Archivi del mese: ottobre 2015

Wilco – Star Wars (dBpm)

Wilco - Star Wars

Mentre scrivo mancano una decina di giorni all’uscita nei negozi del nono album degli Wilco, pubblicazione fissata per il 21 agosto, e ciò nonostante qualunque sito e diverse testate su carta già lo hanno recensito. Colpa della solita fregola ad arrivare primi che il Web ha reso endemica? Fatto è che non solo la stampa ma pure qualunque appassionato di una band fra le più cruciali degli ultimi vent’anni “Star Wars” lo ha ormai ascoltato e riascoltato, digerito, fors’anche dimenticato. Colpa dei soliti pirati che diffondono gratis l’opera di chiunque? Macché. I colpevoli di questa situazione sono… gli Wilco, che già nel 2011 avevano messo in streaming sul loro sito “The Whole Love”, prima di distribuirlo fisicamente, e stavolta sono andati oltre, offrendo “Star Wars” dal 16 luglio in download, sempre gratuito. Se commercialmente una simile strategia possa pagare, lo si vedrà a breve.

Per intanto si può annotare che un’uscita così dimessa toglie dalle spalle del disco aspettative forse eccessive dovute al successo della prima uscita da solista, lo scorso anno, del leader Jeff Tweedy. L’impressione è che a considerarlo un’operina di transizione sia per primo un gruppo riuscito nel tempo nel miracolo di gettare un ponte fra l’alt-country e il post-rock, coprendo più o meno tutto quanto stava nel mezzo. Parlano chiaro in tal senso già un minutaggio modesto e la breve traccia in apertura che suona come degli studenti alle prese con l’ABC dei Sonic Youth. Il che non toglie che gli Wilco restino gli Wilco e anche in una versione tanto dimessa riescano a piazzare qualche brano superbo. Ad esempio i Velvet campagnoli di The Joke Explained, la scintillante ballata Taste The Ceiling, una Cold Slope degna dei migliori T.Rex, o i Beatles in acido di Magnetized.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.367, settembre 2015.

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La stanza degli specchi di Jimi Hendrix

Charles R. Cross - La stanza degli specchi

Già autore di una biografia dell’altro grande artista (che stranezza: un mancino pure lui) grazie al quale Seattle figura sulle mappe del rock’n’roll, vale a dire Kurt Cobain, Charles R. Cross ha speso quattro anni (seconda coincidenza: quanto l’eroe di questo libro rimase da vivo sotto i riflettori) raccogliendo materiali su Jimi Hendrix per raccontarne in ogni più minuto risvolto “la vita, i sogni, gli incubi”. Lavoro certosino il suo, fatto di interviste a centinaia di persone che con il chitarrista più creativo che abbia mai abitato il panorama del rock divisero frazioni consistenti di una vita troppo breve, o anche solo l’attimo fuggente di un incontro casuale. Fatto di recupero di materiali giornalistici d’epoca. Fatto – presumibilmente – di esami al microscopio della marea di volumi scritti riguardo a Hendrix prima di questo e di pignoli confronti e mediazioni fra l’uno e l’altro e l’altro ancora, siccome la memoria è traditrice e non è detto che il ricordo di un testimone interrogato decenni fa sia uguale alla ricostruzione degli eventi che fa oggi. Tanto di cappello a Charles R. Cross e insieme un po’ di invidia per chi, potendosi rivolgere a un bacino di utenza immensamente più ampio del miserevole mercato editoriale nostrano, può permettersi di dedicare tanto tempo a un libro, sicuro che economicamente il gioco varrà la candela. La stanza degli specchi non si legge forse d’un fiato, a volte l’eccesso di dettagli se non arriva a far smarrire il filo perlomeno distrae, ma si fa leggere eccome. Ed è senz’altro da promuovere fatto salvo che, se è un’analisi musicologica che cercate, dovrete rivolgervi altrove. Qui c’è il romanzo – doloroso – della vita di un musicista immenso ma di musica in senso stretto si parla sorprendentemente poco.

Non si può invece promuovere – si usa ancora rimandare a settembre? non sono aggiornato – la traduzione. Che sarà pure al di sopra dell’ultradeficitaria media del settore ma paga (a parte l’uso, che andrebbe punito con la reclusione, della parola “decade” in luogo di “decennio”; a parte qualche battaglia perduta con i congiuntivi verso fondo corsa) l’essere stata affidata a un signore che di musica evidentemente sa ben poco. Che nell’arco di qualche centinaio di pagine riesce a non scrivere mai “rhythm” con tutte le “h” al posto giusto e crede che Shirelles sia un autore, non un gruppo, e – udite bene! – Kim Fowley (pag.266) una donna. (Kowalski, pp.466)

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.24, inverno 2007.

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Quei cattivi bravi ragazzi del Mucchio

Silvio Bernelli - I ragazzi del Mucchio

Volevamo essere tosti come i Killing Joke e romantici come i Joy Division. Prima però avremmo dovuto imparare a suonare ciascuno uno strumento. Il mio fu il basso elettrico”: comincia così, come una piccola epopea che si promette mediana fra Saranno famosi e Quasi famosi, il primo romanzo del trentottenne torinese Silvio Bernelli e si potrebbe pensare sia semplicemente l’ennesima storia di rock’n’roll, come tante ne sono state scritte, e preventivamente crucciarsi che uno che ha avuto un’adolescenza viceversa non come tante si rifugi per il debutto nella confortante banalità dell’autobiografia. E poi basta con queste cronache di reduci del punk tricolore (quante altre ne abbiamo lette) che cominciano a farci sembrare il Capanna uno che non vede l’ora che arrivi il futuro. Si potrebbe pensare. Ma già nelle primissime pagine qualche dubbio si insinua perché subito, prima ancora delle vicende narrate, conquistano la lingua, che è asciutta e lirica insieme, e il passo, sicuro e guarda un po’ sapientemente ritmato. Ti accorgi che è con uno scrittore vero che ti stai confrontando e che il suo è un esordio che di tale categoria ha i pregi, freschezza in primis, e nemmeno per una pagina, una frase, un rigo appena il peccato capitale che è la ridondanza. Vorresti cercargli un difetto, ma non ne trovi. E piano piano cresce la consapevolezza che I ragazzi del Mucchio è innanzitutto un esemplare bildungsroman e solo molto dopo la cronaca delle imprese di una ghenga di adolescenti che, partendo dalla periferia della periferia dell’Impero, scrissero i loro nomi nel libro mastro del punk.

Si chiamavano Declino, Negazione, Indigesti, erano a malapena maggiorenni e qualcuno no e inventandosi tutto cammin facendo tracciarono una via italiana all’hardcore che finì per renderli profeti nel paese che l’hardcore lo aveva inventato, gli Stati Uniti, e un po’ ovunque in Europa tranne naturalmente che da noi. Restano i loro dischi e non è poco. Restano i ricordi di quanti li seguirono, ammirandone intraprendenza e attitudine persino al di là del fatto che la musica piacesse o meno. E resta adesso un libro, che è giusto dire romanzo perché la sapienza del montaggio gli fa trascendere la natura diaristica, che con partecipazione fra l’ironico e il commosso narra magnificamente le loro avventure spesso picaresche: le prove, i concerti, i sogni e gli amori. I fallimenti e l’orgoglio. Un libro capace in certe sue pagine di lasciarti senza fiato, come succede di fronte alle rivelazioni: “La primavera del 1983 fu… uno di quei momenti in cui tutto succede in fretta. Quando ogni giorno è pieno e nuovo. Quando senti che il mondo ti ruota intorno”. (Sironi Editore, pp. 204)

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.11, autunno 2003.

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Titus Andronicus – The Most Lamentable Tragedy (Merge)

Titus Andronicus - The Most Lamentable Tragedy

Per quanto il tuo background sia punk, è chiaro che se come nome del tuo gruppo scegli il titolo di una tragedia di Shakespeare, 1), proprio incolto non sei e, 2), ci tieni che si sappia. Unico punto fisso di una formazione che è oggi schierata a sei (ma per le sue fila è transitata negli anni un’altra quindicina di musicisti), il cantante e chitarrista Patrick Stickles fondava i Titus Andronicus a Glen Rock, New Jersey, nel 2005. Dopo un EP e alcuni singoli di riscaldamento, il debutto in lungo “The Airing Of Grievances” vedeva la luce nel 2008. Una canzone citava Cormac McCarthy, un’altra Brueghel, una terza si intitola Albert Camus. Più modestamente i critici chiamavano in causa Pixies e Springsteen, Replacements, Arcade Fire e Bright Eyes, influenze eterogenee ma comunque roba buona, buonissima. Era all’altezza di un successivo di due anni “The Monitor”, fra l’altro già un concept (sulla guerra civile americana), che si poteva cominciare a preoccuparsi, quando qualcuno tirava in ballo Meat Loaf e non a sproposito. Nel 2012 “Local Business” vedrà l’apprezzabile ritorno a un rock più diretto, relativamente asciutto, ma è pur sempre l’album di un brano intitolato My Eating Disorder sopra gli otto minuti e di un altro, chiamato Tried To Quit Smoking, che sfiora i dieci.

Avrete inteso: Stickles è un libro aperto. Esagera un tantinello in “The Most Lamentable Tragedy”, autentica rock-opera in cinque atti (!) e quasi cento minuti con come argomento la discesa di un uomo, nel quale è individuabile l’autore stesso, negli inferi della malattia mentale. Noi non di madre lingua possiamo non badare ai testi e goderci gli occasionali momenti di brillantezza in un contesto troppo carico. Leggo di un nuovo “Zen Arcade”, ma a me pare un “Tommy” minore.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.367, settembre 2015.

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So You Want To Be A Rock’n’Roll Star: in lode del giovane Tom Petty

Mai capito cosa ci sia di tanto figo nel fare dischi che poi ascoltano in quattro”: così, in un’intervista concessa a Dave Marsh, Tom Petty replicava a chi lo accusava di avere tradito la new wave per il mainstream. Trentacinque anni e oltre sessanta milioni di dischi venduti dopo, nessuno lo ha per fortuna ancora convinto del contrario.

Tom Petty & The Heartbreakers 1977

Ad aspettare qualche ulteriore mese a farla uscire, la “Live Anthology”, c’era il rischio che in tanti notassero la prossimità (cadrà il 20 ottobre) a un compleanno… importante per il rocker della Florida. Chi avrebbe allora potuto resistere alla tentazione di scrivere dei “favolosi anni sessanta” di Tom Petty? Intesi non come il decennio dei Beatles e della psichedelia. E d’accordo che nella Rock’n’Roll Hall Of Fame già lo hanno accolto da un pezzo, e che in ogni caso un cofanetto quadruplo o sestuplo o settuplo (tre le versioni disponibili) è un riepilogo di carriera con tutta l’aria della definitività, ma il nostro uomo ad andare in pensione non ci pensa proprio. Il prossimo album con gli Heartbreakers sarà una raccolta di blues inteso un po’ come lo intendevano gli Allman Brothers, ha già annunciato, e pare scommessa sicura che manterrà immacolata una discografia di rara consistenza, senza magari un capolavoro a sormontarla ma anche senza una caduta vera che in qualche punto la affossi. Petty è una garanzia: malissimo che vada, in un suo album una o due canzoni memorabili e altre tre o quattro comunque carine le troverai sempre. Dal 1976.

In “Tom Petty & The Heartbreakers” di indimenticabili se ne contano ben più di due (cinque? che fa metà programma), ma curiosamente le due più indimenticabili di tutte sono sistemate a fondo corsa ed è come se “Born To Run” si chiudesse con Thunder Road e la traccia omonima. Per certo a congedarsi con il romanticismo sospeso di una Luna eminentemente tastieristica, cui va dietro una American Girl che sono i Byrds apocrifi più sfrenatamente rock di sempre, non solo si lascia un ricordo fantastico ma si suggerisce che la cosa migliore da fare sarebbe girare di nuovo il disco e cominciare da capo. Dalle sincopi tambureggianti di Rockin’ Around (With You), che non preparano minimamente ai languori e all’epicità di Breakdown, così come dopo di quella non ti attenderesti un Hometown Blues infiltrato di beat. Dice bene il titolo del brano che sigilla il primo lato: in questo disco c’è Anything That’s Rock’n’Roll. Lo prometteva del resto già un davanti di copertina impossibilmente tarro e stiloso insieme, una Gibson Flying V a trafiggere il cuore nel logo del gruppo e sotto il capobanda, faccia da schiaffi, giubbotto di pelle e cartuccera. Quasi più Lemmy (che i Motörhead li stava ancora tramando) che uno dei Ramones. A non ascoltarlo o ad ascoltarlo distrattamente quel loro primo album, pubblicato nel novembre ’76 ma senza che nessuno se ne accorgesse fino a diversi mesi dopo, ci stava che gli Heartbreakers venissero scambiati per una punk band. In Italia il disco usciva addirittura con tanto di lametta in copertina e l’equivoco era subito servito. Se concisione delle canzoni, asciuttezza della scrittura, amore per il sixties-garage li accomunavano, per dire, ai Clash, sarebbe stato presto evidente che i ragazzi di Gainesville erano decisamente più prossimi a un Bob Seger o al limite a un Bruce Springsteen. Altro che California modello Eagles da spazzar via! Gli Eagles erano semmai eroi da emulare e fra l’altro – due di loro – eroi conosciuti da vicinissimo, concittadini: un Tom imberbe aveva preso lezioni di chitarra da Don Felder e del suo primo gruppo serio, i Mudcrutch, aveva fatto parte Tom Leadon, fratello minore di Bernie. Molto più avanti, il chitarrista solista Mike Campbell e il batterista Stan Lynch si ritroveranno a collaborare (proficuamente da ogni punto di vista) con Don Henley e sarà una chiusura di cerchio. Il leader aveva a quel punto già fatto comunella con Stevie Nicks, senza che più alcuno si scandalizzasse. Ce l’aveva scritto nel destino e probabilmente nel DNA Tom Petty il suo futuro di classic rocker. Fulminato a cinque anni da Rock Around The Clock e tuttora quando lo racconta traspare un’emozione vivissima. Rifulminato a undici dall’incontro con Elvis Presley sul set di Follow That Dream e definitivamente deciso a seguirlo, quel sogno, quando a tredici vedeva i Beatles prima all’“Ed Sullivan Show” e poi al cinema, in A Hard Day’s Night. Circostanze avverse e una bella testa dura – da redneck nell’accezione buona del termine, per quanto sia possibile dargliene una – faranno sì che debba arrivare a compierne ventisei prima di coronarlo. Non per questo dopo si adatterà mai a un compromesso: rifiutando ad esempio di farsi spostare come un pezzo di mobilio quando la piccola etichetta, la Shelter, che aveva pubblicato i primi due LP veniva assorbita dalla MCA e andando, un album dopo, di nuovo a uno scontro durissimo con una casa discografica che voleva lucrare un dollaro di troppo sul prezzo di vendita.

Storia complessa, e rimarchevolmente avventurosa per gente che a certi eccessi non ha mai ceduto, quella degli Spezzacuori (vi devo ancora nomi e qualifiche di due di loro: Ron Blair il bassista, Benmont Tench il cruciale tastierista): impossibile a riassumersi in due pagine e meritevole di una trattazione ben più estesa, quella che permette la testata trimestrale propaggine di questo mensile e sì, prendetela pure come una promessa. Qui lo spazio è quello bastante a ingolosire il lettore più giovane e indurre il più navigato a ritirare fuori dagli scaffali i lavori che scandirono le prime tappe di un’epopea. Riascoltarlo dopo tanti anni mi ha confortato nell’idea che “You’re Gonna Get It!” (1978) sia il fratellino meno brillante dell’esordio, ma rinunciaci tu al virile struggersi di Magnolia e agli scondinzolamenti rock’n’roll di Too Much Ain’t Enough, a una No Second Thoughts profumata di psichedelia e a una I Need To Know che dovette fare verdi d’invidia i Cheap Trick. Laddove “Damn The Torpedoes” (1979) fu l’album dove le promesse venivano mantenute e si diventava grandi in tutti i sensi: numero due (resterà il piazzamento più alto) e doppio platino negli USA e una scaletta – fra l’epica sudista di Refugee (la Free Bird della mia generazione) e la ballatona alla Little Feat Louisiana Rain – ai limiti della perfezione. Mai più Tom e sodali sfioreranno così da vicino il capolavoro. Ribadito un eclettismo che fa passare in scioltezza, caso da paradigma, dalla seduzione carezzevole di You Tell Me al Jerry Lee Lewis aggiornato di What Are You Doin’ In My Life, la Rickenbacker sfoggiata in copertina sa tanto di rivendicazione e dichiarazione di intenti: sì, sono io l’erede di Roger McGuinn e sono qui per servirvi. In apertura di “Hard Promises” (1981) The Waiting sarà la conferma più clamorosa e sublime che ci si potesse attendere. Però A Woman In Love (It’s Not Me) la si sarebbe potuta ascoltare dai Cars. Però Nightwatchman azzarda il funk. Però Insider sfida i Fleetwood Mac sul loro terreno e per farlo – sfacciata! – convoca Stevie Nicks. Disco niente male, ma per i secondi due album della banda Petty pare ripetersi lo schema dei primi due: un’opera gradevole ma non trascendentale e con qualche riempitivo a seguire, facendosene ispirare, una di superiore caratura.

Fece una pessima impressione al tempo che “Long After Dark” (1982) proseguisse sulla china discendente, ammiccando senza troppo sugo e regalando giusto quei due brani di incisività suprema, il singolo You Got Lucky (nuovamente Ocasek dietro l’angolo) e una A Wasted Life in ritardo su Roy Orbison o in anticipo su Chris Isaak, fate voi. Parve un inizio di decadenza e non sembrò un buon segno che “Southern Accents”, intervallo a quel punto inaudito, si facesse attendere tre anni. Controverso (ma anche vendutissimo) all’uscita, ha finito per invecchiare bene, forte soprattutto di una prima metà di programma spiazzante e calibratissima, con una seconda Refugee chiamata Rebels ad aprire e a tallonarla una It Ain’t Nothin’ To Me sull’orlo della funkadelia, l’irresistibile acid-pop di Don’t Come Around Here No More e una title track dolente che lacrima archi.

Classic rocker dentro, Petty pensa bene di suggellare il primo decennio di discografia con la più tipica delle celebrazioni: il doppio live. Ma siccome è pure discretamente iconoclasta, lungi dal costringere “Pack Up The Plantation” nei limiti della collezione di successi regala oltre un terzo di scaletta a brani altrui che per lui hanno significato molto. La dice lunghissima il titolo di quello delegato ad aprire le danze: So You Want To Be A Rock’n’Roll Star.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.667, febbraio 2010. Tom Petty compie oggi sessantacinque anni.

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Rocking Chairs: fra la Via Emilia e Asbury Park

Graziano Romani ha appena pubblicato un doppio “Vivo/Live”. Quale occasione migliore per riprendere un vecchio articolo in cui scrivevo di un altro doppio? Antologico, quello.

Rocking Chairs

Abissale la distanza fra il “c’è solo Bruce” dei sanguigni esordi e il C’è solo l’Inter odierno, da qualche mese inno ufficiale del club meneghino: eppure è questo il percorso compiuto in tre lustri da Graziano Romani, che fu lider maximo degli emiliani Rocking Chairs, la più plausibile E Street Band apocrifa che mai abbia corso sulle autostrade italiane e anzi europee, così diverse da quelle che traversano il New Jersey. Né minore appare, al di là dell’assonanza, la distanza fra Elliott Murphy – che di quelle bellissime, artigianali Sedie a Dondolo con vista sull’America fu appassionato sponsor – ed Elio che, in libera uscita dalle Storie Tese, con il Romani ha posto mano alla succitata calcistica canzonetta. I tempi cambiano. A ricordarlo provvede l’adesivo, un po’ surreale per chi dei Rocking Chairs conservava memoria, appiccicato alla copertina di “Sparks Of Passion”, doppio CD antologico (un dischetto con il meglio, un altro di rarità) da poco nei negozi che ha provveduto a tirare le somme di una vicenda consumatasi lontano dai giri che contano: “Contiene il brano I Will Be There Tonight sigla dello spot Lines”. E l’avrebbe mai pensato il buon Graziano quando cominciò, nei primi ’80, a battere la provincia con i suoi sodali, suonando pezzi “di Chuck Berry ed Elvis e qualche errebì”, che una sua canzone sarebbe passata in TV a ogni santa ora del giorno e della notte? Detto con molto affetto: va bene così. È cosa buona e giusta che possa infine un minimo monetizzare un talento che avrebbe meritato assai più di quanto raccolto finora. E quanto alla fede neroazzurra, ebbene, nessuno è perfetto.

Primi anni ’80, allora. I Rocking Chairs nascono a Scandiano, provincia di Reggio Emilia, e impiegano qualche tempo a stabilizzarsi e a decidere cosa vogliono fare da grandi. Sono decisivi gli arrivi nel 1984 del chitarrista Mel Previte e del sassofonista Max “Grizzly” Marmiroli e, altrettanto e di più, che Romani cominci a scrivere le sue prime cose, vignette fra l’epico e il romantico disegnate prendendo a modelli Tom Petty, John Mellencamp e più che altro lo Springsteen compreso fra “Born To Run” e “The River”. Siccome l’inclinazione naturale c’è, e del blue collar rock ha studiato non solo i maestri contemporanei ma le origini (la Sun e la Stax, Elvis e Otis, il Bob Dylan maggiore e tanti minori e Van The Man), ne vengono fuori canzoni solide e poetiche, che sognano l’altra sponda dell’Atlantico ma tematicamente hanno i piedi ben saldi su questa (come certi distratti detrattori mancheranno di notare). La ritmica è solida, di rollingstoniana possenza, e assicurata da Antonio Righetti al basso e Robby Pellati alla batteria. Completa l’organico Franco Borghi, che è come dire Professor Roy Bittan e Danny Federici in una persona sola, e come da lezione dell’uomo di Asbury Park sono i concerti a cementare un’intesa e una verve da pochi. Si arriva al 1987 ed è finalmente tempo di esordio discografico. Autoprodotto, “New Egypt” trova una sorprendente distribuzione EMI (probabilmente suggerita da una bossmania che a tre anni da “Born In The U.S.A.” non accenna a scemare) e raccoglie consensi in special modo su queste pagine. Spesi per esso superlativi e non me ne sono mai pentito. Mi dispiace semmai che “Sparks Of Passion” abbia estratto da lì appena quattro episodi e uno in versione live, tralasciando gemme come la drammatica On The Edge Of War e la struggente Valerie. Ma chi si sintonizzerà adesso potrà comunque godersi una title-track che nei tour di “Born To Run” o di “Darkness On The Edge Of Town” avrebbe fatto la sua porca figura, il Mellencamp con gli Heartbreakers di Lost Freeway, il sentimentalismo soul di Down On Lovers’ Lane e l’inno Old Rocker Busted.

Faranno anche meglio i nostri eroi due anni dopo con “Freedom Rain”. Da lì, innanzitutto, una delle più riuscite cover degli Stones mai approntate da chiunque e ovunque, una Wild Horses trapunta di fisarmonica e nobilitata dall’ormai amico Elliott Murphy. E poi la canzone omonima, cavalcata di trattenuta e proprio per questo invincibile epicità, il rhythm’n’blues bianco di Empty Rooms, i Byrds negri di Nobody Loves You. E una lettura dal vivo di Sparks Of Passion, una Jungleland di noi altri da stringersi al cuore. Poi qualcosa inizia a smarrirsi e tanto per cominciare Previte, Marmiroli e Borghi, che lasciano e sono defezioni che trasformano i Chairs da gruppo autentico ad alias di un leader che convoca i musicisti che pensa più adatti alla bisogna. Non è la stessa cosa. Registrato nel 1990 fra l’Emilia e New York, con Murphy in cabina di regia e fior di ospiti, da Willie Nile (che canta nella sua Vagabond Moon) a Chris Spedding, da Robert Gordon a Bobby Bandiera, “No Sad Goodbyes” offre ognimmodo momenti alti nel brano che lo battezza con ritmica ticchettante e chitarre sinuose, nell’esuberante Streetwise, nel soffuso romanticismo di quella I Will Be There Tonight che sapete. Passa ancora un anno e “Hate And Love Revisited” è congedo un po’ di maniera con però in scaletta una canzone superba, Nobody Knows: che è Bruce nella sua migliore imitazione di Otis Redding.

Presente in “Sparks Of Passion” con trentacinque compagne e fra esse letture eccellenti di Tom Waits (Downtown Train), John Hiatt (Is Anybody There?), Van Morrison (Crazy Love e Caravan), Buddy Holly via Rolling Stones (Not Fade Away) e un’emozionante Follow That Dream: che è Bruce che omaggia Elvis mentre fa il verso a Dylan. Spiace dovere appuntare che questi materiali avrebbero meritato una confezione all’altezza e invece un italianissimo dilettantismo regna. Ci sono refusi in abbondanza e l’inglese della presentazione è a tratti imbarazzante. Che è la prima cosa che noteranno all’estero.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.514, 17 dicembre 2002.

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Quel gran bastardo di Charles Mingus

Charles Mingus - Peggio di un bastardo

Romanzata? Certamente. Sebbene non quanto La signora canta il blues di Billie Holiday che è più, per dirla con il Bertoncelli, una storia leggendaria che un’autobiografia. Nondimeno chi di questo immane contrabbassista e compositore voglia conoscere vita (tribolata), morte (prematura) e miracoli (tanti, in forma di capolavori senza i quali la storia del jazz – della musica tutta del XX secolo – sarebbe stata diversa e assai più povera) farà bene a rivolgersi altrove: a Mingus: A Critical Biography di Brian Priestley o al più recente Myself When I Am Real: The Life And Music Of Charles Mingus di Gene Santoro. Ma se volete comprendere Mingus nella sua essenza più intima, Peggio di un bastardo è fondamentale quanto l’ascolto dei dischi. Formidabile autoritratto che tanto più distorce e interpreta tanto più è rivelatore, tanto più mente tanto più è vero, carne e sangue di un’esistenza tumultuosa, un carattere difficile, un uomo aspro e dolcissimo. Racconto di sé al proprio psicanalista come il Lamento di Portnoy di Roth e a tratti esilarante come quello. Più sovente drammatico.

Si parla poco di musica in senso stretto, in realtà, in Peggio di un bastardo, che è innanzitutto narrazione di come si cresce in un ghetto se si è minoranza in una minoranza e anzi praticamente un esemplare unico, mezzo nero e mezzo giallo ma pure un poco pellerossa e un poco bianco, paradigma del crogiuolo etnico d’America e per questo emarginato fra gli emarginati. Vieni su con dentro ferite terribili e domande ossessive riguardo alla tua identità e la necessità di mostrarti più forte degli altri per guadagnarne il rispetto. Forma mentis che permane anche quando lasci il ghetto, perché è il ghetto a non lasciarti mai se sei peggio di un bastardo. E allora, o ti rassegni e chini il capo, o la tua ribellione può assumere forme plateali. Così fu con il Nostro, la cui irascibilità terrorizzò per decenni musicisti, discografici, organizzatori di concerti, critici, ma la cui generosità era ugualmente nota. Perché Mingus, come lui stesso dice nella prima e più rivelatoria riga di un racconto che si divora d’un fiato e sul quale non ci si stanca mai di tornare, era tre persone in una.

Anche questo libro è tre in uno: un percorso di conquista della consapevolezza di sé alla Malcolm X, una picaresca epopea mediana fra il beat e Iceberg Slim, un dietro le quinte del mondo del jazz. Il congedo, un dialogo filosofico fra Mingus e Fats Navarro su Dio e l’Universo, regala alcune delle pagine più memorabili della letteratura del nostro o di qualunque altro tempo. (Marcos Y Marcos, pp.316)

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.2, estate 2001. Ristampato da Dalai nel 2005, Peggio di un bastardo è da poche settimane tornato nelle librerie in una nuova traduzione, rivista e corretta, su Big Sur. La copertina riprodotta è quella di quest’ultima riedizione.

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Jill Scott – Woman (Blues Babe/Atlantic)

Jill Scott - Woman

Proseguisse più o meno sulla falsariga della prima e bellissima traccia, Wild Cookie, il titolo per la recensione di questo quinto album in studio della giunonica artista di Philadelphia sarebbe stato bell’e che pronto: Jill Scott Heron. Clamorosa difatti la vicinanza del pigro rap in questione al compianto autore, fra il resto, di The Bottle e The Revolution Will Not Be Televised. Scartato un ovvio Philly Sound, giacché la signora ama misurarsi anche con quel tipo di suoni e colori ma sono comunque, in un’ampissima paletta stilistica, decisamente minoritari, è in ogni caso sempre la titolare del disco a suggerire il titolo perfetto: Blues Babe, come l’etichetta personale che gestisce con senso degli affari pari alle capacità di autrice e interprete (e dunque rimarchevole) e che a partire da questo disco la vede entrare in orbita Atlantic, lasciando la precedente distribuzione Warner. Non ne saranno stati contenti: nel momento in cui scrivo “Woman” capeggia la classifica di “Billboard”, replicando l’exploit del precedente (del 2011) “The Light Of The Sun”.

Di blues in senso stretto nelle sedici canzoni che vi sfilano in poco meno di cinquantotto minuti non ce n’è in realtà tantissimo: giusto un profumo, una scansione nel soul sudista da manuale (roba da Otis o da Aretha al top) di You Don’t Know, che dobbiamo alla santa penna di Jerry Ragovoy ed è l’unica cover in programma. Ma “ragazza blues” racconta e riassume lo stesso una cantante favolosa, capace di essere a suo modo pure moderna, modernissima nel suo riciclare un buon mezzo secolo di black sciorinando con pari gusto e classe ballate sospese ed errebì dirompenti. Magari misurandosi anche, visto che c’è, con il downtempo di Say Thank You o con un piccolo incantesimo psichedelico chiamato Jahraymecofasola.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.367, settembre 2015.

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Audio Review n.368

Audio Review 368

È in edicola il numero 368 di “Audio Review”. Include mie recensioni degli ultimi album di  Battles, Beirut, Dâm Funk, Dr. Dre, Dungen, Eleventh Dream Day, Flying Saucer Attack, Ben Folds, Langhorne Slim & The Law, John Mayall, Pretty Things, Prince, Sea + Air e Nicole Willis & The Soul Investigators e di una recente ristampa di Bob Mould.  Nella rubrica del vinile mi sono occupato di John Lennon, Rush e Spain.

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La vita bruciata di quel gran manico di Tommy Bolin

Tommy Bolin - Teaser 40th Anniversary Vinyl Edition Box Set

Sarebbe tanto piaciuto a Tommy Bolin di iscriversi al famigerato “club dei ventisette”, la conventicola di rockstar e non solo (citofonare Robert Johnson; poi Amy Winehouse) non arrivate a festeggiare il ventottesimo compleanno. Lui riusciva a malapena a spegnere la venticinquesima di candelina prima di spegnersi a sua volta. Lo seppelliranno con a un dito un anello che portava Jimi Hendrix il giorno della morte e mai passaggio di consegne fu insieme più giustificato e macabro. Due anni e mezzo in più su questa terra sarebbero stati una benedizione per lui, che probabilmente ce l’avrebbe fatta a pubblicare in vita quattro album come l’uomo di Seattle e non due, e di conseguenza per noi. E gira la testa al pensiero ucronico di un Bolin che miracolosamente sopravvive al cocktail di eroina, cocaina, alcol e barbiturici che ce lo portava via nella notte fra il 3 e il 4 dicembre 1976 e, messa la testa a posto per lo spavento preso, invecchia. Oggi avrebbe sessantaquattro anni e forse – il potenziale c’era – sarebbe popolarissimo e ricchissimo, come un altro Carlos Santana. Oppure no, ancora un culto di cui collezionare, oltre ai dischi in proprio, le partecipazioni a fatiche altrui illuminate d’immenso dal suo tocco. Due cose sono certe. La prima: non avrebbe subito l’oltraggio di venire ricordato dai più soltanto come “quello che sostituì Ritchie Blackmore nei Deep Purple” (ma anche no, se si pensa che c’è gente per la quale Sonny Rollins è “quello che ha suonato il sassofono con i Rolling Stones”). La seconda: gli sarebbe e ci sarebbe stato risparmiato lo scandaloso profluvio di uscite postume (pure questo lo accomuna a Hendrix; perlomeno all’Hendrix saccheggiato senza ritegno fino al ’97 e a un finalmente rispettoso e filologico “First Rays Of The New Rising Sun”) che è arrivato a contare a oggi, e considerando solo le pubblicazioni con qualche crisma di legalità, dodici live e quindici antologie di varia natura. Di tutto il Tommy Bolin post mortem il cofanetto fresco di stampa per UDR/Warner (ma in Italia lo distribuisce la Audioglobe) che celebra il quarantesimo anniversario dell’uscita di “Teaser” con tre 33 giri di incisioni in studio e un doppio CD con una scelta di registrazioni dal vivo è di grandissima lunga “il” titolo da avere per il cultore. Non è necessario essere di stretta osservanza, basta che che in casa abbiate già il “Teaser” originale e “Private Eyes”. Nondimeno pure questo box presenta aspetti discutibili e non sto riferendomi a una grafica di rara bruttezza o a un libretto in cui si parla approfonditamente della sua lavorazione ma non si dice nulla, se non incidentalmente, né sul moltissimo che l’autore aveva in curriculum né su quanto riuscirà ancora a combinare nel poco tempo rimastogli. Provo a provvedere io, per quanto a grandi linee.

Discendenza dai nativi americani resa evidente dai lineamenti, Thomas Richard Bolin nasce a Sioux City, Iowa, il 1° agosto 1951 e comincia a suonare sì e no adolescente in complessi locali che non troveranno uno sbocco discografico. La prima svolta si ha quando, diciassettenne, si trasferisce a Boulder, Colorado, e si unisce agli Zephyr. Caratterizzata più ancora che dal già evidente estro chitarristico del nostro eroe dalla voce smaccatamente jopliniana di Candy Givens, la band arriverà a pubblicare due interessanti ma ineguali LP su major (il primo e omonimo su Probe, una succursale della ABC, nel 1969; “Going Back To Colorado” su Warner nel ’71) prima di sciogliersi. Conclusasi quella prima avventura insieme eccitante (si è ritrovato a dividere palchi con il fior fiore del rock anglo-americano dell’epoca) e frustrante, il giovanotto fonda un gruppo jazz-rock, gli Energy, che in vita non darà alle stampe alcunché. L’anno dopo, il 1973, suona da mattatore nel classicone fusion di Billy Cobham “Spectrum” e ad ascoltarlo non ci si crede che quando partecipa in maggio alle sedute di registrazione sia già da qualche mese il sostituto di Domenic Troiano (che a sua volta aveva rimpiazzato il fondatore, e futuro Eagles, Joe Walsh) negli hard-rocckettari James Gang. Andrà più volte in tour e inciderà un paio di album con costoro prima di tornare ad agire per qualche tempo da turnista imprimendo il suo sigillo, fra il resto, su un altro dei capisaldi di una fusion non ancora ridotta a stereotipo, “Mind Transplant” di Alphonse Mouzon. Ci avete fatto caso? Un altro batterista e vorrà dire qualcosa. Magari che il talento mercuriale di uno strumentista dalle molteplici passioni e dalle propensione a centrifugarle tutte assieme rendeva al meglio quando ancorato a una ritmica solida. Oppure a una forma-canzone capace di contenerne l’innata propensione alla jam nell’orizzonte dei tre, quattro, massimo cinque minuti, conservando giocoforza solo le idee migliori.

È esattamente questa la grande forza del “Teaser” originale, pubblicato dalla Nemperor nel novembre ’75, così come dell’appena meno brillante “Private Eyes”, edito nel settembre dell’anno dopo dalla Columbia (Bolin non potrà portare in tour il primo, lavoro dal potenziale commerciale elevatissimo e rimasto così inespresso, perché nel frattempo unitosi ai Deep Purple del controverso ma da rivalutare “Come Taste The Band”; e il tour che promuoveva il secondo abortirà per la ragione che sapete): che ne contiene l’eclettismo in nove brani concisi e perfettamente rifiniti. Che li sistema nella migliore sequenza possibile. Si passa dal rock energico e insieme sexy alla Rolling Stones di The Grind agli Aerosmith ostaggi del funk di Homeward Strut e a quelli vanno dietro la ballatona con attacco pianistico Dreamer, quel capolavoro di flamenco “in jazz” che è Savannah Woman e l’hendrixiana traccia omonima. Fine della prima facciata. La seconda allinea i Led Zeppelin arresisi al soul di People People, la fusion muscolarissima di Marching Powder, la ballata elettrica Wild Dogs e l’hard psichedelico Lotus. Ecco, pur dando per scontato che chi comprerà questo “40th Anniversary Vinyl Edition Box Set” (prezzo sui sessanta euro) il “Teaser” d’epoca lo abbia, io per rispetto alla pietra miliare che è avrei aggiunto un 33 giri con il programma originale (incredibile ma vero: diverse delle versioni familiari qui mancano). Avrei collocato su un secondo e nel medesimo ordine le take alternative (tutte più lunghe, sovente parecchio) e quindi sistemato sulle quattro facciate necessarie per il resto le jam strumentali. Che sono spesso e volentieri intriganti (magico il momento in cui in Flying Fingers si insinua una citazione di Cucumber Slumber dei Weather Report) e tuttavia, accatastate così alla rinfusa, non rendono un buon servizio a un artista che fu immenso. Ma io non sono un discografico.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.365, luglio 2015.

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