
Ci pensa il titolo a stoppare subito eventuali polemiche da filologi, precisando che in questi tre CD pieni quasi al limite della capienza, per un totale di tre ore e abbondanti tre quarti di musica e anche di parole, se il più viene dalle sette ore di concerto di quella che è da allora definita “la Woodstock nera” qualcosa è tratto pure dagli spettacoli organizzati dalla Stax a Los Angeles nei giorni immediatamente seguenti l’indimenticabile 20 agosto 1972. Si trattava non tanto di dare un contentino a quei suoi artisti che per precedenti impegni non erano potuti salire sul palco del Coliseum Stadium, così come a quanti erano stati tagliati in corsa dal programma dai ritardi accumulatisi durante il festival, quanto di coinvolgerli in quella che fu indubbiamente, oltre che una straordinaria manifestazione politica, una scaltra operazione di marketing. Nell’ambiente ben più raccolto del Summit Club, Johnnie Taylor, gli Emotions e Little Milton potevano prendersi comunque i loro applausi e i loro dividendi. Qualcosa sarebbe finito nei due doppi vinili celebranti l’evento pubblicati l’anno dopo, altro – e fra il resto due feroci monologhi di Richard Pryor – nel film Wattstax: The Living Word, andato in prima sempre a Los Angeles il 4 febbraio ’73 e di recente anch’esso riedito. Nota per i collezionisti che fino a ieri potevano coccolarsi i 33 giri d’epoca (che restano comunque bei feticci), magari pagati a carissimo prezzo: poco meno di un terzo del programma qui (ri)presentato non si era mai sentito prima. Nota non soltanto per gli appassionati di black music ma per chiunque nutra un minimo interesse per la storia degli Stati Uniti e in particolare per quella della nazione afroamericana: godibilità estrema e formidabile carica emozionale a parte, questo è un documento dal quale non si può prescindere. Anche per via della puntigliosa ricostruzione degli avvenimenti offerta in una ventina di pagine di loro parecchio appassionanti da Rob Bowman, approfondimento cui invito senz’altro il lettore.
Mi limito a un breve e sommarissimo riassunto, allora. L’idea della Woodstock nera veniva, circa cinque mesi prima che la si realizzasse, a John KaSandra, un minore nell’imponente scuderia di una casa discografica che, dopo avere gravitato a lungo su Memphis diventando l’etichetta-simbolo del soul sudista, aveva da poco aperto uffici sulla West Coast. Duplice l’intento: fare incetta di talenti del posto; spalancarsi una porta su Hollywood. In un cruciale momento di passaggi che dopo innumerevoli trionfi (uno già il semplice sopravvivere al divorzio da quella Atlantic a braccetto con la quale aveva traversato per intero i ’60) avrebbero condotto a breve (1976) alla bancarotta, un’impresa fondata pur sempre da due bianchi decideva di fare ancora più negre immagine e sostanza. A sette anni dai disordini razziali che avevano reso tristemente celebre il ghetto di Watts, KaSandra suggeriva un coinvolgimento, in stretto coordinamento con varie realtà benefiche locali, nel consolidato “Watts Summer Festival”. Il progetto prendeva presto dimensioni che lo avrebbero reso un evento nazionale in forza del quale il sogno di Martin Luther King tornava a venire sognato dopo il lungo inverno seguito all’assassinio di costui, al radicalizzarsi della lotta per i diritti civili, alle deprimenti ritirate susseguitesi su quel fronte. Non si era mai visto (né si vedrà più) uno stadio pieno pressoché esclusivamente di neri (112.000; cinquantamila biglietti distribuiti gratis ai più poveri e il resto venduto a un dollaro) lì convenuti per ascoltare artisti neri e discorsi di consapevolezza nera: dava, dà tuttora, darà sempre i brividi il sermone con cui Jesse Jackson invitava quella folla immensa (non un poliziotto, non un incidente) a riappropriarsi di un orgoglio sanamente identitario. Prima che si scatenasse la festa. E si ha un bell’essere cinici prendendo nota di come il cartellone non fosse che un gigantesco spot per la Stax studiato attentamente in funzione di quanto – dischi e film; più le ovvie ricadute di popolarità sui vari nomi in scaletta – sarebbe venuto dopo, siccome non c’è luogo come l’America in cui profitto e idealismo possano e sappiano andare d’accordo. Senza stiracchiarla granché, si potrebbe affermare che partiva da lì la lunghissima marcia che forse porterà entro quest’anno un uomo di colore alla Casa Bianca.
Ma… la musica? Fenomenale in toto. Dal gospel sciacquato nel Mississippi degli Staple Singers al funk orchestrale di Isaac Hayes e del suo antico sodale David Porter, dal sixties-errebì da manuale di Eddie Floyd a dei Bar-Kays mai così vicini ai Parliament, dal predicatore con il wah-wah Rance Allen al Più Anziano Adolescente Vivente Rufus Thomas e alla sua esplosiva figliola Carla, passando per il blues di Little Milton e Albert King e per quei – sottovalutati, ricordati assai meno di quanto non meriterebbero – Soul Children dalla programmatica ragione sociale. Si dovesse citare un unico nome toccherebbe però, a mo’ di risarcimento, a una Deborah Manning la cui lettura del classico devozionale Precious Lord, Take My Hand rivaleggia con l’Aretha Franklin alle soglie della trascendenza del coevo “Amazing Grace”. Incredibilmente, è questa la sua sola registrazione pervenutaci.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.644, marzo 2008.
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