“Il più grande batterista della storia del rock? Voto per Jaki Liebezeit, dinamo dei teutonici Can, cuore umano in involucro di macchina, ponte fra tribalismo e futuro, funk ma di un funk bianco, con il senso dello swing che può avere uno che in gioventù suonò con Chet Baker.” (dalla recensione di un album in coppia con Burnt Friedman, “Audio Review”, n.264, gennaio 2006)
Archivi del mese: gennaio 2017
L’uomo che cadde sulla Terra (8)
Life On Mars? (da “Hunky Dory”, RCA, 1971)
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L’uomo che cadde sulla Terra (9)
Rebel Rebel (da “Diamond Dogs”, RCA, 1974)
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I migliori album del 2016 (1): David Bowie – Blackstar (RCA)
Per una volta la fretta è stata un’ottima consigliera. Nel senso che, nonostante l’autore sia venuto a mancare solo due giorni dopo l’uscita (coincidente con il suo sessantanovesimo compleanno) dell’ultima opera, la stragrande maggioranza delle recensioni già era stata pubblicata. Sicché i più hanno giudicato “Blackstar” in base ai meriti (tanti) o demeriti (eccetto forse l’assenza di un singolo “vero”, che mai Bowie aveva fatto mancare in un suo disco, a mio parere nessuno) e non sull’onda dell’enorme emozione suscitata da una dipartita inattesa. Bene così. Poi naturalmente lo si è riascoltato con altre orecchie e la pregnanza testamentaria è risaltata. Si sono magari pure rilette le recensioni e quella di “Pitchfork” ha facilmente vinto la gara per l’incipit definitivo: “David Bowie has died many deaths yet he is still with us”. Concludendo, Ryan Dombal scriveva ancora che “Bowie will live on long after the man has died” e come dargli torto? Sarebbero naturalmente bastati i suoi anni ’70, favolosi come quelli di nessun altro, a garantirglielo, ma “Blackstar” ha aggiunto la postilla, il punto esclamativo che alzi la mano chi se lo sarebbe mai aspettato. Perché sì, nel 2013 “The Next Day” già aveva sorpreso positivamente, inscenando un dignitosissimo ritorno in scena dopo un decennale silenzio a sua volta andato dietro a un ventennio di uscite ciascuna a suo modo più inutile, deludente o sbagliata dell’altra, ma quell’album era tutto rivolto al passato. Laddove questo guarda… al futuro inevitabilmente no. All’eternità? Quella che garantisce la grande arte. Una prospettiva che deve avere confortato chi, mentre ci stava lavorando, doveva confrontarsi con la consapevolezza che forse… forse… Dice Tony Visconti, lo storico produttore di Bowie tornato al mixer per quest’ultimo giro di valzer, che David ha lasciato i demo di cinque canzoni, indizio che probabilmente pensava di avere a disposizione più tempo di quanto non abbia avuto. Spiace. Però un’uscita di scena più magistrale di questa è inimmaginabile.
È un album clamoroso: per qualità; per la capacità di aggiungere qualcosa di inedito a una vicenda artistica variegatissima e lunga oltre mezzo secolo. Qui Bowie se pure recupera certe atmosfere della trilogia berlinese lo fa senza consegnarsi all’elettronica e in un contesto di rock definitivamente “post-”, free come quel jazz alla cui scuola si formarono i musicisti che lo fiancheggiano. La prima facciata – o se preferite la prima metà di programma – è perfetta: i Roxy Music aggiornati all’era dell’hip hop (ecco… questo sarebbe stato un eccellente singolo) dell’incalzante, esplosiva ’Tis A Pity She Was A Whore a separare il peregrinare fra spettri e galassie (in equilibrio incerto su una ritmica dapprincipio stortissima e poi vertiginosamente propulsiva) della traccia omonima da quella Heroes rantolata da un capezzale che è Lazarus. Tour de force dopo il quale scorrono quasi come acqua fresca la cupa nevrosi funk sottesa a chitarre marmoree di Sue (Or In A Season Of Crime) e la cantilenante ossessività di Girl Loves Me. Soprattutto: una Dollar Days dove il sax gigioneggia piuttosto che sferzare, fra scorci da colonna sonora che pacificano l’urgenza pur presente nella voce, e la conclusiva – energicamente confidenziale: un ossimoro – I Can’t Give Everything Away.
La puntina si alza dall’ultimo solco e non per la prima volta mi trovo a pensare che, a lati semplicemente invertiti, se “Blackstar” come meccanismo teatrale avrebbe funzionato meglio emotivamente avrebbe rasentato l’insostenibile. Rischiando però di precipitare nel melodrammatico. Sarebbe stato per l’appunto teatrale quando invece è commovente. Qui un artista immenso che del celarsi dietro una serie di maschere fece la sua cifra esistenziale si offre umanamente nudo per la prima – e ultima – volta.
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L’uomo che cadde sulla Terra (10)
Changes (da “Hunky Dory”, RCA, 1971)
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I migliori album del 2016 (2): Radiohead – A Moon Shaped Pool (XL)
Dice Stanley Donwood, sin dal 1994 autore di tutte le grafiche dei Radiohead e dunque anche dell’artwork di questo loro nono album in studio, che dopo avere dipinto le varie tele che sono andate a comporlo le ha lasciate esposte per qualche giorno all’azione degli agenti atmosferici, così che si deteriorassero, ciascuna in un suo peculiare modo. Le ha poi fotografate e quelle fotografie sono state successivamente ritoccate al computer da lui e Thom Yorke. Mi pare un buon punto da cui partire per raccontare “A Moon Shaped Pool”, che fra le sue undici tracce ne annovera diverse sulle quali la band ha lasciato che il tempo lavorasse. Brani risalenti anche a molti anni fa – un caso eclatante True Love Waits, scritta nel ’95 e, dopo essere stata considerata per l’inclusione in tre album di fila, e scartata, recuperata una prima volta in un live del 2001 – e che per questa o quella ragione, ma certo non per mancanza di qualità, non avevano trovato posto finora nei dischi in studio (qualcuna nei concerti sì). Sussisteva naturalmente il pericolo che un’opera così assemblata, mettendo insieme canzoni scritte in periodi distanti fra loro, finisse per risultare slegata, per parere una raccolta. Non accade. È questo un (capo)lavoro di contraddizioni che trovano un’armoniosa risoluzione, di sovrapposizioni in cui insinuarsi per scovarne il cuore. È l’album più piacevole che mai abbiano pubblicato i Radiohead e il più desolato. Sotto una superficie ghiacciata – i quadri astratti in una respingente gamma dal nero al bianco usati per davanti e retrocopertina e, nell’edizione in vinile, per le due buste – batte un cuore caldo: le due tele coloratissime riprodotte all’interno. O viceversa: polpa di paranoia in scorza pastorale. A seconda del punto di osservazione, fors’anche a seconda dell’umore di chi osserva/ascolta, può sembrare questa cosa o quella, opposta. Non ci si stanca e non ci si stancherà di “A Moon Shaped Pool”. Austero, eppure cesellato di finissimo, ogni dettaglio pronto per un’esegesi.
A True Love Waits – al suo gioco di ingranaggi cigolanti e piano oscuramente blandente, minimalismo post-post-rock avvolto in una lieve distorsione di fondo sottilmente e ulteriormente disturbante – è affidato il congedo. Era toccato a un’altra canzone stagionata (2000!), Burn The Witch, introdurre: alata e nel contempo epica, tesa e scoscesa e appesa a un saettare ossessivo e ronzante di archi. Nel percorso da questa a quella – stabilito semplicemente sistemando i titoli in ordine alfabetico: eppure si ha l’impressione che fosse l’unica traiettoria logica, che a scombinarla tutto crollerebbe tipo castello di carte – ci si imbatte in alcune tra le macchinazioni più straordinarie di un gruppo che fa da lungi categoria a sé. Tipo Decks Dark, bucolica quanto robotica (versante Philip K. Dick piuttosto che Isaac Asimov). Tipo lo stupefacente in ogni senso weird folk di Desert Island Disk. O la scheggia di Joy Division Identikit. O, rituffandoci in ambientazioni sf, Tinker Tailor Soldier Sailor Rich Man Poor Man Beggar Man Thief, propulsa come da uno sbuffare di ingranaggi a vapore e sequestrata nel procedere da un’orchestrazione sempre più imponente. Avrei potuto soffermarmi su altri brani ancora, ma questo mi preme di più sottolineare: che “A Moon Shaped Pool” è quanto di più emotivo abbiano pubblicato i Radiohead – ovvero un gruppo che ha sempre abitato le regioni della testa preferendole alle ragioni del cuore – da Creep in avanti.
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L’uomo che cadde sulla Terra (11)
The Man Who Sold The World (dall’album omonimo, Mercury, 1970)
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I migliori album del 2016 (3): Ray LaMontagne – Ouroboros (RCA)
Per essere perfetto al sesto album di Ray LaMontagne manca forse un disco: ai quaranta minuti scarsi (appena meno della durata standard per un artista che pure in questo ha sempre avuto senso della misura) di queste otto nuove incisioni in studio sarebbe stato carino aggiungere un live. Altre due ideali facciate nelle quali riprendere brani scelti del repertorio passato possibilmente rivisitandoli alla luce di questo sound nuovo ma antico. Il mitologico serpente cui allude il titolo dell’opera si sarebbe allora davvero morso la coda e gli anni ’10 avrebbero avuto il loro “Ummagumma”. Dirà qualcuno che non ne hanno bisogno. Ma anche sì? Concettualmente sarebbe stato comunque un colpo da maestro.
Curioso che l’album con il potenziale commerciale maggiore del nostro uomo abbia avuto una performance relativamente deludente, fuori dai Top 10 USA quando i tre immediati predecessori erano tutti saliti fino a una vertiginosa terza posizione. In compenso, in questa nostra epoca superficiale in cui l’interesse per un disco si esaurisce in una raffica di recensioni pubblicate in contemporanea (perché è diventato inconcepibile arrivare secondi) e in tre o quattro giorni di commenti sui social media, “Ouroboros” ha tutte le qualità per restare. A partire dal singolo che avrebbe dovuto lanciarlo e che invece (non che LaMontagne abbia mai frequentato quella di hit parade) è stato un flop. E tuttavia Hey, No Pressure si candida all’eternità spicciola di radio che potrebbero averlo in rotazione pure fra decenni, forte di un’epica Led Zeppelin che è qui uno dei due soli punti di contatto, essendo l’altro il blues slowcore The Changing Man che gli va subito dietro, con l’album prima, “Supernova”, una produzione di Dan Auerbach dei Black Keys, ricorderete. Sono i due episodi più turgidi di una prima metà/facciata di programma aperta dall’estatico/narcotico folk-rock di Homecoming e suggellata dal coro ultraterreno con cui ci si congeda dalla febbrilmente solenne While It Still Beats. Lo giriamo?
Se finora la roca voce baritonale di Ray LaMontagne lo aveva fatto collocare in una landa mediana fra Van Morrison e Tim Buckley, mentre gli spartiti riuscivano incredibilmente a fare incrociare Nick Drake e la Band, qui gli angoli sono vistosamente smussati e un chiaro referente pare – ebbene sì – Roger Waters. Più che altrove naturalmente nel tour de force di In My Own Way, 6’36” da qualche parte fra “Meddle” e “Wish You Were Here” e dunque dalle parti di “Dark Side Of The Moon”. Fatto salvo che lo si trasloca in California (Jonathan Wilson osserva benevolo). Fatto salvo che il languore salva l’assieme da certo un po’ frigido perfezionismo floydiano. Seguono la ballatona ultrapsych Another Day e, dopo lo strumentale A Murmuration Of Starlings nei cui crediti si torna a cercare il nome di David Gilmour, il piccolo gran finale Wouldn’t It Make A Lovely Photograph: come una novella Hurdy Gurdy Man (Donovan) con vista sul Laurel Canyon. Tutta roba già sentita, interverrà cinico il qualcuno di cui sopra. D’accordo. Qui la si vuole sentire ancora. E ancora. E ancora. Per tutti gli altri c’è Bon Iver.
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L’uomo che cadde sulla Terra (12)
Starman (da “The Rise And Fall Of Ziggy Stardust And The Spiders From Mars”, RCA, 1972)
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I migliori album del 2016 (4): A Tribe Called Quest – We Got It From Here… Thank You 4 Your Service (Epic)
Doppiamente inaspettato l’ultimo – in ogni senso – album della posse newyorkese: perché, a diciotto anni da quel “The Love Movement” che sembrava avere messo il punto a capo definitivo a una delle epopee che hanno fatto la Storia della black, nessuno si attendeva una postilla; ma, soprattutto, perché era inimmaginabile un nuovo finale di simili eleganza e pregnanza. Un capolavoro, insomma. Un altro. E che rappresenti pure il congedo – da questa terra, dopo avere battagliato contro la malattia per ventisei dei quarantacinque anni che ha vissuto – del rapper Phife Dawg in luogo di allungare un’ombra di malinconia sul disco lo ammanta di un’aura gloriosa. Giacché se qualcosa può sconfiggere la morte è l’Arte.
Da dove cominciare? Dagli ospiti? Vale solo per sottolineare l’enorme rispetto di cui gli A Tribe Called Quest godono sia nell’ambito di quell’hip hop che cominciavano a rivoluzionare nel 1990 con l’epocale “People’s Instinctive Travels” – offrono camei fra gli altri Busta Rhymes, Talib Kweli, Kendrick Lamar, Kanye West e André 3000 – che in area pop-rock ed ecco fare capolino Jack White ed Elton John. Altro conta: che più che a qualunque altro dei cinque predecessori “We Got It From Here…” si riallacci proprio al debutto, quasi anello mancante fra quello e il diversamente colossale – lì si celebrava il primo e fra i più memorabili matrimoni fra rap e jazz – “The Low End Theory”. Quasi: siccome gli attempati ragazzi nel mentre ritrovano l’ispirazione hippy-hop che li accomunò ai compagni di merende floreali De La Soul e Jungle Brothers la collocano in una cornice 100% 2016. Non un sospetto di nostalgia in sedici formidabili tracce che girano fra austerità hardcore e seduzione soul, pulsioni funk, una svisata rock, un affondo raggamuffin.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.382, dicembre 2016.
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