Un elogio della follia ineffabile di Alexander Skip Spence

Alexander Skip Spence

Questa storia comincia dalla fine. Questa storia comincia da un uomo agonizzante. Questa storia comincia dall’ultima ora di vita di quest’uomo, che per due soli giorni non arriverà a compiere cinquantatré anni ma ne dimostra venti di più. L’uomo è stato ricoverato al Dominican Hospital di Santa Cruz, California, undici giorni prima per una sospetta polmonite. Gli hanno diagnosticato invece un cancro ai polmoni in fase terminale e il peggioramento delle sue condizioni è stato a tal punto repentino che l’hanno dovuto collegare quasi subito a un respiratore e poco dopo ha perso comunque conoscenza. Al capezzale c’è uno dei suoi quattro figli. Ha appena chiesto – accontentato – che il padre venga staccato dalle macchine e lasciato morire in pace. E ora fa una cosa apparentemente bizzarra. Fa ascoltare un CD a un uomo che potrebbe o non potrebbe avere un barlume di coscienza di quanto gli sta attorno. Il CD non è ancora in commercio. Dovrebbe essere pubblicato da lì a quattro giorni, ma la sua uscita verrà posticipata di diverse settimane in segno di lutto. Il CD è stato lasciato a un’infermiera dal discografico che ne ha curato con pazienza e passione infinite la produzione, faccenda complicata visto il lungo elenco di nomi coinvolti, diciassette fra solisti e gruppi di due paesi e quattro differenti generazioni. E che nomi! Qualcuno conosciuto giusto dai frequentatori dell’underground, ma parecchi universalmente noti. E sono allora le voci di Robert Plant e Mark Lanegan, Robyn Hitchcock e Tom Waits, Jay Farrar, Greg Dulli e Beck che risuonano nelle orecchie dell’uomo nella sua ultima ora di vita. Quelle voci cantano canzoni che ha scritto mentre era ricoverato in un altro ospedale – psichiatrico, quello – trentuno anni prima e registrato qualche mese dopo, in poche ore, in perfetta solitudine. L’ultimo accordo si spegne. Il petto dell’uomo si solleva, ansante. Ricade. Immobile. Alexander Spence, Skip per tutti, non è più di questa terra. Ammesso lo sia mai stato. È il 16 aprile 1999.

Questa storia non solo è cominciata dalla fine ma non è che una parte di una storia più complessa, che coinvolge un gran numero di protagonisti di quella che fu la scena psichedelica per antonomasia, la californiana, e che impiegherò vari mesi a rinfreskare. Andando a ritroso. Per raccontarla dall’inizio avrei dovuto cominciare dai Quicksilver Messenger Service. Sarei poi dovuto passare ai Jefferson Airplane. Quindi ai Moby Grape. E soltanto nella quarta puntata sarei infine arrivato a dire del capolavoro che più di ogni altra sua impresa ha consegnato Skip Spence agli annali del rock. Disco di culto se mai ce n’è stato uno, per quasi due decenni fuori catalogo dopo avere stabilito un record a oggi imbattuto chez Columbia: il meno venduto di sempre con quel marchio, settecento copie e questo spiega perché capiti così di rado di imbattersi in un originale. A me è successo un’unica volta di vederne uno, ad Amsterdam nel 1988, esposto a un prezzo pari all’incirca a un duecentomila lire di allora e trattavasi di autentica occasione. A comprarlo avrei fatto un affare ma, a parte che il portafoglio piangeva, non credo che avrei mai potuto considerare seriamente l’acquisto. Non quando – i ricordi al riguardo si confondono – “Oar” era stato appena ristampato dalla benemeritissima Edsel, o stava per esserlo. Da quell’ormai lontana estate è rimasto in catalogo e ristampa ha seguito ristampa: a una prima edizione digitale su Sony del 1991 – da evitare, siccome patisce un remissaggio a dir poco discutibile – ne sono andate dietro nel ’95 una per Columbia Special Products – idem come sopra – e proprio nel fatidico ’99 una per Sundazed, con il mix primigenio ripristinato e il codazzo di comunque prescindibili bonus ulteriormente allungato. L’anno dopo ancora, la stessa Sundazed mandava nei negozi una lussuosa quanto filologica (niente bonus) versione in vinile e dunque se volete gustarvi “Oar” sul suo supporto fonografico originale, e limitandovi alla scaletta che fu, potete farlo e vi costerà al massimo quindici euro. Quasi vi invidio la gioia della scoperta. Voi invidiatemi il fatto che da a momenti vent’anni mi godo un album che al centesimo ascolto ti svela qualcosa di cui non ti eri accorto nei novantanove prima. E dire che è fatto di niente. Chitarre che inanellano sequenze di accordi bislacchi procedendo a saltelli e strappi. Un basso che, se qui tiene assieme, là disarticola. Una batteria che va avanti storta, inciampando. Eppure queste melodie sghembe – che, complice una registrazione al pari traballante, paiono spesso più arcaiche di un Charley Patton o un Robert Johnson – si avvincono come edera alla memoria e al cuore. Sarà che le disegna una voce che racchiude in sé tutto il dolore del mondo e insieme la gioia di vivere e l’innocenza che solamente un bambino può avere, temperate queste come quello da uno spiccato – e molto adulto – senso dell’umorismo. Questione di sentimento più che di parole, che a volte sfuggono anche a chi è di madrelingua e quando Bill Bentley metterà mano a “More Oar”, l’album-tributo di cui sopra, il problema più grande sarà proprio quello di decifrare i testi e trascriverli per i nuovi interpreti.

A prestar fede a quanti gli sono stati vicini nei ventuno anni trascorsi senza suonare in pubblico – rollandosi una sigaretta via l’altra, ingollando birra dopo birra, vivendo in una roulotte con un curatore nominato da un tribunale ad amministrarne le scarse sostanze (i diritti d’autore provenienti perlopiù da canzoni scritte per Jefferson e Moby Grape piuttosto che da “Oar”) – Skip era sul serio un bimbo imprigionato nel corpo di un uomo. Con formidabili sprazzi di vivacità a dispetto degli psicofarmaci con i quali venivano trattate una schizofrenia e una paranoia conclamate. Tutt’altro che il vegetale alla Syd Barrett di cui potrebbe capitarvi di leggere. Tutt’altro che la “vittima dell’acido” (manco El Syd lo fu del resto: a spedirlo in orbite per niente astrali il Mandrax) di cui routinariamente si perpetua il mito. Nulla si autoalimenta come la disinformazione.

Alexander Spence - Oar

Alexander Lee Spence nasce a Windsor, Ontario, Canada, il 18 aprile 1946. Non saprei dirvi esattamente quand’è che emigra a sud, in California, a San Francisco, ma posso dare per certo che il capodanno del 1965 lo sorprende lì, chitarrista abbastanza provetto da non sfigurare al cospetto dei virtuosi cui si accompagna in una versione embrionale dei Quicksilver Messenger Service. Non è però a un concerto o a una prova ma più prosasticamente in un bar che Marty Balin si imbatte in lui ed è una bella collisione di svitati. “Hai proprio una faccia da batterista”, gli fa. “Sto mettendo insieme un gruppo e un batterista non ce l’ho ancora.” Skip non ha mai maneggiato le bacchette in vita sua, ma l’idea lo diverte e, visto che i Quicksilver non stanno andando da nessuna parte, perché no? Dall’agosto 1965 al settembre ’66 sarà uno dei Jefferson Airplane, co-firmando con Balin due brani sull’esordio a 33 giri “Takes Off” (uno dei due il primo classico del gruppo, Blues From An Airplane) e regalando My Best Friend al successivo “Surrealistic Pillow”, dove però già non c’è. L’hanno dimissionato, formalmente per inaffidabilità – pare che si sia presentato in ritardo a qualche spettacolo e fa ridere come farà ridere il Lemmy licenziato dagli Hawkwind perché si drogava troppo – e più probabilmente perché i rudimenti del nuovo strumento li ha sì imparati, ma non è andato granché oltre. Poco male. Può tornare alla chitarra ed è un altro scaricato dall’Aeroplano, Matthew Katz, manager della prim’ora, che si incarica di costruirgli attorno un nuovo gruppo, cooptando tre componenti di un complessino di San Diego, i Friendly Gin. Un cambio di formazione – sistemata a cinque – dopo, i Moby Grape sono cosa fatta. Pronti per essere ingaggiati dalla Columbia. Pronti per registrare un omonimo LP che è ritenuto una delle pietre miliari della psichedelia, quando è più alla voce “pop-rock”, versante roots, che bisognerebbe catalogarlo (i ragazzi psichedelici lo diverranno più in là; o almeno ci proveranno). Pronti per venire bruciati da una strategia commerciale inaudita e insensata, con cinque singoli tratti dall’album e pubblicati in contemporanea. Pronti per ritrovarsi coinvolti in uno scandalo niente male pure per quell’epoca libertaria, con tre di loro e fra essi il Nostro arrestati per aver fatto sesso con altrettante minorenni, proprio alla festa di presentazione del 33 giri organizzata dall’etichetta. Il quale 33 giri sembrerebbe non andare male e anzi, un ventiquattresimo posto per un debutto sarebbe una performance di tutto rispetto, non fosse che la casa discografica ci ha investito una cifra insensata e ha l’urgenza di rientrare. Così è un quintetto stressato e sotto schiaffo che si sposta nel giugno ’68 a New York per registrare il secondo album. Una sera i nostri eroi si esibiscono al Fillmore East ed è dopo quel concerto che avviene l’incidente che spezzerà per sempre in due la loro carriera e la vita del povero Skip.

Ci sono viaggi lisergici buoni e viaggi cattivi e più che dalla sostanza in sé i secondi dipendono dall’ambiente e dalla compagnia in cui è stata assunta. Una stanza d’albergo non è il massimo. Una ragazza di suo squilibrata, peggio. Nella testa del – è il caso di ricordarlo – appena ventiduenne Alexander Spence scatta qualcosa e il giovane cordiale ed esuberante amato da tutti si trasforma per qualche ora in un maniaco omicida. Impadronitosi di un’ascia da pompiere, sfonda la porta della camera di solito occupata dal chitarrista Jerry Miller e dal batterista Don Stevenson e, trovatala vuota, si precipita in sala d’incisione. Lì il produttore David Rubinson riesce a disarmarlo. Arrivano gli infermieri. Per sei mesi Skip sarà per così dire ospite al Bellevue Ospital, clinica che fra i suoi clienti ha avuto anche tal Charles Mingus. Considerato l’accaduto, pare invero rimarchevole che quando viene dimesso lo stesso Rubinson (già incontrato lo scorso mese, parlando degli United States Of America) persuada la Columbia ad accondiscendere alla richiesta che avanza: tremila dollari in cambio del master di un LP da solista, da registrare – fra tutti i luoghi possibili – a Nashville, dove peraltro la casa discografica possiede uno studio. Il ragazzo li spende in buona parte per una moto ed è a cavallo di tale centauro che compie a tempo di record e di ritiro della patente il viaggio dalla Big Apple alla capitale del country. Che proprio sano di mente non sia per i tecnici che lo ricevono in quella saletta obsoleta (il tre piste che la equipaggia ormai largamente al di sotto dello standard del tempo) deve essere più che un sospetto, visto che all’arrivo indossa ancora il pigiama da ricoverato. Né cambierà abbigliamento nei tre giorni – così si dice, ma il retro di copertina lo dichiara inciso in un’unica seduta, il 16 dicembre 1968 – che trascorrerà lì.

Pochi dischi sono difficili da spiegare come “Oar”. Impossibile renderne il chiaroscurale fascino con il semplice resoconto degli echi che vi risuonano: dal Johnny Cash di Cripple Creek ai Cream esplicitamente citati in War In Peace, agli Who in gita al circo di Lawrence Of Euphoria, passando per i Byrds psichedelici di All Come To Meet Her e quelli felicemente ostaggio di Gram Parsons di Broken Heart. Quando Margaret – Tiger Rug preconizza lo Springsteen di “Nebraska” e Dixie Peach Promenade inventa mezzo Beck. Agli estremi dello spettro, una Books Of Moses da Mississippi Fred McDowell sotto psilocibina e una Grey/Afro motoristica come saranno solo i Neu!, parecchi anni dopo. “Oar” vive in un suo universo esclusivo e un universo nel quale non deve essere stato piacevole vivere.

Nel 1972 Alexander “Skip” Spence si riunirà brevemente ai Moby Grape, il tempo bastante ad assemblare il controverso “20 Granite Creek”. Sarà della partita pure nella sfortunata rimpatriata del ’78, non in quella dell’84. La sua ultima volta in uno studio di registrazione sarà nel 1995, dopo diciassette anni di silenzio. Richiesto dai produttori di X-Files di partecipare con un brano alla raccolta “Songs In The Key Of X”, inciderà (con Jack Casady al basso e un figlio di Ali Akbar Khan alle tabla) l’adeguatamente orrorosa Land Of The Sun. Adeguatamente? Scartata alla fine perché troppo inquietante.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.110/111, luglio/agosto 2007.

3 commenti

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3 risposte a “Un elogio della follia ineffabile di Alexander Skip Spence

  1. Francesco

    Che meraviglia di recensione e che meraviglia di disco. Anch’io ho l’edsel degli anni 80, poi l’ho preso anche in cd e pure scaricato mp3, non se ne ha mai abbastanbza di oar! mai visto in giro un originale e comunque tanto non sono un feticista/collezionista quindi…mi basta ascoltarlo proprio come sto facendo ora
    ciao
    PS spero che per il tuo recupero che vada tutto bene, visti i nuovi post direi che sei in ripresa.

  2. Oliviero Marchesi

    Grande disco! Come stai, Eddy? Come va il recupero?

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