Archivi del mese: giugno 2015

Calexico – Edge Of The Sun (Anti)

Calexico - Edge Of The Sun

Un bel gioco talvolta può durare anche molto, e per fortuna, diventando cammin facendo una cosa seria ma senza per questo perdere le sue caratteristiche ludiche. Tali erano – un gioco, un dopolavoro – i Calexico quando nel 1997 il bassista Joey Burns e il percussionista John Convertino decidevano di prendersi una vacanza dai Giant Sand (una seconda, visto che al tempo erano anche membri dei Friends Of Dean Martinez), oltre che da una già intensa attività come turnisti, per realizzare un disco in coppia. “Spoke” dapprima usciva solo in Europa e con le loro identità anagrafiche e non era che quando trovava un’etichetta americana che decidevano di ribattezzarsi Calexico (dal nome di una cittadina californiana ai confini con il Messico; loro sono di Tucson, Arizona). Ormai diciotto anni e parecchi album dopo (questo è l’ottavo in studio, conto cui vanno aggiunti numerosi live), Calexico è una sigla la cui fama ha da lungi eclissato quella di quei Giant Sand cui erano in forza come gregari, grazie a una scrittura solida e a un sound mercuriale cui concorrono country-rock e tex-mex, surf e folk, psichedelia, tracce di jazz e quant’altro. Il tutto sotto un’egida morriconiana, fra un’oleografia da spaghetti western e una rabbrividente immersione in un universo noir.

Come dà a intendere già il titolo, “Edge Of The Sun” si mantiene (unica eccezione una notturna e inquieta World Undone) sul lato più solare del mondo Calexico e ciò a dispetto di una copertina che racconterebbe altrimenti. A proposito di titoli che la dicono lunga: puntate un’esilarante Cumbia de donde e un Woodshed Waltz che potrebbe appartenere ai Decemberists e sappiatemi dire. È a oggi il disco più “pop” del duo e uno dei più variegati. Gli manca magari un po’ di profondità, ma è peccato veniale.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.363, maggio 2015.

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Ken Boothe: il Sam Cooke (il Marvin Gaye, il Wilson Pickett) di Giamaica

Ken Boothe - Everything I Own

Un po’ è per mancanza di spazio e no, non posso prendere in considerazione l’idea di cambiare di nuovo casa perché non basta più a contenere i dischi: non ancora. Un po’ è proprio per scelta filosofica: così come espello quanto non mi è piaciuto, e di cui presumibilmente non dovrò più fare un uso professionale, riciclo al volo pure i doppioni. Con qualche rara eccezione per ragioni affettive, se esce un’edizione ampliata o meglio suonante di un album faccio fuori quella che era in mio possesso. Vale tantopiù per le antologie le cui scalette si sovrappongono. Non tengo occupato un prezioso centimetro di scaffale per un brano o due. “Cazzomenefrega!”, dirà qualcuno. Calma, ci sto arrivando.

Qualche giorno fa mi viene recapitato un doppio CD Trojan di uno dei miei cantanti reggae preferiti, Ken Boothe. Titolo a tal punto scontato – “Everything I Own”, che è la canzone con la quale il Nostro andò al numero uno in Gran Bretagna nel 1974 – che la Trojan stessa lo aveva già utilizzato per un’altra raccolta, quella però singola. Più promettente il sottotitolo: “The Definitive Collection”. Finalmente! Constato che i titoli in scaletta sono la bellezza di cinquantatré, metto su il primo dischetto, grugnisco di soddisfazione quando il display mi segnala 79’15” (il secondo dura pochi secondi di meno), non sto più nella pelle sin dalle prime battute di un brano che non avevo – Uno, dos, tres, una produzione ska di Duke Reid del 1963 per il duo che il quindicenne (!) Boothe aveva formato l’anno prima con Wilburn “Stranger” Cole. E naturalmente vado a estrarre dalla sezione giamaicana delle mie librerie quella “The Ken Boothe Collection” (sottotitolo: “Eighteen Classic Songs”) che mi fece innamorare del soulman caraibico per antonomasia. Fra i miei dischi da isola deserta da subito e non potrò mai ringraziare abbastanza il collega e amico che, in un rovente luglio romano di una vita fa, me la allungò da Disfunzioni Musicali con un perentorio consiglio d’acquisto. Ovviamente adesso la darò via. Altrettanto ovviamente – perché i dischi da isola deserta non si rivendono: si regalano – donandola a una qualche persona cui tengo, così che il Verbo possa continuare a diffondersi. Ebbene… l’ho dovuta rimettere a posto. Perché nella collezione presunta “definitiva” a parte una No Woman No Cry gustosa ma tutto sommato prescindibile mancano gemme viceversa irrinunciabili come una suadentissima Come Softly To Me, un’irresistibilmente melliflua African Lady, una resa da urlo di Speak Softly Love (dalla colonna sonora de Il padrino). E altro ancora. Mi metto a ’sto punto a spulciare i sacri testi e viene fuori un tale elenco di assenze gravi o gravissime – buona parte dei successi del periodo ska, la produzione di Studio One al gran completo… ed è meglio che mi fermi qui – che ci si sarebbe potuto allestire un terzo compact e riempire pur’esso ai limiti della capienza. Spazientito e nondimeno godutissimo per quanto di delizioso sta in ogni caso prorompendo dalle casse, fra cui fior di cose mai sentite in digitale, spalanco il libretto e le prime parole che leggo sono queste: “Tanto per cominciare, dovremmo forse ammettere che abbiamo un tantinello risparmiato in verità nel sottotitolo di questa raccolta. È da metà anni ’60 che l’artista che omaggia fa dischi brillanti e, in tutta onestà, servirebbero ben più di due CD per contenere un’antologia che davvero possa essere detta ‘definitiva’ del grande Ken Boothe”. Ma vaffanculo, signor Tony Rounce! E vaffanculo alla Trojan, che il cofanetto avrebbe potuto allestirlo ora e invece lo farà fra due o tre anni, mungendo per l’ennesima volta gli appassionati. Quasi mi fa specie dirvi che, nell’attesa, del doppio in questione non potete comunque fare a meno. Perché – e mi tocca dare ragione di nuovo a Mr. Rounce, citando la frase con cui si congeda – “chiunque vi dica che non gli piace Ken Boothe vi sta dicendo, semplicemente, che non gli piace il reggae”. Ora sull’isola di cui sopra (tanto ci sarà più spazio che nel mio studio, no?) di dischi di questo artista immane mi toccherà portarne due.

Ci si può lamentare all’infinito di quanto manca in “Everything I Own”, ma non si sminuirà mai il tantissimo che c’è e che traccia un ritratto formidabile di colui che è stato spesso detto “il Wilson Pickett giamaicano”. Definizione che non sottoscrivo: l’ho sempre visto piuttosto (e non solo per una stupenda You Send Me, purtroppo assente) come un Sam Cooke caraibico o al limite (e non solo per una altrettanto meravigliosa Let’s Get It On, che c’è) un Marvin Gaye della battuta in levare. Con tutti i suoi limiti, “Everything I Own” ne offre sublime dimostrazione e coprendo praticamente per intero, visto che nel finale si spinge fino agli anni ’80 e ’90 (il congedo affidato al travolgente remake in chiave dancehall e in coppia con Shaggy del vecchio successo The Train Is Coming), una vicenda oramai ultraquarantennale. Che è come dire che seguendo la storia di Ken Boothe puoi ricostruire la storia della musica giamaicana, dallo ska al reggae, passando per quel rocksteady che lanciò definitivamente il nostro allora ragazzo (poco adatta alle scansioni veloci la seduzione della sua voce serica) e giungendo fino al ragamuffin, senza nemmeno negarsi qualche scampolo di dub. Sempre ben presente la lezione dei maestri americani.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.635, giugno 2007.

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Godspeed You! Black Emperor – Asunder, Sweet And Other Distress (Constellation)

Godspeed You! Black Emperor - Asunder, Sweet And Other Distress

Mi aggiro per il Web rimuginando un attacco per questa recensione e sobbalzo leggendo che nel 2013 i Godspeed You! Black Emperor si ritrovarono spalla per un intero tour ai Nine Inch Nails. Non lo sapevo e, nel mentre mi complimento con Trent Reznor per una scelta insieme tanto coraggiosa e paracula, mi vien da ridere pensando a come deve avere reagito il suo pubblico al magmatico, terroristico post-post-rock della compagine di Montreal. Sapendo come va il mondo, facile che anche fra i cultori di quest’ultima qualcuno abbia storto la bocca, ma in difesa di una mossa solo apparentemente in contrasto con l’integralismo anarcoide politico/musicale sempre professato parla l’intera vicenda artistica dei Canadesi.

Ivi incluso questo che per costoro è il quinto album “vero” e il secondo dopo il ritorno con cui nel 2012 interrompevano un decennale silenzio. Tre le novità rispetto al monumentale (altissimo ovunque nelle playlist della critica) “Allelujah! Don’t Bend! Ascend!”: la concisione (solo quaranta minuti); l’assenza di quelle voci “trovate” che avevano sempre caratterizzato quella che più che una band è un’orchestra rock; e il fatto che diversamente da quelli contenuti nel predecessore questi spartiti siano inediti, non rielaborazioni di materiali risalenti alla prima vita del gruppo. Per il resto non si può parlare di sorprese per quella che è una sorta di suite formalmente in quattro movimenti e in realtà in tre, giacché le due minimaliste sezioni centrali costituiscono un unicum rispetto al massimalismo delle parti inaugurale e conclusiva: tourbillon mozzafiato di riff sabbathiani, bordoni tastieristici, stratificate linee di basso, intricate melodie di violino e percussioni cataclismatiche. Benvenuti all’Apocalisse.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.363, maggio 2015.

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Free! Jazz! (Per Ornette Coleman, 9 marzo 1930-11 giugno 2015)

Frugo negli archivi e vi rinvengo le recensioni di due album per me “classici” di Ornette Coleman e di un interessante lavoro “minore”. Eccole qui, piccolo e indegno omaggio a un grandissimo che ci ha lasciati ieri.

Ornette Coleman - Tomorrow Is The Question!

Tomorrow Is The Question! (1959)

Ritengo che la musica di Ornette sia uno sviluppo di quella di Charlie Parker senza che di Parker riprenda le scale o lo stile. È un qualcosa di assai più profondo e spero che sia lui che Don Cherry abbiano una vita artistica lunga e fruttuosa”: così quella vecchia lenza di John Lewis riguardo a un Coleman che aveva appena fatto irruzione – era il 1959 – sulla scena del jazz senza che in molti se ne accorgessero e, fra quanti lo avevano notato, senza che i più lo considerassero il genio che è, semmai un bluff. Coglieva nel segno Lewis e presto in tanti gli avrebbero dato ragione. Nondimeno, sempre un passo davanti o di fianco al fluire del jazz, Coleman avrebbe seguitato a stupire negli oltre quarant’anni trascorsi da allora. Ancora recentissimamente (questione di pochi giorni fa nel momento in cui scrivo, di uno straordinario concerto torinese con il fido Denardo assiso dietro piatti e tamburi e i contrabbassi di Tony Falanga e Greg Cohen in costante dialogo) capace di svettare sul resto di una musica inanemente consegnatasi all’eterna ripetizione di se stessa.

Non direi che suona ancora avanti, ma è per certo fresco e moderno l’Ornette Coleman catturato fra il gennaio e il marzo del 1959 da Lester Koenig a Los Angeles, su incarico della Contemporary. Affiancano il suo sax alto la tromba di Cherry, il contrabbasso di Percy Heath (o di Red Mitchell) e la batteria di Shelly Manne ed è un gioioso e magmatico scorrere di blues alterati (Tears Inside, Giggin’, Turnaround), ballate (Compassion, Lorraine), presagi di armolodia (Mind And Time, Endless). Tappa intermedia fra gli storici “Something Else!!!” e “The Shape Of Jazz To Come”, “Tomorrow Is The Question!” non li vale ma resta testimonianza preziosa dei preparativi per una rivoluzione.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.239, ottobre 2003.

Ornette Coleman - The Complete Science Fiction Sessions

The Complete Science Fiction Sessions (1971)

Riuscite a immaginarvi una squadra di calcio che cede in un un colpo i suoi quattro elementi di punta, i suoi campionissimi? È esattamente quanto fece la divisione jazz della Columbia nel 1973, quando tagliò Keith Jarrett, Charles Mingus, Bill Evans e Ornette Coleman. Sicché per quest’ultimo, che lì si era accasato nel ’71, la discografia per tale etichetta si trovò a contare due titoli appena. Ma che titoli! Quello “Skies Of America” pietra d’angolo della teoria armolodica e questo (precedente) “Science Fiction”. Solo nel 1982, con materiale coevo, assemblerà un terzo LP, “Broken Shadows”. Trascorsi altri diciotto anni, ecco che con scrupolo filologico i due album vengono ristampati insieme con l’aggiunta, il primo, di due versioni alternative di Street Woman e Civilization Day, e il secondo di un inedito, Written Word. Considerate, oltre alla bellezza dei due lavori, che il secondo era da tempo irreperibile e che questo doppio è venduto come un singolo, cioè a parecchio meno di quanto costava la stampa giapponese (l’unica disponibile) del solo “Science Fiction”, e converrete che si tratta di un evento.

Se queste storiche sedute suonano ancora qui e là radicali, riascoltate oggi paiono comunque nel complesso più fruibili di quanto non dovettero apparire all’epoca, ora incontro con il gospel (What Reason Could I Give), ora frenetica giostra di stridulo funky (Rock The Clock), alato incontro con il soul (All My Life) o sarabanda post-ayleriana (School Work). Fuori luogo, forse, ma trascinante l’errebì Good Girl Blues, superbi Don Cherry e Charlie Haden, buono il remastering.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.205, settembre 2000.

Ornette Coleman - Dancing In Your Head

Dancing In Your Head (1977)

Uno dei dischi più iconoclasti di uno dei jazzisti più iconoclasti di sempre. Nell’esilarante e invincibile Theme From A Symphony (Variation One), il sax di Coleman vola a scatti lungo le tangenti disegnate dalla batteria di Ronald Shannon Jackson, incrociandosi con il basso ultradinamico di Rudy MacDaniel e le chitarre affilatissime di Bern Nix e Charlie Ellerbee. Se la circolare e ossessiva Variation Two è replica ancora più nevroticamente danzerina, funky e frenetica come solamente New York può essere, con il congedo Midnight Sunrise l’orgiastico e insieme mistico baccanale si trasferisce a migliaia di chilometri e molti secoli di distanza, nell’arcaico Marocco dei Masters Musicians Of Joujouka. Il successivo di un anno “Body Meta” evidenzierà un più maturo sviluppo di alcune idee, ma per l’enorme influenza esercitata sulla no wave, che lo elesse a Vangelo, “Dancing In Your Head” è la prima scelta.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.13, primavera 2004.

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Kendrick Lamar – To Pimp A Butterfly (Top Dawg)

Kendrick Lamar - To Pimp A Butterfly

Si potrebbe partire dall’abito, che qualche volta fa eccome il monaco, e notare quanto si somiglino – che sarà un caso, ma proprio a ragione di ciò è particolarmente significativo – le copertine dei due dischi più belli e importanti prodotti dalla black music non direi solo in questi ultimi mesi ma nel decennio in corso. Se non, addirittura, in questo primo quindicennio di secolo nuovo. Sia “Black Messiah” di D’Angelo che il secondo album “vero” (non contandone dunque uno pubblicato solo in digitale e vari mixtape) del rapper californiano Kendrick Lamar mostrano piccole folle di afroamericani le braccia levate al cielo, immagini di grande potenza iconica che rimandano a un’epoca ormai antica di lotte e speranza. Ciò che non è un caso è che, in modi e mondi contigui ma diversi, muovendosi il primo in un ambito di black più tradizionale e il secondo venendo dall’hip hop e mantenendo lì entrambi i piedi ben saldi, sia l’uno che l’altro evidenzino una profonda conoscenza della storia unita alla capacità di sintetizzare per poi andare, idealmente, avanti.

In testa nel momento in cui scrivo in tutte le classifiche di “Billboard” (generalista, rap e R&B), “To Pimp A Butterfly” non solo mantiene le non poche promesse profferite nel 2012 dal brillante “good kid, m.A.A.d. City” ma va molto oltre in settantotto minuti densissimi, in dodici tracce affollate di “featuring” (benedicono l’avvento del nuovo campione personaggi del calibro di George Clinton, Ronald Isley, Dr. Dre, Bilal, Flying Lotus, Pharrell Williams e Snoop Dog), dense di rime fulminanti, pregne di una funkitudine infiltrata di soul come di jazz. Un classico istantaneo, di una tale forza che potrebbe persino inagurare un’era nuova per un hip hop da troppo tempo sottomesso agli stereotipi. Ma sarà dura, durissima andargli dietro.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.363, maggio 2015.

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Audio Review n.364

Audio Review 364

È in edicola il numero 364 di “Audio Review”. Include mie recensioni degli ultimi album di  Africa Unite, Alabama Shakes, Algiers (scelto come “disco del mese”), BoDeans, Built To Spill, Death Cab For Cutie, Eaves, Giant Sand, Go! Team, Jay Jay Johanson, Proclaimers, Shilpa Ray, 10,000 Maniacs, They Might Be Giants e White Hills e di una recente ristampa dei Van Halen.  Nella rubrica del vinile ho affrontato Monkees, X e Miles Davis.

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L’afro disco beat di Tony Allen

È stato ultimamente in Italia per un paio di date (facendo tappa fra l’una e l’altra pure al “Primavera Sound”) colui che fu il motore ritmico di Fela Kuti. Già sarebbe abbastanza per celebrarlo, Tony Allen, non fosse che vanta anche una discografia in proprio di altissimo livello.

Tony Allen - Afro Disco Beat

A chiarire quanto siano eccezionali le capacità tecniche del nigeriano Tony Allen, polifonica batteria originale dell’afrobeat e suo autentico pilastro portante, basti un aneddoto: quando lui e Fela Kuti – quasi inevitabilmente, siccome due galli in un pollaio non possono convivere a lungo – litigarono e Allen lasciò gli Afrika 70, per sostituirlo adeguatamente il leader dovette ricorrere ai contemporanei servigi di quattro strumentisti. Non è naturalmente, come accadrebbe in altri ambiti e (se si può dire) con altre razze, una questione di mero sebbene prodigioso virtuosismo: è che è il Nostro possiede un senso del groove, e anzi dei grooves (al plurale), vista la capacità di svilupparne simultaneamente diversi, semplicemente insuperabile. E come lo swing è qualcosa che nessuna scuola potrà mai darti. Ce l’hai, oppure no. Lontanissimi i contrasti cui accennavo, e da lungi purtroppo nemmeno più fra noi Fela, ad Allen in questi anni 2000 è toccata, almeno nella stessa misura che a Femi Kuti, la gravosa eredità. Nel 2002 “Home Cooking” testimoniava della voglia di rinnovare quel suono, unione di funk e highlife, jazz, soul e rhythm’n’blues che il nostro eroe contribuì in misura decisiva a forgiare, con tocchi di modernità – si trattasse di contaminazioni con l’hip hop o riferimenti più o meno lati alle tante musiche nelle quali l’afrobeat è entrato, dalla house alla techno, al downtempo. Di qualcosa come diciotto mesi il tour che lo seguiva e che nel 2004 veniva documentato da “Live”, un’apoteosi ritmica di quasi un’ora e un quarto in sette indiavolati movimenti prodighi di raffinatezze d’arrangiamento magistrali. Nel 2006 era la volta dell’al pari persuasivo ed eccitante “Lagos No Shaking”, ma questa è ancora cronaca più che storia.

Sono viceversa Storia con la “s” maiuscola i quattro album – “Jealousy”, “Progress”, “No Accomodation For Lagos” e “No Discrimination” – usciti fra il ’75 e il ’79, e già ristampati separatamente da Afro Strut otto anni fa, che la Vampisoul raccoglie senza aggiunte in questa fenomenale doppia antologia. Medesima la struttura dei primi tre: durate sotto la mezz’ora e due soli brani a occuparli, come del resto caratteristico di innumerevoli LP di Fela. Uguale la materia sonora – bassi tondi e dinamici, percussioni incalzanti, fiati circolari e voci tribali – e invero memorabili, in “Progress”, gli incastri di basso e batteria della traccia che intitola la raccolta. Lievi aggiustamenti stilistici in “No Discrimination”, il cui invincibile funk è pervaso da aromi jazz. Di poco più lungo e articolato, con quattro pezzi a sfilarvi.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.642, gennaio 2008.

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Torna a Sorrenti (quello di “Aria”)

Uno dei miei album italiani preferiti di sempre… mi correggo… uno dei miei album preferiti di sempre usciva un 8 di giugno.

Alan Sorrenti - Aria

A conoscere solo la produzione successiva, quella che gli diede nei tardi ’70 un successo italiano ed europeo da milioni di copie con canzoncine come Figli delle stelle e Tu sei l’unica donna per me, c’è il rischio di non credere alle proprie orecchie ascoltando i primi due 33 giri di Alan Sorrenti, usciti a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro nel biennio prolifico e fatato ’72-’73, questo “Aria” e il successivo, appena meno felice, “Come un vecchio incensiere all’alba di un villaggio deserto”. Non dovettero del resto credere alle loro orecchie nemmeno i primi estimatori dell’artista partenopeo, quando lo sentirono gorgheggiare motivetti dance dopo avere toccato con ardita voce empirei sconosciuti prima e dopo di allora a chiunque altro in Italia, gli stessi frequentati da Tim Buckley fra “Goodbye & Hello” e “Starsailor”.

“Aria” è album di una bellezza abbacinante: in una prima facciata, tutta occupata dal brano omonimo, più sperimentale e trafitta al cuore dal violino di Jean-Luc Ponty come in una seconda di più immediato incanto, a partire dal leggiadro folk-pop (“Io ti aspettavo mentre fuori pioveva/e la mia stanza era piena di silenzio per te”) di Vorrei incontrarti, portato in auge presso le ultime generazioni dall’intensa lettura dei La Crus. E proseguendo con l’onirica La mia mente e gli ondeggiamenti psichedelici di Un fiume tranquillo.

Pubblicato per la prma volta su “Extra”, n.8, inverno 2003.

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Le lacrime di Levi Stubbs (6 giugno 1936-17 ottobre 2008)

With the money from her accident
She bought herself a mobile home
So at least she could get some enjoyment
Out of being alone
No one could say that she was left up on the shelf
It’s you and me against the World kid she mumbled to herself

When the world falls apart some things stay in place
Levi Stubbs’ tears run down his face

She ran away from home on her mother’s best coat
She was married before she was even entitled to vote
And her husband was one of those blokes
The sort that only laughs at his own jokes
The sort a war takes away
And when there wasn’t a war he left anyway

Norman Whitfield and Barrett Strong
Are here to make everything right that’s wrong
Holland and Holland and Lamont Dozier too
Are here to make it all okay with you

One dark night he came home from the sea
And put a hole in her body where no hole should be
It hurt her more to see him walking out the door
And though they stitched her back together they left her heart in pieces on the floor

When the world falls apart some things stay in place
She takes off the Four Tops tape and puts it back in its case
When the world falls apart some things stay in place
Levi Stubbs’ tears

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Never Say Dio! I Black Sabbath di Ronnie James

Ronnie James Dio con i Black Sabbath

Reduci da un tour del decennale in cui i supporter Van Halen li hanno fatti a pezzi e da tre LP di fila – “Sabotage”, “Technical Ecstasy” e “Never Say Die!” – uno più scadente dell’altro, in caduta libera di consensi critici (non che la stampa sia mai stata tenera con loro) e, quel che è peggio, di pubblico, i Black Sabbath di inizio 1979 sono una sorta di manicomio nel quale la convivenza fra due cocainomani e due alcolizzati si va facendo sempre più difficoltosa. Alla fine impossibile. Nell’attesa di venire a sua volta allontanato, a uno dei due alcolizzati, il batterista Bill Ward, viene dato l’incarico di comunicare all’altro, il cantante Ozzy Osbourne, che è licenziato. Dà un tocco surreale alla triste vicenda che a ispirare la mossa sia in primis Sharon Arden, figlia del manager Don e futura moglie proprio di Ozzy. Serve a quel punto un nuovo cantante e viene ingaggiato all’uopo l’italo-americano Ronnie James Dio, uno gnometto dalla voce duttile, lirica, baritonale. Che tecnicamente sia superiore al dimissionato, nemmeno c’è discussione. Che i fan possano accettarlo – figurarsi amarlo – e che proprio il suo innesto possa istigare una rinascita, be’, è una doppia scommessa che pare impossibile da vincere.

Sorpresa! Pubblicato nell’aprile 1980, acclamato e vendutissimo, “Heaven And Hell” è il disco che nessuno si aspetterebbe da un gruppo che dal 1973 non ne azzecca una: energico e variegato come i Nostri forse mai nemmeno nell’epoca eroica, con un lieve calo di tensione giusto in Wishing Well e per il resto solo canzoni di vaglia. Come Neon Knights e Lonely Is The Word, agli estremi opposti di velocità (che si incontrano nella traccia omonima) del tipico riffarama sabbathiano. Come una Lady Evil che potrebbe essere degli AC/DC e una Walk Away quasi sudista. Soprattutto, come una elettro-acustica Children Of The Sea che subito si iscrive fra i grandi classici del gruppo di Birmingham. Suo perfetto controaltare in “Mob Rules”, che esce nel novembre ’81 con Vinny Appice in luogo di Ward, è la fors’anche più epica The Sign Of The Southern Cross. L’album ha due evidenti difetti e un pregio: ricalca troppo smaccatamente il predecessore (identica la struttura) e lo fa con ispirazione meno vivida ma potendo godere, a parziale compensazione, delle affinate capacità (da ringraziare gli Iron Maiden, con cui ha lavorato nel frattempo) del produttore Martin Birch. E poi va di nuovo tutto a puttane e il finale per gli ultimi Sabbath da avere è da Spinal Tap, con la giovane guardia fatta fuori dalla vecchia con l’accusa di essersi introdotta nottetempo nello studio dove venivano mixati i nastri del comunque ottimo “Live Evil” per alzare i volumi di voce e batteria.

A parte bei libretti e suoni migliori, queste “Deluxe Edition” non offrono aggiunte imprescindibili. Ai due dischi in studio sono state accoppiate altrettante raccolte di incisioni in massima parte dal vivo. Il doppio live presenta una scaletta identica all’originale e francamente sfugge in cosa consista il suo essere Deluxe: in qualche scambio di battute e/o applauso in più?

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.670, maggio 2010.

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