Quantomeno nessuno potrà mai accusare Justin Vernon di ripetersi. Men che meno di inseguire i trend, quando in un altro tempo sarebbe stato lui a crearli, alla Bowie. Non ci si crede che un disco così abbia scalato la classifica di “Billboard” fino alla seconda posizione: non per la provenienza dell’autore dall’underground più underground, retroterra che non aveva impedito nel 2011 all’album prima di realizzare un analogo exploit, ma perché “22, A Million” in quella graduatoria è un UFO e lo sarebbe stato anche in epoche più avventurose dell’odierna. E questo nonostante ricorra massicciamente al vezzo più fastidioso (roba che al confronto la famigerata batteria anni ’80 non era nulla) del pop attuale: la voce filtrata, deformata, deumanizzata dall’auto-tune. Ma dico io! Qual era stata, prima ancora di una scrittura eccelsa, la prima caratteristica a fare amare il favoloso esordio del 2008 “For Emma, Forever Ago”? La bellissima voce di Vernon, ora in falsetto, ora in un registro confidenziale. Distorcerla metodicamente è imperdonabile.
Il secondo peccato capitale in cui incorre un lavoro che almeno non lascia indifferenti è che invece che musica parrebbe che l’autore volesse con esso creare Arte, nel senso pretenzioso del termine e vedasi a tal riguardo gli assurdi, irriproducibili titoli che battezzano la più parte delle dieci canzoni. Vedasi la propensione, in cerca di un post-folk totalmente destrutturato rispetto a quello intimista d’antan e ricomposto elettronicamente, all’eccesso di stranezza. Un’esibita modernità a battagliare contro l’Arcadia che fu. E dire che in tralice ancora si intravvede una scrittura stellare: in una quinta traccia degna di un Paul Simon, nel cybersoul della sesta, in un’ottava che rimanda allo Springsteen di Streets Of Philadelphia.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.381, novembre 2016.