I Feel Good – L’autobiografia (di/per James Brown, 3 maggio 1933-25 dicembre 2006)

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Ho portato dentro il fuoco e la rabbia che nascono dalla povertà, dalle famiglie divise, dall’indifferenza della società, che sperimentai da bambino per anni, tenendomeli dentro, una parte sostanziale e profonda della mia crescita. Come tanti altri poveri ragazzi e ragazze neri del Sud, non sono mai riuscito a scuotermi di dosso completamente la maledizione della paura”: così il “Signor Dinamite”, il “Più grande lavoratore del mondo dello spettacolo”, il “Fratello soul numero uno” o il “Padrino del soul” che dir si voglia una decina di pagine addentro quella che è un’autobiografia assai sui generis, prontamente e discretamente tradotta da minimum fax a un anno dall’uscita negli Stati Uniti. Parole che sono la chiave di volta di un volume per molti versi irritante e almeno altrettanti illuminante, in particolare quando dice più di quello che vorrebbe dire e guarda caso la frase che ritorna di più è “Non fraintendetemi”. Anche se sembrerebbe esserci poco da fraintendere quando, un paio di pagine dopo, il nostro eroe dichiara: “Sono orgoglioso di essere americano… Il mio ordine di priorità è chiaro: Dio, patria, famiglia”. Né quando parecchio più avanti, con un rovesciamento di prospettiva in apparenza totale, racconta della più umiliante delle tante volte in cui è finito in gattabuia, uno che vanta di aver conosciuto di persona sette degli ultimi otto presidenti USA: “Ricordo che quando venni portato via un giornalista mi chiese come mi sentivo, se pensavo ci fossero motivazioni razziali dietro quello che stava accadendo. Alzai i polsi, sorrisi, dissi: ‘Le vedi queste manette? Si chiamano America’. Credo quella volta di averne fatto una sintesi niente male”. Davvero!

Più ecumenico (che è nel suo caso un modo elegante per dire qualunquista) che francamente conservatore in politica quanto è stato rivoluzionario in musica, Brown appare in queste pagine un inestricabile groviglio di contraddizioni: riflesso fedelissimo insomma del paese che tanto ama. I limiti di I Feel Good sono evidenti. Troppe le digressioni, troppi gli omissis, dagli anni giovanili liquidati frettolosamente ai musicisti che in maniera determinante contribuirono alla nascita di uno dei sound più peculiari di sempre e nemmeno si prendono una citazione. Purtroppo Marc Eliot si è limitato a un’introduzione, non ha svolto il ruolo di co-autore assunto ad esempio da David Ritz nel viceversa esemplare Brother Ray. Nondimeno, per chi adora l’uomo di Sex Machine e decine di altri classici, vale la pena di leggere I Feel Good. Anche solo per la lunga digressione sul “battere” e il “levare” che spiega magistralmente perché dopo James Brown la musica non è più stata la stessa. (minimum fax, pp.232)

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.22, estate 2006.

2 commenti

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2 risposte a “I Feel Good – L’autobiografia (di/per James Brown, 3 maggio 1933-25 dicembre 2006)

  1. La sto finendo giusto in questi giorni, e in effetti James Brown si parla troppo addosso. Non che non ne abbia titolo, ma l’impressione generale è di scarsa fedeltà ai fatti e di volontà revanscistica verso i bianchi, magari motivata (ma sarà tutto vero?) ma a tratti quasi gratuita; comunque, la consapevolezza razziale è, a mio avviso, il punto di forza del libro, che resta carino ma non imprescindibile.
    Buon anno Eddy, che sia veramente migliore di questo 2016 assai poco clemente per musicisti e dintorni. Un abbraccio.

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