Archivi del mese: agosto 2015

Rickie Lee Jones – The Other Side Of Desire (TOSOD)

Rickie Lee Jones - The Other Side Of Desire

Perché nessuno compone più melodie davvero memorabili? Mi sono rimessa a studiare i classici: Paul McCartney, Cat Stevens, Curtis Mayfield. Mi sono impegnata a fondo in un processo creativo cui da tanto non ponevo mano, imponendomi la disciplina più rigida: racchiudere un’emozione o un pensiero in un dato numero di versi e note è un compito estremamente difficile e tantopiù se da molto non ti cimentavi con esso”: così parlava Rickie Lee Jones, l’anno era il 2003 e il disco che raccontava era quel “The Evening Of My Best Day” che ne sanciva la rinascita artistica. Mai venute meno neppure nei periodi bui le doti di interprete, Rickie Lee riprendeva in mano la penna ed erano testi e spartiti degni dell’era fra ’70 e ’80, aurea e indimenticabile, quelli che vergava. “It rocks, it rolls, it swings and strolls”, scriveva qualcuno nel 2007 dell’al pari convincente “The Sermon On Exposition Boulevard”, cogliendone appieno l’essenza. Potrebbe ripetersi per questo “The Other Side Of Desire” (registrato in Louisiana: si sente!), che parrebbe esserne il successore vero. Più di “Balm In Gilead”, del 2009. Certamente più di “The Devil You Know”, del 2012, dove la signora tornava a praticare l’arte della cover.

Segno dei tempi che un’artista che dei primi due album vendette quel milione di copie nei soli Stati Uniti debba oggi ricorrere al crowdfunding per pubblicare un disco. E dire che l’adorabile serenata che lo apre, Jimmy Choos, potenzialmente sarebbe una nuova Chuck E.’s In Love! Brillante introduzione a un lavoro più vivace in una prima metà giocata fra valzer e blues, country e gospel, e quindi sempre più raccolto, lento, alla fine quasi in moviola. Christmas In New Orleans e Feet On The Ground nel mio mondo sarebbero delle hit, non so nel vostro.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.365, luglio 2015.

1 Commento

Archiviato in archivi, recensioni

Il cattivo gusto e la lingua straordinaria di Lester Bangs

Lester Bangs - Mainlines, Blood Feasts, And Bad Taste

Certo che ne ha scritte di cazzate, Lester Bangs. Perché, d’accordo, chiudere la propria carriera esaltando gli Exploited va rubricato alla voce “sfortunati incidenti” (che ne sapeva che sarebbe morto da lì a pochissimo? grandioso però il titolo di quell’ultimo pezzo: If Oi Were A Carpenter), ma cominciarla stroncando gli MC5 di “Kick Out The Jams” un po’ fu sfiga, un po’ tanto arrogante imprudenza. Né è stata la sola, solenne sciocchezza messa nero su bianco da uno che definì “On The Corner”, cruciale capolavoro di Miles Davis in miracoloso incrocio fra James Brown e Stockhausen, “il disco in assoluto e di gran lunga peggiore che costui abbia mai pubblicato”, salvo cambiare idea (come del resto l’aveva cambiata sugli MC5) nel giro di qualche anno e tesserne di conseguenza mirabile panegirico. Facile agli amori per gente bistrattata dal resto della critica (si esaltava per i mediocri sudisti Wet Willie, probabilmente unico al mondo fra gli scribacchini) come allo schiaffo dettato dall’umore del momento (sebbene sempre bene argomentato) non lo si legge ancora d’altro canto, a quasi ventitré anni dalla prematura scomparsa, in cerca di consigli per gli acquisti ma per il piacere che dà una prosa che nella critica rock, in inglese e non, non ha mai avuto uguali e iddio ci scampi dagli imitatori.

Uscita negli Stati Uniti nell’agosto 2003, a sedici anni da quella Psychotic Reactions And Carburetor Dung che per fortuna già aveva provveduto a salvare l’opera di questo grande scrittore (sì: scrittore) dall’oblio che inevitabilmente cala su chi pubblica solo su riviste, Mainlines, Blood Feasts, And Bad Taste è a oggi la seconda raccolta di scritti bangsiani. Resterà probabilmente l’ultima, avendo dovuto il curatore John Morthland, per arrivare a riempire quattrocento pagine, recuperare anche cose francamente non trascendentali, utili comunque a completare il quadro. Dei due libri di Lester Bangs da avere è dunque il secondo e nondimeno: indispensabile. Con dentro fra il tanto d’altro uno spietato e documentatissimo attacco al Bob Dylan che, in “Desire”, inopinatamente elevava il mafioso Joe Gallo a personaggio mitologico (un articolo da Pulitzer), una formidabile quadrilogia stoniana, una puntuta disamina della leggenda di Jim Morrison e un esemplare reportage dalla Giamaica, appena asceso Bob Marley allo stardom. Volume che in ogni caso, come il predecessore, conquista al di là degli argomenti. È che è straordinaria la lingua, intessuta di slang e neologismi e tambureggiante come uno “one-two-three” seguito da un assalto punk-rock, o al contrario (dipendeva naturalmente pure da quale droga era in circolo) una lenta colata lavica. Intraducibile e di conseguenza non tradotta. (Anchor Books, pp.411)

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.16, inverno 2005.

4 commenti

Archiviato in archivi, libri

Gli Oneida sono la prova dell’esistenza di Satana

In vita mia ho scritto molte migliaia di recensioni. Se mi chiedessero di scegliere la più brillante sarei indeciso fra questa e quella, che qualche lettore forse ricorderà, del box natalizio di Sufjan Stevens. Per me memorabile anche per altre ragioni.

Oneida - Each One Teach One

L’essenziale è resistere, resistere, resistere. Non dubitare del corretto funzionamento del lettore che no, non si è incantato. Superare i primi tre minuti di Sheets Of Easter illudendosi che qualcosa cambierà. Superare i primi dieci senza cedere alla tentazione di estrarre il CD, farlo a pezzi, tagliarsi le vene con il più acuminato dei frammenti (scrivere orrende bestemmie sui muri usando come inchiostro il proprio sangue) e scagliare i restanti in strada. Superare i primi quattordici – e vivaddio sta finendo (il pezzo, non il CD) – senza sbavare, né rotolarsi per terra con le mani premute sulle orecchie, senza mandare mail di insulti a tutti i giornali che hanno parlato bene di quest’album (incensato ovunque e financo dal conservatore “Mojo”; qualcuno lo ha persino eletto disco del 2002), senza correre dal commesso che ve lo ha venduto e picchiarlo selvaggiamente urlando considerazioni infamanti sulla moralità della sua mamma. L’essenziale è calmarsi, tirare un bel respiro e prepararsi ad altri sedici minuti di macelleria sonica appena meno sanguinolenta che di nome fa Antibiotics: che sono i fratelli minorati mentali di Seeds e Suicide che fanno un frontale in autostrada perché i Butthole Surfers avevano detto loro che tanto è solo un gioco. Ecco. O forse l’essenziale sarebbe piuttosto far finta che il primo dei due CD che compongono “Each One Teach One” (l’album dura comunque meno di un’ora) manchi nella confezione, metterlo da parte per quando vi sentirete pronti e dedicarsi al secondo. Al confronto una roba pop, sempre che per voi siano pop i già nominati Suicide (quelli del primo LP) e i Butthole Surfers, i Pussy Galore, i Royal Trux più grezzi, i Sonic Youth più rumorosi, gli Scientists, i Velvet di Sister Ray e gli Stooges di We Will Fall.

In tal caso sarete pronti per il garage-punk ridotto ai minimi termini della title track, per la psichedelia all’acido solforico invece che lisergico di People Of The North, per l’ossessione rock’n’roll di Number Nine, per l’organetto carillonesco con voci sciamaniche (della serie: se i primi Savage Republic fossero stati i Residents) di Sneak Into The Woods, per il krautrock da mentecatti di Rugaru, per la resurrezione del Pop Group che si materializza prima in Black Chamber, quindi in No Label. Zombie che manco Romero… Gli Oneida sono di New York (giusto dalle sue fogne potevano sbucare) e hanno altri quattro album all’attivo prima di questo, nessuno così tosto. Kurt Vonnegut ha detto una volta che “la musica è la prova dell’esistenza di Dio”. Gli Oneida sono la prova dell’esistenza di Satana.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.9, primavera 2003.

4 commenti

Archiviato in archivi

Il capolavoro di Wayne Shorter?

Uno dei più grandi sassofonisti – ma anche e forse in special modo uno dei più grandi compositori – della storia del jazz compie oggi ottantadue anni. Ne sono trascorsi cinquanta dacché, nel pieno di una stagione creativa eccezionale, pubblicava quello che in tanti considerano il suo capolavoro.

Wayne Shorter - Speak No Evil

Nella tarda estate del 1964 il trentunenne sassofonista Wayne Shorter, reduce da un quadriennio trascorso suonando con i Jazz Messengers di Art Blakey, si univa a Miles Davis. Sarebbe rimasto con il trombettista per sei anni, offrendo al periodo forse più cruciale della carriera di costui un inestimabile contributo, sia come strumentista che (soprattutto) come autore: e basti a tal riguardo citare titoli come ESP, Dolores, Nefertiti, Pinocchio, Sanctuary, divenuti con il tempo degli standard ripresi all’infinito. Formidabile attore non protagonista nella prima stagione del jazz elettrico, sarebbe stato al centro della ribalta nella seconda con i Weather Report, ma questa è un’altra storia. Qui si vuole invece attirare l’attenzione sull’incredibile esplosione di creatività che innescò giusto all’ingresso nel gruppo di Davis. In poco più di quattrocento giorni, fra il 3 agosto 1964 (giorno in cui incise “JuJu”) e il 15 ottobre 1965 (“The All Seeing Eye”) Shorter registrava da leader qualcosa come cinque LP per la Blue Note, uno più superlativo dell’altro. Dovendo proprio scegliere, i più fra gli enciclopedisti indicano in questo secondo, in bilico fra hard bop, jazz modale e avanguardia, l’indispensabile.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.13, primavera 2004.

2 commenti

Archiviato in anniversari, archivi

Leftfield – Alternative Light Source (Infectious)

Leftfield - Alternative Light Source

Non sono i ventidue anni impiegati dai My Bloody Valentine per dare un seguito, nel 2013, all’epocale “Loveless” ma insomma: non considerando ovviamente un disco di remix e un “Greatest Hits”, il predecessore vero di “Alternative Light Source” è “Rhythm & Stealth”, che usciva nel 1999. E, se possibile, il terzo Leftfield rappresentava sulla carta una scommessa anche più spericolata di quella vinta con “m b v” dalla band di Kevin Shields: perché se a lungo il rock è rimasto fermo (c’è chi sostiene che lo sia ancora e sempre lo rimarrà) a un 1991 impossibilmente generoso di capolavori a 360°, l’elettronica per così dire “di consumo” si è evoluta molto di più ed è ambito nel quale si invecchia molto più in fretta. Considerate che stiamo parlando di chi battezzò con la sua opera una scuola quando non un nuovo genere musicale, la cosiddetta progressive house, incrocio fra house classica, reggae e dub, realizzata nel caso specifico centrifugando nel mix pure ambient, techno, rock e un’idea evoluta di soul. Considerate che in questa seconda esistenza i Leftfield non sono che un alias per Neil Barnes, la cui legittimità a usare la ragione sociale anche in assenza di Paul Daley, che fu chiamato a concorrere quando già il progetto era in qualche misura delineato, è fuori discussione ma che tuttavia…

A dispetto di premesse non incoraggianti, non direi che “Alternative Light Source” sia un trionfo ma un disco fresco e riuscito sì, certamente al passo coi tempi se non altro perché i tempi a ciò che furono – avantissimo – i Leftfield si sono adeguati. Padri fra il resto della dubstep e un pezzone come Head And Shoulders qualcosa ai figli insegna ancora. È l’apice, con una Universal Everything che quasi raggiunge i fasti della storica Open Up.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.365, luglio 2015.

1 Commento

Archiviato in archivi, recensioni

Per Joe Strummer, che oggi avrebbe sessantatré anni

Lord, there goes Johnny Appleseed
He might pass by in the hour of need
There’s a lot of souls
Ain’t drinking from no well locked in a factory

Hey, look there goes
Hey, look there goes
If you’re after getting the honey, hey
Then you don’t go killing all the bees

Lord, there goes Martin Luther King
Notice how the door closes when the chimes of freedom ring
I hear what you’re saying, I hear what he’s saying
Is what was true now no longer so

2 commenti

Archiviato in anniversari, video

Wattstax: la Woodstock nera

Music From The Wattstax Festival And Film

Ci pensa il titolo a stoppare subito eventuali polemiche da filologi, precisando che in questi tre CD pieni quasi al limite della capienza, per un totale di tre ore e abbondanti tre quarti di musica e anche di parole, se il più viene dalle sette ore di concerto di quella che è da allora definita “la Woodstock nera” qualcosa è tratto pure dagli spettacoli organizzati dalla Stax a Los Angeles nei giorni immediatamente seguenti l’indimenticabile 20 agosto 1972. Si trattava non tanto di dare un contentino a quei suoi artisti che per precedenti impegni non erano potuti salire sul palco del Coliseum Stadium, così come a quanti erano stati tagliati in corsa dal programma dai ritardi accumulatisi durante il festival, quanto di coinvolgerli in quella che fu indubbiamente, oltre che una straordinaria manifestazione politica, una scaltra operazione di marketing. Nell’ambiente ben più raccolto del Summit Club, Johnnie Taylor, gli Emotions e Little Milton potevano prendersi comunque i loro applausi e i loro dividendi. Qualcosa sarebbe finito nei due doppi vinili celebranti l’evento pubblicati l’anno dopo, altro – e fra il resto due feroci monologhi di Richard Pryor – nel film Wattstax: The Living Word, andato in prima sempre a Los Angeles il 4 febbraio ’73 e di recente anch’esso riedito. Nota per i collezionisti che fino a ieri potevano coccolarsi i 33 giri d’epoca (che restano comunque bei feticci), magari pagati a carissimo prezzo: poco meno di un terzo del programma qui (ri)presentato non si era mai sentito prima. Nota non soltanto per gli appassionati di black music ma per chiunque nutra un minimo interesse per la storia degli Stati Uniti e in particolare per quella della nazione afroamericana: godibilità estrema e formidabile carica emozionale a parte, questo è un documento dal quale non si può prescindere. Anche per via della puntigliosa ricostruzione degli avvenimenti offerta in una ventina di pagine di loro parecchio appassionanti da Rob Bowman, approfondimento cui invito senz’altro il lettore.

Mi limito a un breve e sommarissimo riassunto, allora. L’idea della Woodstock nera veniva, circa cinque mesi prima che la si realizzasse, a John KaSandra, un minore nell’imponente scuderia di una casa discografica che, dopo avere gravitato a lungo su Memphis diventando l’etichetta-simbolo del soul sudista, aveva da poco aperto uffici sulla West Coast. Duplice l’intento: fare incetta di talenti del posto; spalancarsi una porta su Hollywood. In un cruciale momento di passaggi che dopo innumerevoli trionfi (uno già il semplice sopravvivere al divorzio da quella Atlantic a braccetto con la quale aveva traversato per intero i ’60) avrebbero condotto a breve (1976) alla bancarotta, un’impresa fondata pur sempre da due bianchi decideva di fare ancora più negre immagine e sostanza. A sette anni dai disordini razziali che avevano reso tristemente celebre il ghetto di Watts, KaSandra suggeriva un coinvolgimento, in stretto coordinamento con varie realtà benefiche locali, nel consolidato “Watts Summer Festival”. Il progetto prendeva presto dimensioni che lo avrebbero reso un evento nazionale in forza del quale il sogno di Martin Luther King tornava a venire sognato dopo il lungo inverno seguito all’assassinio di costui, al radicalizzarsi della lotta per i diritti civili, alle deprimenti ritirate susseguitesi su quel fronte. Non si era mai visto (né si vedrà più) uno stadio pieno pressoché esclusivamente di neri (112.000; cinquantamila biglietti distribuiti gratis ai più poveri e il resto venduto a un dollaro) lì convenuti per ascoltare artisti neri e discorsi di consapevolezza nera: dava, dà tuttora, darà sempre i brividi il sermone con cui Jesse Jackson invitava quella folla immensa (non un poliziotto, non un incidente) a riappropriarsi di un orgoglio sanamente identitario. Prima che si scatenasse la festa. E si ha un bell’essere cinici prendendo nota di come il cartellone non fosse che un gigantesco spot per la Stax studiato attentamente in funzione di quanto – dischi e film; più le ovvie ricadute di popolarità sui vari nomi in scaletta – sarebbe venuto dopo, siccome non c’è luogo come l’America in cui profitto e idealismo possano e sappiano andare d’accordo. Senza stiracchiarla granché, si potrebbe affermare che partiva da lì la lunghissima marcia che forse porterà entro quest’anno un uomo di colore alla Casa Bianca.

Ma… la musica? Fenomenale in toto. Dal gospel sciacquato nel Mississippi degli Staple Singers al funk orchestrale di Isaac Hayes e del suo antico sodale David Porter, dal sixties-errebì da manuale di Eddie Floyd a dei Bar-Kays mai così vicini ai Parliament, dal predicatore con il wah-wah Rance Allen al Più Anziano Adolescente Vivente Rufus Thomas e alla sua esplosiva figliola Carla, passando per il blues di Little Milton e Albert King e per quei – sottovalutati, ricordati assai meno di quanto non meriterebbero – Soul Children dalla programmatica ragione sociale. Si dovesse citare un unico nome toccherebbe però, a mo’ di risarcimento, a una Deborah Manning la cui lettura del classico devozionale Precious Lord, Take My Hand rivaleggia con l’Aretha Franklin alle soglie della trascendenza del coevo “Amazing Grace”. Incredibilmente, è questa la sua sola registrazione pervenutaci.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.644, marzo 2008.

1 Commento

Archiviato in anniversari, archivi

La ballata dei Mott The Hoople

The Ballad Of Mott The Hoople

C’è un po’ di Italia in questa ballata. Ignorato in Gran Bretagna, dove peraltro e non si sa bene per quale motivo si esibisce come Shakedown Sound, il Doc Thomas Group nel 1966 trova giusto nel Bel Paese ingaggi per concerti e persino una casa discografica, con conseguente uscita nel gennaio dell’anno dopo di un LP su Interrecord. Niente di che, trattasi di una collezione di cover, perlopiù di soul ed eseguite in stile mod, che non mette precisamente a ferro e fuoco le classifiche, ma i ragazzi rimediano almeno un passaggio televisivo e quelle immagini in bianco e nero da Rai Uno sono le seconde più curiose a vedersi in un DVD di centouno minuti netti, senza extra. Essendo le prime quelle della vittoria contro il Newcastle in Coppa d’Inghilterra, datata ’72, della squadra della cittadina, Hereford, dalla quale provenivano quattro quinti della formazione originale dei Mott The Hoople: unico trionfo in una storia iniziata nel 1924 e consumatasi quasi per intero nelle categorie più infime, dalla terza divisione in giù, del calcio inglese. In quello stesso magico e irripetibile 1972 i nostri eroi sfioravano i Top 20 UK con l’album “All The Young Dudes” e andavano al numero tre nella classifica dei singoli con la canzone che all’album dava il titolo. Fine di un principio e principio di una fine. La band otterrà con alcune delle uscite successive riscontri commerciali anche migliori, ma prendeva a perdere pezzi e con essi identità e nel giro di un altro paio di anni tutto sarà – sostanzialmente – finito.

Era cominciato con il solito annuncio sul “Melody Maker” (“Cercasi cantante. Deve essere attento all’immagine e affamato”), pubblicato nel 1969 da un Guy Stevens entusiasta a sufficienza del gruppo da farlo mettere – previo cambio di nome: da Shakedown Sound il quintetto si era già ribattezzato Silence e diveniva adesso Mott The Hoople – sotto contratto della Island, ma per niente persuaso da Stan Tippins. Spostato costui a road manager, con l’arrivo di Ian Hunter ogni tesserina andava al posto giusto. O quasi. A fronte di una campagna concertistica pressoché ininterrotta, e davanti a platee sempre più numerose ed entusiaste, le vendite dei dischi erano invero modeste e a riascoltarli oggi non si comprende proprio perché: di assoluto pregio tre dei primi quattro 33 giri della band, essendo l’eccezione in negativo “Mad Shadows” e poco meno che un capolavoro un omonimo esordio descrivibile all’incirca come il Bob Dylan di “Blonde On Blonde” girato hard. Proprio un attimo prima che i protagonisti di questa vicenda si rassegnassero allo scorrere dei titoli di coda, giungeva in soccorso un fan illustre e alla moda quale David Bowie e più che un secondo tempo iniziava un altro film, memorabilissimo attacco una All The Young Dudes che costui regalava ai Mott e già abbiamo visto come andava. La strada per la gloria sarà però subito punteggiata da separazioni, primo a lasciare l’organista Verden Allen, e già sarebbe stata una defezione grave, ma quando a dimettersi era il chitarrista Mick Ralphs sarebbe dovuto apparire chiaro che i Mott The Hoople non esistevano più. Questa loro versione glam sempre più eccessiva tirava invece avanti ancora un po’ e, previo accorciamento della ragione sociale, addirittura sopravviverà all’esaurimento nervoso che metteva fuori gioco il cantante e lo indurrà a optare per una carriera solistica più defilata. Il racconto – corale, tutti i protagonisti per fortuna ancora fra noi a parte quel genio disperato di Guy Stevens, e a fare loro da controcanto cultori appassionati quali Kris Needs, Roger Taylor dei Queen e Mick Jones dei Clash – si ferma prima. Salvo mostrare qualche immagine dalla manciata di concerti che nel 2009 ha rivisto assieme i magnifici cinque originali, molto applauditi e per niente patetici come sarebbero facilmente potuti risultare. Sia chiaro: a patto che resti unica una rimpatriata giustificata da Hunter con un “ero solo curioso di vedere come ce la saremmo cavata”.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.38, estate 2012.

5 commenti

Archiviato in archivi

The Who – Live At Shea Stadium 1982 (Eagle)

The Who - Live At Shea Stadium

Nell’ostinazione a voler tenere in vita una sigla che avrebbe dovuto essere ritirata dopo la scomparsa di Keith Moon nel settembre ’78, gli Who scaveranno ben altri abissi (alzi la mano chi nel 2006 semplicemente si è accorto di “Endless Wire”; e poi chi ce l’ha fatta ad ascoltarlo) e nondimeno nella loro storia il 1982 resta un annus horribilis. Dando un pronto seguito al già modesto “Face Dances” esce il pessimo “It’s Hard” e del fatto che la parabola artistica del gruppo sia al capolinea i superstiti Pete Townshend, Roger Daltrey e John Entwistle sono a tal punto consci che il tour che lo promuove viene annunciato come “di addio” (e tale in effetti resterà fino all’89). E tuttavia: forse perché vogliosi di chiudere con stile, forse perché sfidati dalla presenza come spalla in alcune date americane dei rampanti Clash, almeno qualche sera i ragazzi (avendo il ricordo di come venissero considerati dei dinosauri oggi impressiona vederli in realtà ancora così giovani) tornano quelli dei tempi belli. In particolare, mito vuole che ciò accada nelle due notti (12 e 13 ottobre) in cui si esibiscono a New York. Curioso che quella seconda di cui si ha adesso un’integrale testimonianza in video sia la stessa dalla quale pure i Clash trarranno – postumo – un live, ma in CD. Stravincono i Clash, sia chiaro.

Il difetto di queste due ore di spettacolo sta nel manico, in una scaletta con qualche cover divertente quanto inutile nei bis e troppi brani tratti da “It’s Hard” a fronte di almeno un paio di assenze clamorose (The Kids Are Alright! My Generation!!!) sul fronte dei classici conclamati. Resta nondimeno un bel concerto, energico, con Townshend in particolare in gran forma e non solo alla chitarra ma pure quando si prende la ribalta da cantante.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.365, luglio 2015.

2 commenti

Archiviato in archivi, recensioni

Ferragosto, blog mio non ti conosco

Lascia un commento

Archiviato in video