Che proprio oggi celebra un compleanno importante, il settantesimo.
Tranquille ai limiti del banale l’infanzia e l’adolescenza trascorse dal nostro eroe nel natìo Arkansas, fra l’altro armonizzando gospel nei Greene (la “e” non è ancora caduta) Brothers: fino al fatidico giorno in cui il padre, battista di fede integerrima, lo sorprende ad ascoltare Jackie Wilson e gli promette pianto e stridor di denti se non ripudierà il Grande Satana della musica secolare. Il giovane Al non si sottomette e preferisce cambiare casa e stato. Nel 1964 lo troviamo, diciottenne, nel Michigan, ove dà vita ai Creations e con loro si esibisce in locali di infimo ordine. Dopo un po’ i compari, visto che nessuna casa discografica si fa avanti per ingaggiarli, fanno di necessità virtù e ne fondano una loro. Per i tipi della lillipuziana Hot Line Music Journal, i ribattezzati Al Greene & The Soul Mates pubblicano nel 1967, sull’onda del discreto successo del singolo Back Up Train, un 33 giri che da quella canzone prende il titolo ma che non ottiene, anche per problemi di distribuzione, un accettabile risultato commerciale. Parrebbe che la carriera del giovanotto, nonostante una sequela di concerti fra i quali pure uno, prestigioso, all’Apollo Theater di Harlem, sia già al capolinea, ma non è così. Accade che lo sente cantare Willie Mitchell e ne resta a tal punto impressionato che lo porta seco a Memphis e gli presta sulla fiducia un paio di migliaia di dollari per consentirgli di liberarsi da altri impegni. Greene va e, con qualche settimana di ritardo, torna. Uomo dai molteplici talenti (trombettista, compositore, arrangiatore, produttore, discografico), Mitchell è capoccia dell’etichetta che prenderà il posto della Stax sulla mappa del soul sudista. Si chiama Hi Records e ha anch’essa un suono immediatamente identificabile, armonioso coesistere di languide orchestrazioni a base di ottoni e soprattutto di archi con l’elastica possenza di un basso e una batteria ferocemente funk. A contorno: organi grassi e una chitarra saporosa di blues. Sopra: voci peculiari, come quelle di O.V. Wright, George Jackson, Ann Peebles, Syl Johnson. Come quella di Al adesso Green, serica e di un’eleganza nel fraseggio come non si udiva da Sam Cooke. Formidabili i musicisti che lo fiancheggeranno per otto anni: cooptati dalla Stax, i mitici Memphis Horns (il trombettista Wayne Jackson, i sassofonisti James Mitchell, Ed Logan e Andrew Love, il trombonista Jack Hale), e ancora Mabon Hodges alla chitarra, Charles Hughes all’organo, Leroy Hodges al basso e Al Jackson (poi Howard Grimes) alla batteria.
Dopo un paio di 45 giri di riscaldamento (sul lato A del primo una scintillante rilettura di I Want To Hold Your Hand dei Beatles), il nostro uomo inaugura nel 1969 la sua nuova vita con un LP chiamato “Green Is Blues” (sarà ristampato, con l’aggiunta del brano omonimo, come “Tired Of Being Alone”; ***) e come si suol dire promettente. In un programma composto perlopiù da cover spiccano una My Girl che inventa Hall & Oates, una I Stand Accused resa con liturgica vena blues, una Summertime pressoché irriconoscibile. È anche meglio il successivo e sospirato “Gets Next To You” (***½), che ha in scaletta Tired Of Being Alone, numero sette nella classifica R&B e undici in quella pop nel luglio 1971. Sono prove tecniche di immortalità, raggiunta cinque mesi dopo con Let’s Stay Together, che scala entrambe le graduatorie fino alla vetta ed è epitome somma e dell’arte di Al Green e della seduzione amorosa di stampo afroamericano. Da lì al 25 ottobre 1974 niente sembrerà potere fermare il nostro uomo. Album brillante va dietro ad album brillante: “I’m Still In Love With You” (con dentro la programmatica e bene augurante Love And Happiness; ***½), “Call Me”, “Livin’ For You” (con la fluida urgenza di Let’s Get Married e la più bella versione di Unchained Melody dopo Jimmy Scott; ***½), “Explores Your Mind” (con Take Me To The River e già basta; ***½). Hit va dietro a hit. La popolarità di Al Green è enorme, in particolare fra il pubblico femminile. Ma quel fatale dì di autunno una sua ex gli rovescia dell’acqua bollente addosso, procurandogli gravi ustioni, e subito dopo si uccide con una pistola del cantante stesso. Che, da sempre diviso fra fervore religioso e adescamento, interpreta l’evento come un segno divino e comincia a meditare di abbandonare il pop.
Mentre ci pensa su licenzia altri tre LP proprio niente male, “His Love” (***), “Full Of Fire” (***½) e “Have A Good Time” (***), e con l’orchestra dilagante di L.O.V.E. coglie l’ultimo grande successo fino al duetto con Annie Lennox di Put A Little Love In Your Heart, numero nove negli USA nel 1988. Mette fine al matrimonio con Willie Mitchell e miracolosamente riesce a non pagare pegno con la pietra miliare “The Belle Album”, cui dà un apprezzabile seguito con “Truth N’Time” (***½). Ma una rovinosa caduta dal palcoscenico a Cincinnati (Dio a quanto pare è esigente e geloso) nel 1979 lo persuade infine che l’impegno, assunto tre anni prima, come pastore della chiesa Full Gospel Tabernacle di Memphis deve diventare il centro della sua vita. Il doppio “Tokyo… Live” suggella l’abbandono della musica laica e il ritorno a quella religiosa, che lo vedrà protagonista per tutti gli ’80 e i primi ’90 con lavori pluripremiati ma che inevitabilmente non hanno l’appeal dei classici. Né lo esibiranno i tre dischi che lo vedranno di nuovo, fra il 1992 e il 1995, confrontarsi con il rhythm & blues.
L-O-V-E – The Essential (Hi, 2002; 2CD) ****½
Non volendo investire sul quadruplo “Anthology” (Right Stuff/Hi, 1997; ****), questo doppio tiene fede al titolo esponendo le ragioni di un successo impressionante nei numeri: tredici singoli nei Top 40 fra il 1971 e il 1976 e trenta milioni di dischi venduti complessivamente in giro per il globo.
Call Me (Hi, 1973) ****
È il disco della salace Here I Am (Come And Take Me) e della sussurrata Have You Been Making Out O.K., di una spiritualissima e programmatica Jesus Is Waiting e di due straordinarie incursioni nel mondo del country: da Willie Nelson viene presa Funny How Time Slips Away, da Hank Williams una I’m So Lonesome I Could Cry fatta inno gospel.
The Belle Album (Hi, 1977) ****½
Irresistibili la svenevolezza di Belle e di Loving You, le trame oniriche di Dream, la solarità nomen omen di Feels Like Summer, la svelta cantabilità di All N All, la corposa fascinazione melodica di Chariots Of Fire. Ma ancora meglio sono una Georgia Boy fra country e blues e I Feel Good, apoteosi funk come solo James Brown ha osato concepire.
Tokyo… Live (Cream/Hi, 1981; 2LP) ****
Un eccitante bignamino dal vivo cui per essere impeccabile manca giusto Take Me To The River.
I Can’t Stop (Blue Note/EMI, 2003) ****½
Quando nessuno se l’aspetta più, il Reverendo torna al secolare almeno in musica e visto che c’è rinnovando il sodalizio con Willie Mitchell, sciolto una prima volta nel 1977 e soltanto provvisoriamente riallacciato otto anni dopo con un paio di dischi di musica sacra. L’album che ne risulta sembra, esattamente come “Don’t Give Up On Me” di Solomon Burke, sortire da una capsula temporale, solo che ci si sposta avanti di un decennio. Il bagno in acque blues di My Problem Is You, la gioiosa danza di I’ve Been Thinkin’ Bout You e soprattutto ballate come Rainin’ In My Heart e Not Tonight valgono qualunque classico precedente del Nostro. Troppo sperare che non resti un isolato prodigio?
Pubblicato per la prima volta in Soul e Rhythm & Blues – I classici, Giunti, 2004.