Compie oggi ottant’anni Terry Riley, fra i padri del minimalismo forse il più padre di tutti. Per l’occasione recupero la scheda di uno dei suoi lavori più classici, “In C”, che scrissi nel 2010 per “Extra”.
Pensi a cosa è l’elettronica oggi e sono computer e programmi di estrema potenza e versatilità che ti vengono in mente, alla portata di ogni tasca e intelligenza. Non così quando il Maestro californiano cominciava a manipolare registratori e nastri magnetici e marchingegni – in primis il leggendario Time Lag Accumulator, da lui stesso ideato – spesso complessi e quasi sempre inaffidabili. La necessità aguzza il genio, si potrebbe dire nel suo caso. E sarà anche vero che l’ultimo sprazzo di autentica brillantezza di un compositore che del resto va per i settantacinque risale a due abbondanti decenni or sono, vale a dire alla collaborazione con il Kronos Quartet che fruttò “Salome Dances For Peace”, e nondimeno Terry Riley resta uno di cui risulta impossibile sopravvalutare l’importanza: ispirava l’uso del bordone nel rock, costeggiava la psichedelia, preconizzava ambient, trance e new age, svolgeva un ruolo decisivo nell’introduzione in Occidente della musica indiana. Si può persino sostenere che i suoi mitici concerti per harmonium dei primi ’60, che solevano iniziare alle dieci di sera e andare avanti sino al sorgere del sole la mattina dopo, siano stati i primi rave. Magari non si ballava, ma si sballava eccome e senza neppure bisogno di aiutini chimici.
Quattro le pietre d’angolo dell’edificio dell’immortalità artistica rileyana, posate nel breve arco di sei anni, fra il 1963 e il 1969. La prima “Music For The Gift”, giocata sull’iterazione perennemente cangiante di un frammento di una registrazione del Chet Baker Quartet alle prese con Miles Davis. La terza e la quarta, “Poppy Nogood And The Phantom Band” e “A Rainbow In Curved Air”, rispettivamente per sax soprano e organo e piano elettrico, dumbak e cembalo. A incantare, sedurre e fare circolare il nome del Nostro ben al di fuori dei circoli iniziatici era però “In C”: tanto azzardato concettualmente (consta di cinquantatré frasi musicali di durata compresa fra la mezza e le trentadue battute, ciascuna delle quali può essere ripetuta per un numero arbitrario di volte dai musicisti di un ensemble consigliabilmente di trentacinque elementi) quanto melodicamente insidioso. Probabilmente il minimalismo più pop su questo lato di Philip Glass.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.34, estate 2010.
L’ha ribloggato su sergiofalcone.