“Siamo una band americana/stiamo arrivando nella vostra città/per aiutarvi a far festa”, cantavano i Grand Funk Railroad. Per quanto i punti di contatto fra i due gruppi non siano molti, quarantatré anni dopo (ma ormai da venti) i Drive-By Truckers possono levare alto al cielo lo stesso proclama. Si fa festa eccome quando arrivano in città e negli Stati Uniti la loro popolarità è grande (in Europa meno, in Italia quasi nulla) soprattutto in forza di un live act fra i più efficaci sulla piazza. Loro undicesimo album in studio, quest’ultimo è stato il quarto consecutivo a entrare nelle prime dieci posizioni della classifica di “Billboard”. La critica è in visibilio come non mai e c’è da scommettere che diversi degli undici titoli qui inclusi resteranno in scaletta nei concerti anche nei tour futuri. E si farà festa ancora. Solo che, ecco, a questo giro se la musica resta al solito godibile – squisito zibaldone di Americana con una caratterizzazione prevalentemente sudista (quella d’altronde è l’origine) – si offre anche parecchio da pensare. “American Band” è una riflessione sullo stato dell’Unione (e soprattutto: di quella che fu la Confederazione) più efficace e problematica (problema numero uno una questione razziale rimasta irrisolta, e anzi peggiorata, pure negli anni di Obama) di quanto potrà mai essere il più articolato degli editoriali. Il che rappresenta la ragione principale dell’accoglienza tanto positiva della stampa anglofona.
A noi che inevitabilmente tendiamo a badare meno ai testi bastano gli spartiti a indurre l’applauso. A scena aperta di fronte a una Ramon Casiano di scintillante energia, al country-blueseggiare di When The Sun Don’t Shine, al pigro rock’n’roll Kinky Hypocrite, a una Once They Banned Imagine da The Band più che da American Band.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.381, novembre 2016.
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