Tanto è invitante il prezzo, in rapporto alla mole di quanto offerto, tanto la mole suddetta è intimidente: con bibliografia e indici si va a sfiorare le novecento pagine, stampate oltretutto in un corpo minuscolo. La tendenza, vista la fama di capolavoro guadagnata al volume da quasi trent’anni di pressoché ininterrotta presenza nelle librerie, potrebbe essere quella di portare comunque a casa, magari con la colpevole consapevolezza che, come sovente accade ai cosiddetti “classici”, il tomo verrà al massimo sfogliato e poi prenderà polvere sistemato in strategica evidenza, per fare bella figura con gli ospiti. Ma stavolta non andrà così. Non se, soffermandovi sulle prime pagine, apprezzerete la semplice eleganza della lingua, la chiarezza espositiva e nello stesso tempo la profondità analitica di un autore di cui proprio quest’anno ricorre il ventennale della scomparsa, sessantacinquenne, e ne sarete stimolati a proseguire. Meno che mai se la vostra attenzione cadrà invece sulla seconda metà di un saggio che, dopo avere speso trecento pagine per descrivere l’evoluzione del jazz dall’alba dello scorso secolo ai primi anni ’70, dedica trentaquattro capitoletti a raccontare le vicende personali e artistiche di altrettanti protagonisti di tale musica, da Jelly Roll Morton a Ornette Coleman. Con tanta vividezza che non potrete staccarvene, se non per tornare indietro e leggere dal principio: perché con Polillo, che diversi dei suoi protagonisti conobbe di persona, la storia del jazz è un romanzo non per modo di dire.
Critico di una cultura, un’autorevolezza (riconosciuta pure all’estero) e una limpidezza intellettuale che lo fanno dire purtroppo senza eredi, Arrigo Polillo nemmeno patì limiti generazionali che sarebbero anche stati scusabili: sapeva sintonizzarsi subito sulla novità del free e (sebbene perplesso rispetto al Davis successivo) era fra i pochissimi a salutare “Bitches Brew” come un capolavoro. Pubblicato per la prima volta nel 1975, aggiornato dall’autore nell’83 e ottimamente integrato nel ’97 da Franco Fayenz con un’ottantina di pagine rispettosissime dello stile e dell’impianto originali, Jazz è il mirabile lascito di una vita dedicata a una passione. Spesa bene. (Mondadori, pp.871)
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.14, estate 2004.
“critico di una cultura, un’autorevolezza (riconosciuta pure all’estero) e una limpidezza intellettuale che lo fanno dire purtroppo senza eredi”, oddio da ignorante a me viene da dire che in italia c’è anche gente come Marcello Piras e Stefano Zenni. Poi comunque mi permetto di dire che secondo me come libro mostra un po’ gli anni. Resta una lettura interessante ma non è la bibbia. Preferisco di gran lunga leggere gente come Ted Gioia, Gary Giddins, Gunther Schuller (tradotto da Piras tra l’altro), Whitney Balliett, Ethan Iverson e altri (anche il tanto odiato Stanley Crouch, liquidato spesso troppo sbrigativamente come ultraconservatore).
antonio p., sono moderatamente in disaccordo con te. Ogni opera che abbia quasi un quarantennio d’età sulle spalle può a buon diritto dirsi “superata” da nuovi studi e nuove dissertazioni sulla materia trattata. Ma a parte che l’edizione ultima è debitamente aggiornata (come riporta il VM), quello di Polillo è nella mia modestissima opinione – almeno in Italia, ed in lingua italiana – un testo archetipico e seminale per profondità di analisi, diventando vieppiù fondamentale ed appassionante lettura di taglio romanzesco per facilità di scrittura (dote pressoché più unica che rara in ambito di critica rock e affini, laddove lo sbrodolamento ipertecnico del musicologo prevale quasi sempre su tutto il resto)