È una storia gloriosa e tragica, incastonata fra due morti premature e suggellata da altre due. Il 3 maggio 1972 al Top Rank Bingo Club di Swansea, Galles, sono in programma gli Stone The Crows, gruppo di blues progressivo in decisa ascesa (il loro manager è Peter Grant, lo stesso dei Led Zeppelin) reso inconfondibile dalla voce della cantante Maggie Bell. Li caratterizza quasi altrettanto la chitarra del ventisettenne Leslie Harvey. Quella sera qualcosa non va nell’impianto di amplificazione. Leslie si avvicina a un microfono per scusarsi e ci posa sopra una mano. Muore all’istante, fulminato da una scarica elettrica. Colpo tremendo per Alex Harvey, che quel fratellino talentuoso, di tanto più giovane di lui (dieci anni) se l’è cresciuto svezzandolo a dixieland, blues e rock’n’roll. Eventi simili possono rivoluzionare una vita ed è quanto accade ad Alex. Da un paio di anni ha lasciato le scene musicali, dopo un’ultradecennale carriera che l’ha visto pubblicare quattro pregevoli LP. Performer fenomenale e interprete e compositore eclettico, ha praticato un robusto errebì (in questo un pioniere nella natìa Scozia) come un blues di ricerca, mai dimentico delle radici folk, sperimentando anche con la psichedelia alla testa dei misconosciuti Giant Moth. È come se la scomparsa di Leslie fosse per lui un segnale che il suo cammino artistico deve riprendere ed è un’autentica frenesia di vita che si impossessa di lui. Con complici scovati casualmente e dell’età di Leslie o meno piuttosto che della sua (sono all’orizzonte i quaranta), in poco più di cinque anni pubblicherà otto album (i primi sette per i tipi della Vertigo), conoscendo pure in patria un successo di cui in precedenza aveva avuto assaggi da emigrante in Germania. Tolto il trascurabile “Fourplay”, inciso senza il leader, l’intera discografia della Sensational Alex Harvey Band è stata appena ristampata su quattro doppi CD Mercury. Ottima occasione e perdipiù a buon mercato per fare la conoscenza di un artista che fu fra i pochi della vecchia guardia rispettati dalla generazione del punk (molto di lui nel vociare malevolo di Johnny Rotten) e del cui club di estimatori fanno parte nomi tanto diversi come Nick Cave, che ne ha coverizzato un brano nel capolavoro “Kicking Against The Pricks”, e Marc Almond.
Primo frutto dell’incontro fatale fra Harvey e i Tear Gas – Zal Cleminson alla chitarra, Hugh McKenna alle tastiere, Chris Glenn al basso, Eddie McKenna alla batteria -, registrato sul finire del 1972 e pubblicato a inizio ’73, “Framed” è apprezzabile debutto in bilico fra il passato del capobanda e la voglia di attualità che in quel momento in Gran Bretagna si chiama glam. Ne offre sintesi perfetta proprio la title track, classico di Leiber & Stoller che Alex ha in repertorio dai tempi in cui chiamava casa Amburgo ed è qui bluesone ultraelettrico con su la polvere di stelle di un piano luccicante. Ove più avanti I Just Want To Make Love To You di Willie Dixon è impossibilmente intensa e randellata da ottoni striduli. Altri apici: la gotica ballata folk Hammer Song, che stregherà Cave; la favolistica e molto articolata Isobel Goudie. Chiudono la cabarettistica There’s No Lights On The Christmas Tree Mother, They’re Burning Big Louie Tonight e l’hard schiacciasassi di St. Anthony ed è fra questi due estremi che si colloca una formazione che da subito offre soprattutto dal vivo il meglio di sé, con spettacoli di accentuata teatralità. “Next” (ancora 1973) va comunque assai vicino a riprodurre in studio la possenza tutt’altro che priva di sottigliezze di performance circondate da un alone di mito. Bellissimo il brano che lo battezza, cover di Jacques Brel inondata d’archi e valgono poco di meno la politicamente scorrettissima Gang Bang, che è una coda di cometa Ziggy Stardust, una Vambo Marble Eye di cui Bo Diddley potrebbe essere orgoglioso e il finalino alla American Graffiti di The Last Of The Teenage Idols. Volendo scegliere uno solo fra i quattro doppi CD da poco disponibili, è su questo che conviene puntare.
Vale certamente l’esborso comunque pure quello che accoppia “The Impossible Dream” (1974) e “Tomorrow Belongs To Me” (1975), i due 33 giri di maggior successo. Nel primo scorci di funkadelia e innodie da pub (Anthem: basta il titolo), nel secondo hard’n’roll melodico, scampoli di dodici battute, music hall da suburbia alla Irvine Welsh e il non plus ultra della scorrettezza politica con la canzone omonima, struggente resa (ma non fatevi strane idee; il nero di Harvey era piuttosto quello dell’anarchia) di un inno della gioventù nazionalsocialista. Per completisti “Live” (1975) e “The Penthouse Tapes” (1976), quest’ultimo tutto di brani altrui, mentre valgono più di quanto di solito non si dica “SAHB Stories” (ancora 1976) e il congedo “Rock Drill” (1978). Quest’ultimo vede la luce (poca) dopo che la banda ha pubblicato il dispensabile “Fourplay” senza il leader, ormai in china discendente.
È accaduto che nel luglio ’76 un incidente aereo si è portato via Bill Fehilly, che più che semplicemente un ottimo manager per Alex Harvey era il migliore amico. La fiamma che ha arso in lui per un lustro vacilla. La bottiglia sostituisce Bill. Il solistico “The Mafia Stole My Guitar” sarà, nel 1979, ancora degno. In alcuni momenti viceversa imbarazzante il postumo “Soldier On The Wall”, uscito a qualche mese dalla morte per infarto, il 4 febbraio 1982. Esattamente un anno dopo un infarto si porterà via anche Leslie Harvey Snr, sopravvissuto a entrambi i figli. Ebbe il tempo di rimpiangere di avere instillato in loro l’amore per la musica.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.501, 17 settembre 2002.
Ti ringrazio per questo articolo prima ancora di leggerlo, perché a mio avviso la Sensational Alex Harvey Band è uno dei segreti non occulti del rock anni Settanta, e il perché del suo oblio (è una definizione troppo forte?) mi resta inspiegabile. Grazie, quindi.
E ora posso leggere 🙂
Grande artista non sufficientemente ricordato, mi piacerebbe fare un commento arguto ma ha detto tutto il Venerato