Se è di “belli e perdenti” – come da titolo di un romanzo giovanile di Leonard Cohen – che si parla, pochi negli ultimi trent’anni sono stati “beautiful” e nel contempo “loser” quanto Hugo Justin Race, australiano (di Melbourne) per natali e cittadino del mondo (con una predilezione per l’Italia) per vocazione. Condannato a restare per sempre nell’ombra di Nick Cave, che fiancheggiava negli ultimi Birthday Party e nei primi Bad Seeds, quando può vantare una folta e labirintica discografia in proprio (con la sua identità anagrafica così come sotto varie sigle) i cui apici almeno poco hanno da invidiare pure al King Ink migliore. Se non lo conoscete, quando passerà dalle vostre parti fate un salto a vederlo. Potrebbe essere l’inizio di un amore. Se vi fidate di me e non volete attendere, la sensazionale doppia antologia (del 2001; urgerebbe un aggiornamento) “Long Time Ago” e “The Goldstreet Sessions” (del 2003) sono le entrature ideali. E se partendo da lì vi va poi di proseguire, accomodatevi: le “24 ore verso nessun luogo” costituiranno un viaggio che merita intraprendere.
A proposito del Canadese Errante: sarà per la suggestione di una voce femminile che ogni tanto si affaccia a duettare, ma mi pare che su quest’album – in particolare nella squisita traccia, languidamente western, inaugurale e omonima – la sua ombra si allunghi più dell’usuale. E che nel contempo vi siano un po’ meno blues e un po’ più country (della varietà da border) rispetto al solito. Detto che i Fatalists altri non sono (con qualche innesto) che i nostrani Sacri Cuori, mi resta lo spazio per segnalare tre apici: il raga Beautiful Mess; una Lost In The Material World dalle parti del Johnny Cash al congedo; una splendida resa della Ballad Of Easy Rider che fu dei Byrds.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.377, luglio 2016.
Grandissimo disco di un grandissimo artista troppo spesso sottovalutato, grazie della rece