Unsatisfied: la vita breve di Brian Jones

Brian Jones

Il 26 febbraio 1965, cinque giorni dopo che tremila fanciulle hanno festeggiato l’arrivo dei loro idoli in Australia devastando l’aereoporto di Sydney, vede la luce The Last Time/Play With Fire. È la prima volta che entrambe le facciate sono siglate Jagger/Richard e l’incredibile crescita come autori dei due, che mai avrebbero scritto alcunché (considerandosi dei meri interpreti) non li avesse costretti Oldham (sequestrandoli in una stanza e dicendo che non li avrebbe fatti uscire finché non avessero buttato giù una canzone), è sotto gli occhi di tutti. A detta dello stesso Richards l’archetipo del brano à la Stones, la prima facciata è una squisita tempesta di chitarre acustiche coagulate da una zompettante elettrica. Ma è ancora più bello il retro, languido e minaccioso, e in cui di Stones all’opera ce ne sono solamente due, gli autori. Registrata al termine di un’autentica maratona che aveva visto gli esausti Brian Jones, Bill Wyman e Charlie Watts abbandonare infine lo studio in cui si stava lavorando a Los Angeles, Play With Fire veniva messa su nastro con la collaborazione di Phil Spector, che imbracciava il basso, e di Jack Nitzsche, che la spruzzava di harpsichord. Memorabile.

Mancava ancora un tassello perché gli Stones si elevassero a quelle altezze beatlesiane cui nessun altro potrà ambire nei ’60 o dopo, la canzone marchio di fabbrica, istantaneamente riconosciuta da chiunque e in qualunque angolo del globo. Nemmmeno fosse la Madonna, (I Can’t Get No) Satisfaction appare a Keith in sogno, con il suo riff definitivo, e in un paio di settimane è nei negozi americani, tre mesi prima che in quelli britannici. È il primo numero uno colà dei Nostri, il turning point della loro carriera. Tutto bene dunque, tutto un trionfo? All’incirca, avendo la vita spericolata i suoi costi. Brian Jones ha già cominciato il suo lungo addio.

Figura che resta controversa quella di Lewis Brian Hopkins-Jones e vorrà ben dire qualcosa se, a così tanto dalla morte, a parte Charlie Watts non uno degli ex-compagni è disposto a spendere una buona parola per lui (e anche Watts ne spende poche). Chiaro indizio del fatto che gli ultimi anni trascorsi da costui nella band scavarono solchi che il tempo non ha colmato, che le ferite si sono incancrenite invece che guarire. Avendo letto moltissimo al riguardo, la conclusione che mi sento di azzardare è questa: grande musicista ma piccolo uomo, e non mi riferisco all’elfica statura. Un misogino – terribile il ritratto che emerge dalle testimonianze di quasi tutte le innumerevoli donne cui si accompagnò – misto di insicurezza e presunzione, con tratti a ogni buon conto di puro genio e una spiccata propensione ad anticipare i tempi: supremo arbitro di eleganza rock (di cui contribuì grandemente a definire il canone anni ’60), fra i primi in Gran Bretagna della sua generazione ad appassionarsi al blues, pioniere nell’interesse per le musiche etniche (la sua registrazione dei Maestri Musici di Joujouka resta una pietra miliare) e, purtroppo per lui, anche nell’esplorazione degli stati alterati di coscienza. Il consumo eccessivo di droghe assortite andava di pari passo con il progressivo estraniarsi dal gruppo che aveva fondato e con il quale aveva sognato di raggiungere la fama, per poi scoprirsene insoddisfatto. A disagio quando al centro dell’attenzione, eppure invidiosissimo di Jagger quando questi divenne, come era logico, il punto focale. Integralista nell’approccio alla black, eppure responsabile di arrangiamenti pop resi di fulminante efficacia dall’uso di strumenti inusuali (era uno di quei musicisti universali che imparano a cavarsela con qualunque arnese atto a produrre suoni in poche ore): il sitar in Paint It Black, il dulcimer in Lady Jane; altrove mellotron, harpsichord, sassofono, tastiere, percussioni assortite. Alla resa dei conti, un immaturo e un infelice che non accettò mai che Jagger e Richards, diventando gli unici autori del repertorio (fatto che però, in Stone Alone, Wyman contesta, asserendo che sia lui che Jones, e poi Taylor, diedero un non riconosciuto contributo), gli avessero sottratto la leadership. Ma piuttosto che opporsi portando canzoni al suo mulino preferì sprofondare in drogati inferi. Un precursore pure in questo ed è soltanto quando si rammarica che all’epoca non si sapesse come affrontare certi problemi, che erano nuovi (“Non esisteva un manuale su come trattare una vittima del rock”), che Mick Jagger lascia trasparire, parlando dell’antico sodale, un po’ di umana pietà. Solo generalità e date di nascita (28 febbraio 1942) e dipartita (3 luglio 1969) sono impresse sulla lapide che segnala, nel cimitero di Cheltenham, il luogo del suo eterno riposo: “I can’t get no satisfaction” sarebbe stato il più appropriato degli epitaffi.

Tratto da Street Fighting Men. Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.8, inverno 2003.

3 commenti

Archiviato in anniversari, archivi, Rolling Stones

3 risposte a “Unsatisfied: la vita breve di Brian Jones

  1. sergiofalcone

    L’ha ribloggato su sergiofalcone.

  2. alfonso

    A sentire i “suoi” brani, viene da pensare che fosse l’unico che avrebbe potuto permettere agli Stones di rivaleggiare con i Beatles quanto a inventiva compositiva e felicità di arrangiamenti. Mai sarebbe potuto accadere, ma a immaginare una seconda metà dei Sessanta davvero Jagger/Richards/Jones tremano i polsi.

  3. giannig77

    non avevo letto questo tuo articolo all’epoca ma in poche righe sei riuscito a condensare un sacco di cose dei primi vagiti stonesiani. Hai fotografato benissimo la complessità di Brian e le prime crisi dovute alla leadership della coppia principale di compositori. Purtroppo da quel che ho letto anche nei vari libri davvero a quanto pare lui come uomo non era all’altezza della sua grandezza di artista. Musicalmente poi, bisogna ammettere come il sound del gruppo sia decollato con la svolta rock Jagger/Richards

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