Trent’anni fa a oggi i Madness decidevano di sciogliersi. Ci hanno poi ripensato (più volte) e, in genere, è stata una buona idea. Strano ma vero. Un nuovo album è in uscita il prossimo 21 ottobre.
One Step Beyond… (Stiff, 1979)
Diciamolo: sei interpretazioni del brano che nel 1979 inaugurava e intitolava l’esordio dei londinesi Madness sono forse un’esagerazione. C’è ovviamente quella da LP e, nell’arco di due dischetti, le vanno dietro il promo video, la versione del 45 giri, le traduzioni in spagnolo e in italiano (da tradurre c’era ovviamente solo la declamatoria intro) e una lettura dal vivo proveniente dallo storico (sia un film-concerto che un disco) “Dance Craze”. Però, via, per quanto poco costa questa bella riedizione (su Salvo) per il trentennale del debutto del gruppo di Camden, ci si può lamentare? E poi, per quanto e proprio in quanto delirantemente sciocca, One Step Beyond resta una delle canzoni più travolgenti di sempre e di chiunque. Una delle poche in grado di scatenare il trenino in qualunque pubblico di età compresa fra i due e gli ottant’anni. Suscita invariabilmente allegria e, più è grama la giornata, più c’è bisogno di avere una One Step Beyond a portata di orecchio. Meglio abbondare.
Ciò detto: anche non ci fosse stata, il primo Madness sarebbe risultato comunque operina memorabile, per la qualità media di scrittura e interpretazioni e per l’abilità che il gruppo dimostrava nel non farsi imprigionare negli schemi di quello che comunque impropriamente (la 2-Tone era tanto ma tanto di più) venne definito il primo ska-revival. Se Suggs e soci dichiaravano sin dalla ragione sociale adottata e dal brano eletto a inno la loro devozione a Prince Buster nel contempo badavano subito, buttando nel calderone lounge e vaudeville, jazzetto da balera e ragtime da “Oggi le comiche”, a sottolineare altresì la loro schietta britannicità. In tal senso emuli ed eredi – più pop che rock – dei Kinks.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.308, febbraio 2010.
Wonderful (Virgin, 1999)
Provo a fare il conto delle rimpatriate che hanno prodotto risultati apprezzabili. Dunque… Così, su due piedi, mi vengono in mente i Pere Ubu. Poi i Pere Ubu. E, pensandoci ancora, i Pere Ubu. Sarà forse che con David Thomas e soci non erano in gioco interessi commerciali, fatto sta che il loro è un rarissimo caso di reunion che non ha sminuito la precedente carriera. Su un diverso livello si può dire bene di Plant & Page, ma poi? Poi si possono applaudire i Madness: chi l’avrebbe mai detto che il ritorno dei Fab Seven avrebbe avuto una simile consistenza? A vent’anni esatti dal clamoroso successo di “One Step Beyond…”, LP e 45 giri, e a tredici dal congedo, “Wonderful” propone un gruppo in ottime condizioni di forma e tanto fiducioso nei propri mezzi da rifuggire quasi del tutto lo stile che ne caratterizzò maggiormente gli esordi e che oggi gode di un grande revival.
Tracce di ska sono difatti individuabili solamente in The Communicator, mentre altrove fiati e andatura sono al più da marcetta paesana (The Wizard) o da vaudeville (Johnny The Horse). Più che negli Skatalites, o negli Specials, è in quella grande tradizione squisitamente britannica, che parte dai Kinks e via Beatles giunge agli XTC, di canzone pop lontana dalle radici blues del rock e viceversa vicina al music hall, che va individuato il principale referente di “Wonderful”. Che in più di un frangente è esattamente quanto il titolo promette. Ad esempio in Drip Fed Fred, scintillante canzonetta da pub con begli scatti istrionici alla Ian Dury, e in Saturday Night Sunday Morning: come se le Supremes di You Can’t Hurry Love facessero comunella con i Kinks di Waterloo Sunset.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.198, gennaio 2000.
The Liberty Of Norton Folgate (Lucky Seven, 2009)
Bisognerebbe modificare quel “a volte ritornano” usato immancabilmente in “Cristo! sono tornati anche questi”, giacché negli ultimi anni abbiamo assistito alle rimpatriate più improponibili e d’accordo che fare il musicista rock non assicura la pensione, ma a tutto dovrebbe esserci un limite. Scagli la prima pietra chi, alla notizia di un lutto, non ha pensato “almeno così non ci sarà una reunion” o, al contrario, “fosse morto prima ci avrebbe risparmiato una simile infamia”. Naturalmente ogni tanto c’è un eccezione.
Esaurito il percorso storico nel lontano ’86, i Madness già diverse volte avevano provato a rimettersi insieme, con esiti in genere dignitosi ma l’ultima volta (la pletoricissima collezione di cover “The Dangermen Sessions”) decisamente no. Mai e poi mai si sarebbe potuto pronosticare da loro – nel 2009! – un disco siffatto, nel solco dei concept-album dell’era aurea kinksiana e all’altezza di tale gloriosa tradizione. Capace, nel mentre aggiunge una non inutile postilla all’epopea 2-Tone, di evocare i Beatles tardi come i Jam che andavano trasformandosi in Style Council e di fare versare lacrimucce di nostalgia per gli XTC e certi Blur. Sogno o son desto? È la loro uscita migliore dall’esordio “One Step Beyond…”, trent’anni fa.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.659, giugno 2009.