I migliori album del 2016 (11): Lucinda Williams – The Ghosts Of Highway 20 (Highway 20)

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Pare che uno dei migliori album del 2016 sia stato in realtà maggioritariamente scritto e in parte anche registrato nel 2013, in sedute di incisione parallele a quelle che fruttarono uno dei migliori album del 2014. Il che fa un po’ impressione, perché stiamo parlando di due dischi doppi, venti tracce per un totale di centotré minuti in “Down Where The Spirit Meets The Bone”, altre quattordici per ulteriori ottantasei in questo “The Ghosts Of Highway 20”. Il che fa parecchio impressione se si pensa a una vicenda artistica che a lungo ha indubbiamente brillato per qualità ma altrettanto certamente non per quantità. Prolifica Lucinda Williams mai. Arrivava a mettere otto anni fra il suo secondo album e il terzo e sei fra il quarto e il quinto, quel “Car Wheels On A Gravel Road” di cui a venire pubblicata nel 1998 era la versione numero tre, essendo state le precedenti cestinate quando già erano pronte per andare in stampa. Dopo qualcosa sembrava però cambiare, cinque i lavori in studio licenziati fra il 2001 e il 2011 (più un live) e distanziati fra loro al massimo di quattro anni. E tuttavia nulla poteva preparare a una simile esplosione di creatività. Sarà forse, dicono alcuni, che nella sua vita privata la Williams ha raggiunto un felice equilibrio che prima, in materia di relazioni sentimentali, le era sempre mancato. O sarà magari, penso io, che il ticchettare inesorabile dell’orologio della vita l’ha indotta a mettere da parte quel perfezionismo che l’ha sempre connotata, tanto esasperato da sconfinare nel patologico. Chi non ha più tanto tempo non lo aspetti e siamo poi sicuri che il “Car Wheels” numero uno non fosse già il capolavoro che è risultato il tre? Quello che conosciamo, quello che ha fatto assurgere l’artefice all’Olimpo della canzone d’autore rock a stelle e strisce. Fatto è che in corrispondenza di un traguardo simbolico (il compimento del sessantesimo anno) Lucinda Williams ha preso a scrivere come non ci fosse un domani.

Pare che, ritrovandosi in mano un numero abnorme di canzoni, abbastanza da riempire due album doppi in CD (nell’era classica del vinile il primo sarebbe potuto essere addirittura triplo), per decidere dove sistemare cosa ci si sia attenuti a un criterio assai semplice: i brani “rock” su quell’altro lavoro là, quelli “non rock” su questo successore. Che è opera dilatata e complessivamente fosca, attacco con una Dust da Grateful Dead immersi nella tradizione del Gotico Americano, congedo affidato a una trasfigurazione sconfinante nello sperimentale di un traditional, Faith & Grace, di cui si ricorda soprattutto la versione degli Staple Singers. Il mezzo copre – quietamente, spesso allucinatamente – ogni tappa possibile, con vette in una Death Came che è quanto ci si sarebbe attesi dall’ultimo Nick Cave (e non si è avuto), in una catacombale resa della Factory di Bruce Springsteen, in una If There’s A Heaven sulla quale aleggia il fantasma di Hank Williams. Formidabile dall’inizio alla fine l’interplay fra i due chitarristi, un Bill Frisell sempre più enciclopedia vivente di generi e stili e Greg Leisz.

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