“No, dai, non ci posso credere!”, confesso di avere pensato raggiunto dalla notizia che gli ABC si apprestavano a pubblicare come una seconda puntata dell’album che nel giurassico 1982 ne iscriveva indelebilmente il nome negli annali del pop. C’è poco da discutere: per quanto possa dispiacere a coloro che, in quell’epoca manichea di post-punk e rock “del vero sentire” vs. il resto del mondo, schifavano la creatura di Martin Fry (e devo con un po’ di imbarazzo ammettere tale peccato giovanile), quel disco non solo fece epoca ma pure e ancora di più con il senno del poi risulta un capolavoro. Zeppo di canzoni memorabili esaltate dagli impeccabili arrangiamenti di Anne Dudley, non a caso una che ha poi composto colonne sonore a decine. Aveva un senso provare a ricreare quel mood da Roxy Music in overdose di romanticismo all’incrocio fra musical e dancefloor? Un suono che è uno dei primi a venire in mente quando si pensa agli anni ’80?
Diversi ascolti di “The Lexicon Of Love II” dopo, ancora non so rispondere con certezza né in un senso né nell’altro. Di sicuro non è il disastro che facilmente sarebbe potuto essere. La Dudley si è prodotta nella sua solita performance magistrale e la voce di Martin Fry miracolosamente non evidenzia, dopo tutto questo tempo, una ruga che sia una. Il prodotto è impeccabile e tuttavia, a parte che ovviamente altro è lo zeitgeist, paga una scrittura formulaica più spesso che brillante. Forse giusto due o tre canzoni scampano le secche del pur elegante esercizio di stile: la subitanea apoteosi disco The Flames Of Desire; una Kiss Me Goodbye in cui Fry è più Barry White che Bryan Ferry; una I Believe In Love sfacciatamente, sgargiantemente, gloriosamente gay.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.379, settembre 2016.
Sarà… ma io faccio ancora fatica a farmi piacere l’originale… Forse perchè mi ricorda un certo tipo di musica degli eighties (che allora aborrivo).