Quando i tempi stavano cambiando (Bob Dylan, nel 1964)

Bob Dylan 1964

Nel luglio 1963, a due mesi dalla pubblicazione del suo secondo 33 giri, Bob Dylan diventa personaggio, da newyorkese che era, nazionale comparendo per la prima volta al “Newport Folk Festival”. A farne una stella è però soprattutto la melensa lettura di Blowin’ In The Wind che il trio Peter, Paul & Mary porta al numero due nella graduatoria dei singoli. Se ne giova “The Frewheelin’”, che anche a causa del ritiro della prima stampa da parte di una Columbia innervositasi per la presenza in scaletta di un polemicissimo Talkin’ John Birch Paranoid Blues non aveva fino a quel punto venduto granché, e sale adesso in classifica fino a sfiorare i Top 20. Si parte per il primo tour, significativamente per università, e con lui c’è Joan Baez, il che vuol dire discreto baccano mediatico. Anno ancora più intenso però il 1964. In gennaio esce “The Times They Are A-Changin’” ed è autentica chiamata a raccolta di tribù quella che compie la canzone che lo battezza e lo apre, con versi di una forza inaudita che da profezia si fanno, nel preciso istante in cui per la prima volta vibrano nell’aria, cronaca. Nulla potrà mai più essere lo stesso, dopo, e il Dylan meditabondo e corrucciato in copertina ben lo sa. È e resterà il suo album più politico, colmo di invettive rabbiose (Ballad Of Hollis Brown, With God On Our Side, Only A Pawn In Their Game, The Lonesome Death Of Hattie Carroll) cui è la pura forza del furore a donare l’incisività mancante a certe canzoni cronachistiche dei dischi prima. Immagini bibliche balenano un po’ ovunque incupendo ulteriormente un clima che nemmeno le incursioni nel privato rischiarano: l’irrequietezza di One Too Many Mornings non può essere placata dall’amore e Restless Farewell è un resoconto di fallimenti. Con l’unica eccezione di When The Ship Comes In, vivace e incalzante, anche musicalmente “The Times They Are A-Changin’” è corrusco e ricercatamente austero, lontano dall’orecchiabilità di molta parte del predecessore. Come la gioventù di cui si è trovato a esprimere i fino a quel punto inespressi sentimenti, Dylan sa che una rivoluzione è alle porte. Contrariamente a essa, non si illude che sarà una passeggiata. E probabilmente già ha capito che è un glorioso fallimento il migliore approdo in cui si possa confidare.

In agosto viene pubblicato “Another Side Of Bob Dylan” e di rado titolo fu tanto significativo. Personalmente la vedo così: espulsi i veleni che aveva nel sangue, in tal modo depurato e alleggerito il nostro eroe si affaccia sull’alba di un nuovo giorno. La dice lunga al riguardo l’iniziale All I Really Want To Do, in cui con voce garrula su base birbona profferisce che “tutto quello che voglio da te,/bambina, è esserti amico”. C’è in scaletta una seconda, torrenziale e scherzosa (la prima su “The Freewheelin’”) I Shall Be Free (numero 10; e le altre otto?). In Black Crow Blues rintocca un pianoforte rock’n’roll ed è un presagio, Spanish Harlem Incident inventa lo Springsteen di “Greetings From Asbury Park”, To Ramona è una serenata con piacevoli sfumature latine, Motorpsycho Nitemare sarà anche paranoica ma come un Lenny Bruce di buon’umore, I Don’t Believe You ha un gusto smaccatamente lennoniano che rende ufficiale la nascita di una società di mutua ammirazione (I Should Have Known Better sarà l’immediata risposta). Ma sono i quattro brani che non ho ancora citato la chiave di volta dell’album e se Chimes Of Freedom, malinconica e gioiosa insieme, di liturgico afflato e con una forza immaginifica che mozza il fiato, è mirabile conclusione della parabola di Blowing In The Wind tutto il resto è un chiudersi porte alle spalle e incamminarsi verso il futuro senza rimpianti, giusto con quel filo di nostalgia che umanamente ci sta. Così, Ballad In Plain D è l’ultima e tenerissima missiva d’amore a quella Suze Rotolo sottobraccio al nostro eroe sul davanti di “The Freewheelin’” (copertina epocale quanto l’album stesso) e My Back Pages un annuncio di cambiamenti in corso e a venire, reso inequivocabile da un ritornello che constata che “ero molto più vecchio allora/sono molto più giovane adesso”. E poi, proprio alla fine, It Ain’t Me Babe. Dylan canta “vattene dalla mia finestra/vattene alla velocità che preferisci/non sono io l’uomo che vuoi, bambina,/non sono io l’uomo che ti serve” e sarà pur vero che è un altro congedo sentimentale, dalla Baez questo, ma ridurlo al saluto a un’amante sarebbe miopia confinante con la cecità: è alla scena folk che lo ha designato a leader che il figlio di Duluth sta dicendo addio. Non con irriconoscenza. Se l’ambito di provenienza gli sta stretto non è perché la sua popolarità è cresciuta immensamente, ben oltre i piazzamenti in classifica (“The Times They Are A-Changin’” ventesimo, “Another Side” quarantatreesimo; però rispettivamente numero quattro e otto in Gran Bretagna), ma perché ne scorge i limiti, in primis l’immobilismo che lo rende lontanissimo da quel proletariato che ambirebbe a rappresentare e incapace di farsi rimodellare dai fermenti della cultura giovanile in sboccio. Più conservatore – in pensieri, parole e note – dei conservatori che vorrebbe combattere. E a ogni buon conto il giovanotto (non ha che ventitré anni!) è ambizioso e gli brucia che i Beatles vendano così tanto più di lui, bruciore che da personale si fa potremmo dire patriottico notando come i complessi britannici abbiano improvvisamente occupato la ribalta americana suonando musiche che l’America ha inventato, il blues e il rock’n’roll. E perché non riprendersele? Cosa che farà dal marzo ’65, da un 33 giri dal titolo una volta ancora programmatico: “Bringing It All Back Home”, “riportando tutto a casa”. Salto quantico completato pochi mesi dopo ancora con “Highway 61 Revisited”.

Se volete ascoltare quella Like A Rolling Stone che lo inaugura, magmatica e travolgente, come mai l’avete udita lo spassionato consiglio è di portarvi a casa la strepitosa (ma sfortunatamente non proprio economica) riedizione approntata un paio di anni fa dalla Mobile Fidelity e ancora in catalogo. Un po’ per volta la casa di Chicago sta ristampando tutto il Dylan dei ’60 nel formato doppio 12” (“Blonde On Blonde” è diventato naturalmente un triplo) da ascoltare a 45 giri. Se la cosa ha naturalmente un senso, in termini di resa sonora straordinariamente migliorata, per i lavori rock suscita qualche perplessità che si sia deciso di procedere allo stesso modo – l’ultima emissione comprende l’omonimo debutto del ’62 e, appunto, “The Times They Are A-Changin’” – per quelli fondamentalmente per sole voci, chitarra e armonica. Ciò detto, ho qui Zimmie che me le suona e me le canta in soggiorno e un certo effetto lo fa.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.363, maggio 2015.

5 commenti

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5 risposte a “Quando i tempi stavano cambiando (Bob Dylan, nel 1964)

  1. “…dal titolo una volta ancora programmatico: “Bringing It All Back Home”, “riportando tutto a casa”.

    Se volete ascoltare quella Like A Rolling Stone che lo inaugura, …”

    Solo io noto che qualcosa non riporta?? Bellissima lettura, comunque.

  2. Francesco Manca

    Quando entro qui la prima cosa che faccio è guardare i tuoi dischi di Dylan in bella mostra, un rito pagano prima della lettura credo ( ci sono tutti quelli che citi in questo articolo naturalmente…)

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