L’infanzia prodigiosa e la vita bruciata di Dennis Brown

Dennis Brown

Ha avuto una gran fretta di vivere Dennis Brown che ci ha lasciati, appena quarantaduenne, sul principio d’estate di due anni or sono. Causa ufficiale della morte un collasso polmonare seguito da infarto. Dovuti, si sa ufficiosamente, a un’antica passione per la cocaina poi ulteriormente degenerata in dipendenza da crack. Ha vissuto poco ma certamente con intensità: un centinaio gli album che taluni gli attribuiscono, un’ottantina quelli che lui rivendicava. Produzione senza pari in materia di reggae (il solo Lee “Scratch” Perry si avvicina a questi numeri) e con pochi rivali in qualunque altro ambito, stupefacente non solo per quantità oltretutto ma anche per qualità media. Se la battuta in levare vi intriga, potete fiduciosamente mettervi in casa qualunque disco vi capiti fra le mani con sopra il nome di colui che Bob Marley dichiarò essere il suo cantante preferito. Dal classico “No Man Is An Island”, che vedeva la luce nel 1970, a certi lavori degli anni ’90 che, lungi dal guardare con nostalgia al passato cercando di ricrearlo, azzardavano felicemente il connubio fra reggae e digitale. Avete già fatto il conto? Esatto, non vi state sbagliando né vi siete imbattuti in un errore di stampa: quello che è uno dei massimi capolavori della musica giamaicana veniva confezionato da un tredicenne che perdipiù aveva già in curriculum diversi successi a 45 giri. Racconta chi c’era che in studio dovettero farlo salire su una cassetta vuota per avvicinarlo quanto bastava al microfono.

Dennis Brown nasce a Kingston, Giamaica, il 1° febbraio del 1957. Il padre Arthur scrive testi per un popolarissimo programma radiofonico chiamato “Life In Hopeful Village” ed è dunque live, dagli studi della emittente nazionale, che la voce del ragazzino si diffonde per la prima volta nell’etere. La precoce conoscenza di quanti sull’isola lavorano nel mondo dello spettacolo avrà naturalmente il suo peso per lanciarne la carriera. L’apprendistato segue una trafila che sarebbe usuale, non fosse per la verdissima età dell’aspirante star: concerti in club nei quali da cliente non potrebbe ancora entrare, con Byron Lee, i Falcons e un maestro del soul americano come King Curtis, e poi i primi singoli. It’s A Crime è il debutto, per un produttore di gran fama quale Derrick Harriott. Dritto nei Top 10 locali, dove presto lo seguiranno Love Grows, Created By The Father e la canzone che intitolerà l’esordio a 33 giri, No Man Is An Island. Cadenze ancora più prossime al rocksteady che non al reggae vero e proprio e voce inevitabilmente adolescenziale che avvince modulando innocenza e sogni. Commozione e applausi.

Le hit si susseguono. Curano il ragazzino i produttori giamaicani più importanti. Dopo Harriott tocca a Clement “Coxsone” Dodd e dopo di lui a Lloyd Daley (il primo e unico “Matador”, con buona pace di una certa tifoseria), che contribuisce alla riuscita di tascabili meraviglie come What About The Half (pigrissima), Things In Life (fiati sornioni a contraltare di un canto struggente) e Baby Don’t Do It. Canzone chiave quest’ultima per approcciarsi al Dennis Brown che è parte fondamentale della storia del reggae: seriche corde vocali che rimandano al soul americano più raffinato (Sam Cooke in primis) su arrangiamenti tanto semplici quanto di eccezionale efficacia, concorso di chitarre sincopate, ottoni felini, organi grassi, swinganti, liturgici. Il rinnovarsi del sodalizio con Derrick Harriott ne genererà innumerevoli di creazioni siffatte, da Concentration (exotica e dubbata) a Silhouettes (che davvero sarebbe piaciuta a l’uomo di A Change Is Gonna Come), da He Can’t Spell (memorabile l’organo) a Changing Times (sublimemente malinconica). Tutte radunate in un altro LP epocale chiamato “Super Reggae & Soul Hits”. Era ormai grandicello il Nostro all’epoca della sua pubblicazione. Quindici anni, pensate.

Anno frenetico il 1973. L’attività live si intensifica, così come le collaborazioni con la crema dei produttori isolani, nomi ciascuno dei quali è una leggenda: Clive Chin, Phil Pratt, Alvin Ranglin, Eddie Wong, Herman Chin-Loy, Joe Gibbs. È quest’ultimo che griffa quella che diventerà la canzone-simbolo di Dennis Brown, Money In My Pocket. Che dopo si sente ormai maturo per prodursi da solo e addirittura per mettere in piedi un’etichetta, la D’Aguilar Sounds. Sarà tuttavia con Winston “Niney” Holness in cabina di regia che imprimerà su nastro la poppissima Westbound Train, l’ossessiva Cassandra, la travolgente per epicità I Am The Conqueror. Anno (al solito) di grazia 1974.

Lo spazio stringe e volo al ’79. È allora che una nuova versione di Money In My Pocket fa infine di Brown una popstar internazionale, mancando di poco l’ingresso nei Top 10 britannici, impresa replicata nel 1981 da Love Has Found A Way e Halfway Up Halfway Down. Prosegue pure l’attività di discografico. Per le sue D.E.B. e Yvonne’s Special incidono pesi massimi come Junior Delgado, Gregory Isaacs e i Black Uhuru. Niente sembra potere arrestare Dennis Brown. Provvederà Dennis Brown stesso. La salute vacillante per gli stravizi e la voce che piano piano se ne va non gli impediranno tuttavia, come appuntavo tre cartelle fa, di fare ottime cose almeno per tutta la prima metà dei ’90. L’ultimo grande album è “Temperature Rising”, del 1995.

La canzone che gli diede il titolo è la quarantasettesima delle quarantotto che sfilano in “Money In My Pocket”, formidabile doppia antologia appena licenziata dalla Trojan. Due ore e mezza e non si potrebbe rinunciare a un minuto. Scrivevo prima che qualunque lavoro firmato dal nostro uomo è meritevole d’attenzione. Nessuno vale però, per completezza e suggestioni, questa raccolta.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.434, 20 marzo 2001.

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