È che nell’epoca in cui vivono i Wolf People probabilmente l’Internet non esiste ancora e dunque figurarsi Wikipedia. Solo così può spiegarsi l’assenza di una scheda loro dedicata sulla nota enciclopedia “on line”. Fatto assurdo e tuttavia non più di un rimanere culto noto al massimo a chi è abbonato a “Shindig” mentre, per dire, un altro gruppo al pari palesemente retromaniaco (e meno talentuoso) come i Kings Of Leon capeggia la classifica USA con la più recente uscita proprio nel momento in cui scrivo queste righe. Non che ai nostri eroi importi più di tanto, credo. I quattro giovanotti del Bedfordshire continuano felicemente ad abitare le discografie ereditate presumibilmente, più che dai fratelli maggiori, dai padri e ad aggiungerne ogni tanto uno loro di album a quelle collezioni. “Ruins” è il terzo o il quarto, contando una raccolta, arriva a tre anni dal superlativo “Fain” e come i predecessori vede la luce per un’indipendente americana di ottima reputazione. Però inadeguata a gestire una band dal potenziale commerciale elevato, quasi clamoroso. Perché la forza dei Wolf People è quella di rivolgersi sia agli appassionati con la storia del rock sulla punta delle dita che, potenzialmente, a un pubblico meno sofisticato ma pronto a farsi conquistare dal riff marmoreo, dalla cavalcata guerriera.
Innamoratissimo di “Fain”, ho trovato più di grana grossa le pur non poche seduzioni che offre il sospirato seguito. Posto un po’ in secondo piano l’amore per certo folk-rock progressivo di fine ’60/inizio ’70 (rimarchevole eccezione una Salt Mills immaginabile dagli Steeleye Span), qui i ragazzi quasi saltano i Jethro Tull più hard e puntano direttamente Led Zeppelin e Black Sabbath. Nella radio del mio cuore un pezzo come Ninth Night sarà sempre in heavy rotation.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.382, dicembre 2016.
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