I migliori album del 2016 (6): PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project (Island)

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All’inizio Polly Jean parlava di sé ed era parlando di sé che offriva una visione del mondo assolutamente politica e inevitabilmente femminista. Appena ventiduenne all’altezza della pubblicazione nel 1992 del debutto – epocale non per modo di dire – “Dry”, fatalmente diveniva un modello per una generazione di ragazze indisposte a farsi istruire ancora riguardo al cosa pensare, al come agire, al che dire. Aiutava a fare passare il messaggio la rude, quasi primitiva schiettezza di una musica all’incrocio fra blues e post-punk, perfetta per trasmettere l’urgenza esistenziale dei testi. La naturale predisposizione al gancio melodico e/o ritmico che non dà scampo faceva il resto. Chi c’era, non può dimenticare il formidabile impatto che ebbe su un rock che pure viveva la sua ultima stagione ruggente, esplosione di creatività tale che tuttora a raccontarla si stenta a crederci. Ma poi ovviamente si trattava di crescere senza perdersi e diosanto se è cresciuta, Polly Jean. Non nel senso che abbia pubblicato dischi migliori di “Dry”, se ne può discutere e probabilmente non si troverà un fan che la pensi uguale a un altro su quale sia il suo capolavoro, ma in quanto è stata capace di evolversi continuamente restando tuttavia sempre fedele a se stessa. Onesta a costo di risultare indisponente e molti si sono fatti indisporre da “The Hope Six Demolition Project”, dai politici di Washington DC che non si sono sentiti lusingati da tanta attenzione per un discusso progetto di riqualificazione di un’area disagiata a quanti – ma che originalità! – hanno dato alla signora della radical-chic. Perché è facile farsi un giro in auto con tanto di guardia del corpo in un angolo di terzo o quarto mondo in cui torme di ragazzini ti assalgono mendicando Dollar, Dollar quando poi puoi tornartene nella tua lussuosa residenza di popstar. Può darsi. Però Polly Jean quel giro se l’è fatto e loro no.

Nel 2011 il precedente disco della Harvey, “Let England Shake”, era stato salutato come un equivalente su supporto fonografico del romanzo di guerra alla Hemingway di Addio alle armi, del film di guerra alla Francis Ford Coppola di Apocalypse Now. Questo seguito concepito durante viaggi compiuti fra il 2011 e il 2014 in Kosovo, Afghanistan e Stati Uniti annulla lo scarto storico di quello (dove la riflessione era sull’impatto psicologico collettivo avuto sulla Gran Bretagna dalla Prima Guerra Mondiale) concentrandosi sull’attualità di un mondo dove è sempre più stridente il contrasto fra chi ha e chi non può nemmeno sognare di potere avere, un giorno. Se per una comprensione piena del predecessore poteva essere utile fruirlo come fosse un’opera, seguendo i testi sul libretto, qui diventa pressoché indispensabile. Solo che il versificare si è fatto infinitamente più ellittico, a tratti bordeggiando l’ermetismo. Resta lo squisito disagio dato dalla… verrebbe da dire “discrasia”, non fosse in genere usato, il termine, in un’accezione negativa… fra la cupezza delle liriche e il frizzare di spartiti che frullano rock e blues, jazz e spiritual, suggestioni world e suoni d’ambiente, fra percussioni tribali, chitarre riverberate e sassofoni a grugno duro. Le non infrequenti dissonanze temperate dal solito gusto pop di prim’ordine.

3 commenti

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3 risposte a “I migliori album del 2016 (6): PJ Harvey – The Hope Six Demolition Project (Island)

  1. dischi come questo rimarranno nel tempo: uno dei pochi che non dimenticheremo…

  2. Anonimo

    Non so se qualcuno l’ha vista dal vivo pochi mesi fa a Milano…..
    anche lì non la dimentichi facilmente….

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