Nato l’antevigilia di Natale del 1941, Tim Hardin ci lasciava trentanove anni e sei giorni più tardi, il 29 dicembre 1980, per (così riferì l’anatomopatologo) una dose eccessiva di morfina ed eroina combinate insieme. Forse perché l’eco degli spari che avevano spezzato tre settimane prima la vita di John Lennon risuonava ancora e tutto copriva, forse (più probabilmente) perché erano passati ormai sette anni da quando aveva licenziato il suo ultimo album e quattordici da quando aveva scritto le sue canzoni più memorabili, fatto sta che la sua morte passò quasi sotto silenzio. L’uomo di cui Bob Dylan aveva detto “Tim simbolizza per me un’anima rinascimentale in un mondo di plastica” se ne andava nell’indifferenza oltre che nello squallore. Non più bello, come accade se maneggi aghi per vent’anni (perché, diciassettenne, hai avuto la pessima idea di arruolarti nei marines e a Okinawa non hai trovato altro modo per fuggire da quel mondo cui non appartieni, e la scimmia ti è rimasta sulla schiena); solo perdente. Ma perdente davvero, sì che (dopo essere stato fra i protagonisti di Woodstock!) diventi il Tim dimenticato, mentre l’altro Tim, Buckley, almeno da caro estinto trova redenzione in un crescente culto e l’affetto che non aveva goduto in vita. Tim Hardin, niente. Cala il sipario. Per più di un decennio, ammesso ci sia qualcuno che li cerca, i suoi dischi non si trovano. Ma poi, nel 1994, la Verve pubblica un doppio CD dal titolo un po’ beffardo, “Hang On To A Dream”, con dentro i primi tre album in studio e un’iradiddio di inediti e il mondo si accorge improvvisamente di cosa si è perso, di su cosa ha sputato.
L’Hardin che non dovrebbe mancare in nessuna casa è lì, su quel doppio da allora rimasto in catalogo e pure a medio prezzo (insomma, non avete scuse). Soprattutto nel primo dei due dischetti, che racchiude le ventiquattro canzoni (due offerte in doppia versione), registrate fra il maggio del ’64 e l’agosto di due anni dopo ed edite in origine su “Tim Hardin 1” e “Tim Hardin 2” (Verve, rispettivamente 1966 e 1967). Tutte autografe e tutte magnifiche, frutto di un periodo di ispirazione irripetibile. Il primo dei due LP giustifica appieno la definizione che di sé dava il nostro eroe: cantante jazz. È jazz il fraseggio virtuoso della voce malinconica e calorosa, è jazz la filigrana finissima in cui si insinua, elegante, il vibrafono del grande Gary Burton, è jazz il pianoforte che qui caracolla intrepido, là fa dilagare spleen su incantesimi d’amore. Jazz, naturalmente, come lo saranno Buckley e Nick Drake. E non valgono sia l’uno che l’altro e persino di più l’epidermica sfrontatezza di While You’re On Your Way, il turgido melodramma di It’ll Never Happen Again, la melodia squisita di Reason To Believe, la serenata in ginocchio da te di Misty Roses?
Figlio degli stessi mesi intensi, con a fianco l’amata Susan che si appresta a donargli Damion, il secondo 33 giri ha trame più semplici e intensità al pari inarrivabile. Il giorno che Nick Hornby redigerà la classifica dei cinque album con le migliori quattro canzoni iniziali, un posto dovrà trovarglielo: If I Were A Carpenter, gusto mediovaleggiante e successo colossale nella versione di Bobby Darin; Red Balloon, blues soffuso e seducente; Black Sheep Boy, country del ritorno a casa; Lady Came From Baltimore, slavina d’archi per Susan. Ma con il senno di poi quanto inquieta quel finale (molto Woody Guthrie in verità) Tribute To Hank Williams! Nell’omaggio a un altro angelo caduto, la premonizione del proprio destino.
“Tim Hardin non ti annoia mai. Ogni versione di Misty Roses è come una alternate take di Charlie Parker”: scrive così Michael Zwerin nelle note di copertina di “Tim Hardin 3 Live In Concert”, folgorante istantanea di uno spettacolo alla newyorkese Town Hall il 10 aprile del 1968, una delle sempre più rare apparizioni in pubblico del Nostro, reso inaffidabile (e dunque sgradito agli organizzatori) dal vizietto e comunque di suo vittima di una cronica paura del palcoscenico, oltre che offeso da un mondo che premia le sue canzoni soltanto quando sono altri a cantarle. E lui ne compone e ne comporrà sempre meno. L’ultimo disco per la Verve, “Tim Hardin 4”, ne contiene solamente cinque, adagiate su piacevoli cliché rock-blues che non regalano però epifanie. Meglio allora (più peculiare) la rilettura accorata che offre di House Of The Rising Sun. Forse la versione più bella dopo quella degli Animals.
Dopo quella di chi la scrisse, ossia Leonard Cohen, la versione più bella di Bird On The Wire è quella griffata Hardin prescelta per battezzare e aprire nel 1971 il suo secondo LP per la Columbia. Due anni prima l’eccentrico intimismo di “Suite For Susan Moore And Damion – We Are – One, One, All In One” (bislacco già nel titolo) ha fatto il vuoto intorno a Tim, proprio nel momento in cui il relativo successo del 45 giri Simple Song Of Freedom (ironicamente, un brano di Bobby Darin) pareva aprire nuove prospettive. L’uomo Hardin sta precipitando ormai senza freno in abissi dai quali non riemergerà, ma l’artista è ancora vivo, geniale. A chi altri potrebbe venire in mente di cantare quel Cohen alla maniera di un Otis Redding che fa gospel? E le poche canzoni che firma saranno magari rimasugli ma sono ancora – su tutte Southern Butterfly, trafitta d’archi e corni – splendide. Non ce ne sarà più nessuna su Painted Head, ascesa a un golgota chiamato “Nine”, ultimo urlo prima di un settennale silenzio e del congedo.
“Suite For Susan Moore” e “Bird On The Wire” sono stati appena ristampati, su un unico CD, dalla britannica BGO. Non è il Tim Hardin da cui partire ma è certamente un Tim Hardin cui arrivare.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.389, 21 marzo 2000.
Nulla aggiungendo alle parole sui primi due, “3 – Live in Concert” è uno dei cinque dischi dal vivo che farò sopravvivere a qualsiasi tracollo economico. La “Lenny’s Tune”, in morte del grande Lenny Bruce ivi contenuta, è qualcosa che può essere tranquillamente catalogata alla voce “File Under: Sacred Music”
Assolutamente d’accordo, per quanto riguarda “Lenny’s Tune”.