopolitici e non è napalm che cola nei solchi ma melassa.
Scorgo volti perplessi, espressioni interrogative… Ah ’bbello! Stai sprecando una pagina per dirci di non comprare un disco? Assolutamente no. Pur facendo la tara al surplus di divertimento dato dalla conoscenza pregressa di una larga maggioranza di questi materiali, già antologizzati più volte su raccolte capitali come la quadrupla “Star Time” e la doppia “Roots Of A Revolution”, io me la sono spassata un casino facendo girare “The Federal Years 1956-1960”. Il punto è che se il nostro uomo non si fosse evoluto è certamente vero che lo si ricorderebbe oggi alla stregua di un Hank Ballard (e dunque al massimo di un minore fra i maggiori, non di un monumento), ma varrebbe comunque la pena di ascoltarlo. E a nessuno importerebbe di come in questo principio di carriera fosse spesso indietro sui tempi invece che avanti. Nessuno nemmeno se ne renderebbe conto, ilarmente disperso fra doo wop festosi e blues da guancia a guancia invece che l’opposto, rimembranze di spiritual e gigionerie alla Little Richard, ballate melliflue e stomp quasi alla Louis Jordan.
Syd Nathan aveva ragione, ma aveva torto. In vertiginosa ascesa di popolarità, James Brown nell’autunno 1962 gli proporrà di fare uscire un album dal vivo. “Dovrai passare sul mio corpo”, la risposta. Ricordatevene ogni volta che metterete su l’epocale “Live At The Apollo”.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.636/637, luglio/agosto 2007.