Archivi del mese: settembre 2015

Christopher Owens – Chrissybaby Forever (Turnstile)

Christopher Owens - Chrissybaby Forever

Già trentenne quando i suoi rumorosi ma melodiosi Girls pubblicavano nel 2009 il primo di tre album e dunque esordiente tardivo, per quanto con l’ottima scusa di una vita parecchio complicata e sofferta, l’americano della Florida Christhopher David Owens è da allora che prova a rifarsi del tempo perduto. Il debutto da solista “Lysandre” data 2013, “A New Testament” gli è andato prontamente dietro l’anno dopo ed è ora la volta di questo “Chrissybaby Forever”. La sua uscita migliore ed è un crescendo, la testimonianza definitiva dello sbocciare di un talento di cui nei dischi con la band non si coglievano che promesse vaghe e nel pop barocco della prima uscita in proprio non molto più che una singola canzone indimenticabile (Part Of Me) e altre due o tre graziose. Meglio il country screziato di gospel e blues di un seguito senza un apice al pari vertiginoso ma nel complesso più solido. Ancora superiore, e oltre che il più incisivo il più variegato del lotto, un album nuovo che di brani fenomenali ne regala diversi fra la quindicina (sarebbero sedici, ma la Intro che lo inaugura è invero fulminea) che vi sfilano.

In ordine di apparizione alla ribalta: il power pop da manuale e da urlo Another Loser Fuck Up; una Music Of My Heart irresistibilmente reggata; una Heroine (Got Nothing On You) che più Buddy Holly non si potrebbe nemmeno resuscitandolo Buddy Holly; il vaudeville fra Beatles e Kinks What About Love; una lenta e incantata (voci femminili, organo chiesastico e batteria metronomica) I Love You Like I Do; il folk-pop alla Violent Femmes Come On And Kiss Me. Ecco: per quanto il minutaggio sia contenuto “Chrissybaby Forever” rischia ogni tanto di perdere il filo del discorso, ma è peccato venialissimo, sempre che di peccato si tratti.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.366, agosto 2015.

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Audio Review n.367

Audio Review 367

È in edicola il numero 367 di “Audio Review”. Include mie recensioni degli ultimi album di  Dave & Phil Alvin, Mac DeMarco, Anneli Drecker, Ezra Furman, London Souls, Sara Lov, Low, Orb, Public Enemy, Jill Scott, Titus Andronicus, Watkins Family Hour e Wilco, di una recente ristampa dei Dream Syndicate e di un DVD degli Stray Cats.  Nella rubrica del vinile mi sono occupato di Randy Newman e Carlos Santana & John McLaughlin.

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Jason Isbell – Something More Than Free (Southeastern)

Jason Isbell - Something More Than Free

Errata corrige? Dopo avere scritto a più riprese – ma d’altronde non facevo che riferire quella che era la posizione dei diretti interessati – che non furono divergenze artistiche a portare nel 2007 all’uscita di Jason Isbell dai Drive-By Truckers, gruppo di cui non era stato fra i fondatori ma in cui comunque giocava da sei anni un ruolo di primo piano, comincio a ricredermi. Ricorderà forse il lettore che il divorzio del nostro uomo dalla band coincideva con quello dalla bassista Shonna Tucker (qualche tempo dopo se ne andrà anche lei), saprà probabilmente che di rado separazione fu tanto indolore e persino una fortuna per chi si è separato, considerato come la fama della band non abbia fatto che crescere da allora nel mentre il transfuga si costruiva una carriera solistica di tutto rispetto, buone le vendite, ottime le critiche. E nondimeno, qualche disco di quella e di questi dopo, non si può non notare come stilisticamente le strade divergano sempre più. Riassumendo all’ingrosso: decisamente più variegati per quanto sostanzialmente sempre in un filone di classico rock sudista (canone cui il country concorre, ma minoritariamente) gli album dei Drive-By Truckers, in un solco di cantautorato con in testa una Nashville alternativa quelli di Isbell. Ciò detto, alla Nashville “vera” una ballata come If It Takes A Lifetime, cui è delegato il compito di aprire “Something More Than Free”, potrebbe pure piacere, e non poco.

Lavoro fra il languido e il solenne, malinconico ma con brio, dal cui programma di undici tracce se ne staccano emergendo – direi io – altre tre: una Children Of Children fra R.E.M. e CS&N; lo Springsteen desolato di Speed Trap Town; una Palmetto Rose insolitamente tagliente, persino un po’ funk.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.365, luglio 2015.

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Son soddisfazioni

Un milione di pagine viste

Un milione di grazie a tutti e tutte.

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Hey Hey! We’re The Monkees

The MonkeesDovreste averli già sentiti nominare, i Monkees. Piazzarono i primi quattro 33 giri al primo posto della classifica USA e i primi due al numero uno anche in Gran Bretagna. Spedirono cinque singoli al primo posto negli USA e altri sei nei Top 40. E tutto ciò in due anni. Da lì a due decenni vanteranno sette album contemporaneamente nei Top 200 di “Billboard” e sei erano ristampe. Sì, dovreste già avere sentito parlare dei Monkees. Male, probabilmente. A un certo punto li chiamarono i Pre-Fab Four, ove “Pre-Fab” era maligna abbreviazione per “prefabricated”. Un’ingiustizia, come proverò a spiegarvi, e se mi darete retta e vi procurerete almeno quanto pubblicarono fra l’ottobre ’66 e il novembre ’67 potreste scoprirvi confusi e felici. Stupefatti che, oltre a quelle quattro o cinque canzoni che chiunque conosce, ce ne siano un paio di dozzine di altre assolutamente meritevoli di un ascolto, ma anche di dieci. A bocca aperta dinnanzi all’evidenza – non ho qui spazio per raccontarne anche a sommi capi la storia – di un gruppo messo insieme con tanto di casting per costruirci attorno una serie TV capace di trascendere le manipolazioni dell’industria e proclamare l’indipendenza. Pagandone naturalmente il prezzo. La prima boy band, d’accordo, ma non è degli One Direction che stiamo parlando. Nemmeno nelle primissime fasi della loro vicenda comune Michael Nesmith, Peter Tork, Micky Dolenz e Davy Jones furono meri pupazzi attaccati ai fili di astuti burattinai.

Edito in origine su Colgems (come l’intero catalogo successivo; in Gran Bretagna provvedeva la RCA), “The Monkees” vedeva la luce nell’autunno 1966. Preceduta di alcune settimane dal 7” Last Train To Clarksville – uno strabiliante apocrifo Beatles ispirato da Paperback Writer: clamorosamente dritto al numero uno – la prima puntata della sitcom con protagonisti i ragazzi era stata mandata in onda dalla NBC il 12 settembre. Gli ascolti volavano subito. Il 33 giri idem. È il disco in cui i nostri eroi misero meno – l’attitudine ludica ma con una serietà di fondo ben percepibile, le voci e poco di più – e a confidarvi che è il mio preferito qualcuno potrebbe dire che mi contraddico. Posso limitarmi a replicare che al loro primo album i Byrds in proporzione parteciparono in misura persino minore. E allora conta di più, secondo me, che (Theme From) The Monkees, Saturday’s Child, Tomorrow’s Gonna Be Another Day siano irrestibili variazioni su un canovaccio resuscitato a freschezza da lungi smarritasi di Merseybeat. Che I’ll Be True To You sia una I’m A Loser in sedicesimo e Let’s Dance On una contraffazione sfacciata quanto esilarante di Twist And Shout. Che I Wanna Be Free e Take A Giant Step siano esercitazioni di jingle-jangle forse scolastiche e tuttavia squisite. Neppure a Gonna Buy Me A Dog, che è sciocchina forte con il suo porsi in scia ai Mysterians, rinuncerei a cuor leggero. I nostri eroi erano nel pieno della prima tournée quando, ad appena tre mesi dall’esordio, la casa discografica dava alle stampe un secondo LP, “More Of The Monkees” il banale titolo, assemblato radunando il tesoretto di registrazioni che avevano accumulato, ancora con il decisivo apporto di turnisti di lusso ma partecipando sempre più in prima persona, in un tempo prodigiosamente breve. L’album è un’altra collana di gemme due delle quali – il garage (I’m Not Your) Steppin’ Stone; quella I’m A Believer che resta la loro canzone più celebre (di Neil Diamond e rifatta da chiunque, da Robert Wyatt a Caterina Caselli) – straordinariamente sfavillanti. Ma è anche il disco dei Beach Boys incrociati con gli Animals di She e del country che prova a farsi beat o viceversa di When Love Comes Knockin’ (At Your Door), dell’ipnotica Mary, Mary e del baroque’n’roll Hold On Girl, della tumultuosa con sentimento The Kind Of Girl I Could Love (di Nesmith) e dell’approdo a un folk-pop maturo con nel futuro “Tapestry” di Sometime In The Morning (difatti siglata Goffin/King). Ottenuta in una tempestosissima riunione con i discografici, accusati di avere mandato nei negozi il 33 giri a insaputa dei titolari stessi, carta bianca i Monkees ne approfitteranno da subito e fa specie che fu proprio allora che, complice una stampa musicale neonata nel senso in cui da allora la si intende, passava nel sentire comune l’idea che fossero tagliati su misura per una platea di adolescenti sciocchi e soprattutto sciocche e insomma una brutta copia dei Beatles, nomea rimasta e pazienza se i Beatles stessi si dichiaravano degli ammiratori e si mostravano cordialissimi quando i nostri amici andavano a trovarli nel corso della lavorazione di “Sgt. Pepper’s”. Ironico: era proprio il classico psichedelico dei Fab Four a spodestare dal primo posto negli USA, dopo una sola settimana, il terzo LP dei cosiddetti Pre-Fab Four! “Headquarters” se l’erano scritto per metà loro e lo registrarono quasi per intero da soli, sistemandoci dentro brani super: i Byrds country’n’western di You Told Me e i Beatles idem di I’ll Spend My Life With You, il sofisticato beat I Can’t Get Her Off My Mind e una For Pete’s Sake marziale e propulsa dall’organo; lo stralunato carillon all’LSD Mr. Webster, il rock’n’roll No Time e una Randy Scouse Git degna dei Kinks di mezzo. Ancora doveva congedarsi il 1967 e già era fuori un quarto 33 giri, “Pisces, Aquarius, Capricorn & Jones Ltd.”. Primo album pop in cui si ascolta un moog, il lavoro evidenziava una maturità non a detrimento degli usuali frizzi e lazzi, fra accenni di rhythm’n’blues (Salesman) e riaccensioni di jingle-jangle (The Door Into Summer), giostrine pepperiane (Cuddly Toy) e uno stupendo guanto di sfida agli Electric Prunes più psichedelici (Words). Per farsi indipendenti del tutto ai protagonisti di questa saga non mancava che la sfida finale: consegnare agli archivi lo show televisivo. Lo facevano e guarda caso il quinto LP, “The Birds, The Bees & The Monkees”, sarà nella primavera 1968 il primo a mancare (non di molto: terzo per “Billboard”, quarto per “Cashbox”) il vertice della graduatoria di vendite statunitense. Il ben avviato suicidio commerciale verrà completato entro l’anno da uno dei film più deliranti di sempre, “Head”, e dalla relativa colonna sonora.

I primi quattro album dei Monkees sono disponibili da tempo immemore in vinile nel catalogo Sundazed, in ottime stampe scrupolosamente ricavate dai master originali che non dovreste pagare più di venti euro cadauna. È invece fuori da pochi mesi il box quintuplo della Friday Music “The Monkees In Mono”, altra eccellente riedizione su licenza Colgems con però il neo di un prezzo assai più alto, intorno ai centottanta eurelli e vedete voi se è il caso.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.364, giugno 2015.

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Peter Guralnick e gli anni d’oro della musica soul

Peter Guralnick - Soul Music

Tanto vale cominciare con un’affermazione forte: nel vasto ambito del pop, Peter Guralnick è uno dei pochi al mondo a dare lustro sul serio alla professione del critico musicale. E nondimeno dirlo soltanto un valido critico vuol dire limitarlo assai: è in realtà lo storico che, riferendo delle sue musiche – il blues in Feel Like Going Home; il rockabilly e il country in Lost Highway; qui il soul – ha saputo raccontare l’America del XX secolo come a non molti altri è riuscito. È il biografo pignolissimo che ha dedicato undici anni della sua vita a raccogliere materiali sulla vicenda triste e gloriosa di Elvis e poi a metterla per iscritto con tale capacità affabulatoria che le oltre milleduecento pagine che ne sono risultate si leggono come il più appassionante dei romanzi. Così Searching For Robert Johnson, che approfittando della materia mitologica che investiga si fa epopea nel senso più autentico del termine. E, en passant, un romanzo vero e proprio (naturalmente inedito dalle nostre parti) l’ha pure scritto e pubblicato con successo, quel Nighthawk Blues che fa fantasticare sin dal titolo.

Volendo tuttavia limitare a un unico lavoro il suo contributo alla storia della cultura popolare è Soul Music, che usciva in Italia nel 1987 in una traduzione un po’ zoppicante per Arcana e da allora è più o meno sempre rimasto in catalogo, l’eletto. Tanti altri volumi gli sono da allora andati dietro e taluni anche notevoli (basti pensare al Craig Werner di A Change Is Gonna Come), ma per coerenza del disegno, ricchezza documentaria e sguardo d’assieme il libro di Guralnick resta a oggi insuperato e un modello con cui è inevitabile fare i conti. Nessuno meglio di lui ha spiegato “che cos’è la musica soul”, il suo sgorgare dal sogno di libertà del Sud, il legame in essa indiscutibile e indissolubile fra tecnica e sentimento, il suo continuo premere sui confini “di melodia e di convenzione” che si era imposta da sé, la sua derivazione dal gospel e la sovrapposizione dapprima negata con il rhythm’n’blues. Da Norman Mailer a Ray Charles e non sono che le quindici pagine dell’illuminante introduzione. Nelle oltre trecento che seguono vicenda si intreccia a vicenda senza che mai la linearità del narrare vada persa. Ci sono tutti: gli artisti che videro un brano dopo l’altro entrare in classifica e quelli che non conobbero che momenti di gloria passeggera, i turnisti di cui al tempo pochi conoscevano i nomi, e che in grandezza rivaleggiavano nondimeno con i cantanti che accompagnavano, e i produttori, i discografici, gli impresari. Mentre intorno l’America perde un’innocenza mai avuta senza rinunciare alle sue utopie. Imprescindibile. (Arcana, pp.354)

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.5, primavera 2002.

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Il Miles Davis spartiacque di “Nefertiti”

Miles Davis - Nefertiti

Volevo che la musica di questo nuovo quintetto fosse più libera, più modale, più africana o orientale e meno europea. Volevo anche che nel gruppo ciascuno superasse i suoi limiti… Se collochi un musicista in una situazione dove deve fare qualcosa di diverso dal solito lo costringi a usare l’immaginazione, a essere più creativo, più innovativo, a prendersi più rischi. Ho sempre detto ai miei collaboratori di suonare come sanno e poi andare oltre. Perché è allora che qualunque cosa può succedere, è in quel momento che può nascere della grande musica”: così Miles Davis a proposito del suo secondo quintetto classico – quello che schierava Wayne Shorter al sax tenore, Herbie Hancock al piano, Ron Carter al contrabbasso e Tony Williams alla batteria – ed è un discorso che vale per ciascuno dei sei LP pubblicati dalla formazione fra il 1965 e il 1968. Magari un po’ di più per i due (“Miles In The Sky” e “Filles de Kilimanjaro”) che andarono dietro a “Nefertiti” piuttosto che per i tre (“E.S.P.”, “Miles Smiles” e “Sorcerer”) che lo precedettero. E che è esemplificato magistralmente dalla traccia che a questo disco dà il titolo e che lo inaugura, quasi otto minuti spartiacque durante i quali tromba e sassofono suonano un tema senza mai variarlo, e quindi senza mai un assolo, mentre la batteria si produce in un’autentica sinfonia ritmica cui pianoforte e contrabbasso aggiungono, pur senza prodursi neanch’essi in veri e propri assoli, tutta una serie di piccole variazioni. Praticamente rovesciando uno degli schemi cardine del jazz, e insomma in procinto – questo il suo ultimo album interamente acustico – di rivoluzionarlo con una svolta elettrica tanto spericolata da risultare tuttora controversa, Miles cominciava/continuava a sovvertirlo quasi sottovoce.

Album che se per un verso – nel brano omonimo, in Fall – anticipa l’impressionismo di “In A Silent Way” per un altro – nel successivo e spumeggiante resto di programma – resta solidamente radicato nell’hard bop, “Nefertiti” costituisce uno snodo cruciale nella vicenda artistica del trombettista. Questa in doppio 45 giri della Original Master Recording azzarderei sia l’edizione meglio suonante di sempre: forte di un bilanciamento perfetto fra gli strumenti, di una nitidezza cristallina che consente di cogliere ogni infinitesimale dettaglio.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.364, giugno 2015.

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