Shock In Torino – Una celebrazione dei Velvet Underground

Sublime ironia che si sia scelto di inaugurare un festival di cinema per under 18 con una serata dedicata ai Velvet Underground: vale a dire al primo gruppo che portò nel rock tematiche adulte. Vietato ai 18, piuttosto? Come minimo, uscisse oggi si ritroverebbe attaccato sui dischi il bollino “Parental Advisory – Explicit Content”.

Sia come sia: il genio dei Velvet dell’era Warhol verrà adeguatamente celebrato domani sera al Cap 10100 di Corso Moncalieri 18. Fungeranno da house band i giovani e bravissimi Foxhound e con loro sul palco, a partire dalle 22, si avvicenderanno in tanti. Vi butto lì giusto tre nomi per farvi venire l’acquolina in bocca: Lalli dei Franti, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz e Max Casacci dei Subsonica. Dj set, prima e dopo, di Giorgio Valletta. Io ci sarò. Voi siateci, se potete. Ingresso libero, fino a esaurimento dei non tantissimi posti. Ci si vede lì.

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Non ci si crede che Andy Warhol – l’uomo con il più basso rapporto fra pellicola usata e azione immortalata nella stessa della storia del cinema (si pensi alle otto ore di facciata dell’Empire State Building in inquadratura fissa!) – non abbia mai pensato di usarne un po’, di pellicola, per consegnare ai posteri una sera con l’“Exploding Plastic Inevitable”. Sicché fanno infuriare ancora di più i sessantasette minuti tristemente sprecati per The Velvet Underground And Nico: A Symphony Of Sound, che è dal vivo sì ma in sala prove e in comune con il favoloso esordio dell’allora quintetto ha sfortunatamente solo mezzo titolo: trattandosi di una lunga improvvisazione che no, non è esattamente Sister Ray. Abbiamo documentazione video di qualunque gruppo abbia contribuito con una frase, un rigo appena al Grande Romanzo del Rock degli anni ’60 e ben poco (e quel poco giuntoci di straforo e con una colonna sonora implausibile) dei concerti con i quali i Velvet Underground cominciarono a scriverne un capitolo intero, uno dei più cruciali oltretutto. Non ci si crede e non lo si perdona, a Andy Warhol. Ma anche sì, perché senza la sua sponsorizzazione i Velvet in quell’affascinante volume forse non figurerebbero del tutto, forse ne occuperebbero sì e no un paragrafo.

Fate caso alla data d’incisione, non di pubblicazione: rende “The Velvet Underground And Nico” ancora più straordinario di quanto non sia. In una vicenda giovane come era quella del rock, pochi mesi contavano e l’anno che ci mise l’album a raggiungere i negozi – colpa dell’inesperienza di Warhol, di una casa discografica incerta sul come gestire materiali così dirompenti, del complottare dietro le quinte di Herb Cohen, manager di Zappa, disposto a tutto pur di fare uscire prima i Mothers Of Invention – non solo lo danneggiò enormemente sotto il profilo commerciale (l’hype che aveva salutato gli spettacoli multimediali dell’“EPI” nettamente in calando) ma ha pure falsato la prospettiva storica. Lo si colloca nel 1967 e si sottolinea il suo essere antipodico al sentire generale che figliò i figli dei fiori e la psichedelia, ma se lo si pensa come un disco del ’66 da un lato anticipa la psichedelia stessa, dall’altro è apparizione aliena in un mondo che solo con l’avvento di punk e new wave comincerà a venirci a patti.

Il disco vive di un perfetto equilibrio fra tensione e rilascio, gioco di scatole in cui il folk urbano di Sunday Morning e Femme Fatale contiene il martellamento alla Bo Diddley di I’m Waiting For The Man, il rock’n’roll sfrenato di Run Run Run si situa fra il raga di Venus In Furs e la parata di chitarre scintillanti e circolari di All Tomorrow’s Parties, l’incubotica Heroin precede il beat quasi byrdsiano (in realtà un plagio di Marvin Gaye!) di There She Goes Again e quello e la soffusa tenerezza di I’ll Be Your Mirror conducono allo scontro fra viola stridente e voce recitante di The Black Angel’s Death Song e al caracollare tribale di European Son. Dedica quest’ultima a Delmore Schwartz, maestro di poesia e di vita di Lou Reed che proprio nel 1966 lasciava questo mondo per andare a cercare bar in altri universi. Dobbiamo alla sua influenza testi da esegesi parola per parola: sipari di scapigliatura e sessualità deviata, donne fatali e vite drogate che per primi introducevano nel rock (Dylan veniva dal folk, gioverà ricordare) tematiche adulte, letterarie.

E allora tutto si perdona, rispetto ai Velvet, al loro mentore. Persino il dovere ricostruire l’“Exploding Plastic Inevitable” basandoci più che altro sulle testimonianze di chi c’era. Ultima beffa, i nastri live di cui siamo in possesso sono difatti posteriori all’era Warhol.

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