Frega la copertina: il davanti, in cui entrambi i chitarristi appaiono biancovestiti, uno in camicia e gilet e l’altro con una giacca indossata sopra una polo, e ancora di più il retro, dove cambiano gli abiti ma non il monocromatismo e al centro la sorridente macchia rosso arancione del guru Sri Chinmoy sporge braccia benedicenti sulle spalle dei due. Frega, naturalmente, anche il titolo ed è per questo che tutti quelli che non hanno mai ascoltato quest’album, registrato fra l’ottobre ’72 e il marzo ’73 e pubblicato (in origine su Columbia) nel luglio successivo, credono invariabilmente che si tratti di new age ante litteram: e se la new age la schifano, lo scansano; se viceversa la apprezzano, provando a sentirlo ne restano sconcertati e lo rigettano. Sono persuaso che la micidiale combinazione fra grafica e titolo sia in grado persino di deformarne la percezione nel ricordo fra molti di quanti invece lo conoscono ma da lungi non lo frequentano. Per quel che può valere, io ne sono un esempio. Credo di avere ascoltato per la prima volta “Love Devotion Surrender” a casa di un amico a metà ’80 e poi di averlo tirato fuori da quegli stessi scaffali, per fargli fare un altro giro, sei o sette anni dopo, in un periodo in cui ero particolarmente intrippato per certo jazz elettrico. Mi piacque di più la seconda volta, ma comunque non abbastanza da mettermelo in casa e dire che almeno con McLaughlin ho sempre avuto un ottimo rapporto. Mi parve un esercizio di stile elegante ma freddo, un po’ oleografico e un po’ estenuato. Tutt’altra impressione mi ha fatto tornare a gustarlo in questa splendida riedizione per audiofili che ne esalta un sound che ho (ri)scoperto insieme e invece e per lunghissimi tratti acuminato e rovente, fumigante. Che si può definire fusion solo per convenzione, in quanto incontro fra jazz e rock, ma che con il 99,99% di quanto è stato così etichettato e che rarissimamente è andato oltre la bella calligrafia nulla ha a che vedere. Ma cosa avevo ascoltato e con che testa, le prime volte? “Love Devotion Surrender” mi è parso assolutamente nuovo, inedito e inaudito. Modernissimo.
Ha proprio ragione Thom Jurek: è che a sentirlo dopo i Sonic Youth, e con il paio di orecchie nuove forniteci dal post-rock, fa tutto un altro effetto rispetto a quello che dovette fare all’epoca e che gli garantì una critica non proprio benevola e l’esecrazione della quasi totalità dei fan di Carlos Santana – laddove, più allenati a certe spericolatezze, quelli di McLaughlin apprezzavano maggiormente. E ha di nuovo ragione sia nel definire questa collaborazione, tanto estemporanea quanto ispiratissima, la logica e ultima evoluzione “in rock” delle lezioni di John Coltrane e Miles Davis che quando individua nel lavoro dell’organista Larry Young il filo che tiene insieme la trama delle infuocate jam A Love Supreme e The Life Divine. Il chitarrista ispano-americano una sorgente inesauribile di melodie ficcanti, quello inglese a mitragliare riff al pari instancabilmente. Offrono requie una Naima (di nuovo Coltrane) acustica e gentile e un’aggraziata Meditation, mentre Let Us Go Into The House Of The Lord precipita a sua volta, spiraliforme dopo un’introduzione a passo lento, in un duettare/duellare di assoli appoggiati a percussioni latineggianti, con Young protagonista almeno quanto i due titolari del disco. Trascendentale, ecco.
Può darsi che di nuovo la memoria mi inganni, ma mi sembra di ricordare che la stampa d’epoca o forse di qualche tempo successiva (per essere un’opera tanto bistrattata “Love Devotion Surrender” non è curiosamente praticamente mai mancata dai cataloghi) suonasse un filo attufata, e monolitica. Tutt’altra cosa questa approntata dalla sempre impeccabile Speakers’ Corner, immagine stereofonica profonda e dettagliatissima e un’esplosione abbacinante di colori. Altro che il bianco delle improbabili e piuttosto imbarazzanti mise di cui sopra!
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.367, settembre 2015.
Ciao, trovato ieri sul banco di un mercatino, 10 eurini per un disco praticamente quasi nuovo, prima stampa gatefold. Anche a me a inizio anni 80 non aveva detto nulla o quasi, ma riascoltato ora è decisamente un’altra cosa, sicuramente dovuta al fatto che al primo ascolto non ero semplicemente in grado di apprezzarlo per mancanza di backgroud e conoscenza. E alla fine mi sono persino accorto di avere in casa una buona decina di dischi di santana, che è ben lungi da essere un favorito….