Bob Dylan compie oggi settantacinque anni. Quando ancora gli mancava qualche giorno a compierne venticinque combinò questa roba qui.
Il 1965 non è ancora finito, non sono trascorsi che mille giorni dall’esordio acustico e volto all’indietro e il ventiquattrenne Bob Dylan ha già segnato in profondità musica e cultura del Novecento con sei album in cui ha interpretato e anticipato i sentimenti di una generazione. Con gli ultimi due ha trovato un nuovo pubblico e fatto infuriare il vecchio. Per la neonata nazione del rock è un nuovo eroe che sa produrre musica orecchiabile come quella dei Beatles, maleducata come quella degli Stones, sexy come una volta Presley e negra e bianca nel contempo. Per il declinante movimento folk è viceversa un traditore che ha venduto per i trenta denari di un piazzamento in classifica la purezza della tradizione, che dopo avere frequentato la canzone politica l’ha accantonata. E via via che si fa strada la consapevolezza che difficilmente tornerà indietro le critiche della prima ora, aspre ma in una certa misura affettuose, dispiaciute, si trasformano in linciaggio. Anche se in alcuni fra i tanti che ululano il loro disprezzo si insinua il dubbio che un artista abbia in fin dei conti il diritto di crescere e cambiare, che nell’evoluzione del Nostro ci sia un’intima coerenza, che stia tradendo la lettera della tradizione folk per rispettarne lo spirito e mantenerla viva, che magari bisognerebbe ascoltare le sue canzoni nuove con orecchie nuove. È in ogni caso come se dovesse andare alla guerra che Zimmie prepara il primo tour mondiale. Truppe scelte non quanti lo hanno affiancato in studio in “Highway 61 Revisited” (fra costoro Al Kooper e Michael Bloomfield) ma nuovi compagni che promettono di avere le spalle larghe. Sono Robbie Robertson (chitarra), Garth Hudson e Richard Manuel (tastiere), Rick Danko (basso) e Levon Helm (batteria e l’unico statunitense; gli altri sono canadesi) e hanno fatto durissima gavetta accompagnando Ronnie Hawkins, rock’n’roller di inesistente originalità ma eccellente mestiere e buon sentimento. È un incontro di spiriti affini e il principio di una collaborazione che darà sapidi frutti per oltre dieci anni. Loro sono The Hawks, ma da qui in poi saranno The Band.
Nonostante la stampa musicale come oggi la si intende ancora non esista, nonostante l’era della comunicazione globale e istantanea sia distante fantascientifici eoni, è come se fra gli appassionati ci fosse un passaparola intercontinentale che richiede dappertutto il medesimo comportamento idiota. Ovunque vadano – Stati Uniti, Australia, Svezia, Danimarca, Irlanda, Gran Bretagna, Francia e poi di nuovo Gran Bretagna – Bob Dylan e i ragazzi ricevono la stessa accoglienza. Platee in rapito silenzio nella prima metà dello spettacolo, che vede Dylan da solo sul palco, aspre contestazioni che sfociano talvolta in disordini quando compare il gruppo e la musica si fa elettrica. Helm a un certo punto non ne può più di farsi insultare e alza bandiera bianca. Sostituito il caduto con Mickey Jones, la campagna continua. Eternato in “Bob Dylan Live 1966”, quarto tomo della “Bootleg Series”, il singolo incidente che fissa per sempre nella storia del rock la guerrigliera tournée accade alla Free Trade Hall di Manchester il 17 maggio 1966. Poco prima che parta l’ultimo brano una voce dalla platea urla “Giuda!”. “Non ti credo”, sibila Dylan stizzito. “Sei un bugiardo”, rantola malevolo. E poi si gira verso la Band e intima “Play fuckin’ LOUD”. Attaccano Like A Rolling Stone ed è come se le trombe suonassero di nuovo sotto Gerico e le mura crollassero.
Sottotitolato “The ‘Royal Albert Hall’ Concert” (le virgolette rimarcano l’erronea datazione perpetuata da innumerevoli dischi pirata prima della pubblicazione ufficiale del concerto, nel 1998), “Live 1966” è un documento eccezionale sia sotto il profilo storico che sotto quello musicale. Per quanto attiene il primo aspetto testimonia la schizofrenica reazione del pubblico, attento e immoto durante i tre quarti d’ora acustici, contestatario a colpi di sussurri e grida, e battiti di mani in moviola, nei tre quarti d’ora elettrici. Ma dov’erano quelli che avevano comprato Like A Rolling Stone e “Highway 61 Revisited”? Qualcuno c’era, naturalmente, e proprio a motivo di ciò diverse volte esplosero battibecchi e al peggio risse fra le fazioni. Musicalmente, forte oltretutto di una registrazione sorprendentemente buona per l’epoca, è uno degli album dal vivo più notevoli che mai il rock abbia offerto, di un’intensità rabbrividente nella prima parte, di un’impetuosa eleganza e una compattezza che esaltano in una seconda in cui perfidamente Dylan infila (quasi a dire: vedete? non sono poi così cambiato) letture amplificate di pezzi in origine acustici: I Don’t Believe You da “Another Side Of”, One Too Many Mornings da “The Times They Are A-Changin’”, addirittura Baby, Let Me Follow You Down dal debutto. È un’esibizione di oltre un’ora e mezza e pure in questo Dylan era avanti a tutti, considerato che al tempo i concerti erano festival itineranti in cui al nome di maggior richiamo venivano concessi al più quaranta minuti. Lo spettacolo rock come lo si è inteso da quei giorni fu inventato dal nostro uomo. Che visto che c’èra da lì a breve pubblicherà anche il primo album doppio della storia del genere, “Blonde On Blonde”.
Non mi risulta che di quest’ultimo esista una versione in nera, pesante, lucente plastica per audiofili, o perlomeno non è disponibile attualmente. Del “Live 1966” è viceversa fresca di stampa una meravigliosa edizione Classic Records nel solco di quelle già riservate ai volumi cinque e sei della “Bootleg Series”: su un disco il set acustico, sull’altro quello elettrico e i due LP in un robusto box contenente anche un sontuoso libro di una quarantina di pagine. Vinile silenziosissimo ed è un sostanziale contributo all’illusione creata da un’incisione (lo ribadisco) sorprendente di trovarsi proprio lì, in un teatro di Manchester, quarant’anni fa.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.273, novembre 2006.
Splendido articolo, è raccontando tenendo conto dei vari contesti ( sociali,culturali,dei media specializzati o no) che ci si può fare un quadro realistico di ciò che hanno provato i presenti sia sul palco che tra la platea,il grande Levon credo sarà stato ampiamente scusato.
Grazie VMO e ancora bentornato
Bentornato anche da parte mia, hai sentito l’ultimo disco di Dylan? che ne pensi? grazie
Come potrai immaginare, nei miei sei mesi e mezzo fuori dal mondo, o quasi, mi sono perso un sacco di roba e recuperare è impresa improba. No, non ho ascoltato l’ultimo Dylan ma, a leggerne, dubito che potrà piacermi più del penultimo. Che mi era garbato pochino.
https://venerato-maestro-oppure.com/2015/04/02/bob-dylan-shadows-in-the-night-columbia/