Provo a contare gli album confezionati da Conor Oberst dacché nel 1993 – tredicenne, signori miei, tredicenne… – si autoproduceva in trecento copie la cassetta “Water” e dopo un po’ rinuncio. C’è da perdersi già solo aggirandosi fra le discografie dei gruppi che ha capeggiato: Bright Eyes, Commander Venus, Desaparecidos, Park Ave., Monsters Of Folk. Tanta roba e, a dirla tutta, troppa: un talento potenzialmente grandissimo – qui e là illuminazioni di immenso – sciaguratamente disperso fra i mille rivoli di una produzione tale da scoraggiare pure il più tenace dei cultori. Benché la media si sia conservata discretamente alta, non sarebbe stato meglio – retoricissima domanda – focalizzarsi (per quanto intrighi l’ampiezza dell’arco musicale coperto, dal noise al folk) e selezionare di più? E ogni tanto fermarsi, tirare un bel respiro e riflettere. Sia come sia: nell’ottobre 2015 il nostro uomo doveva cancellare le ultime date di un tour dei Desaparecidos perché ricoverato in ospedale, vittima di una laringite ma soprattutto di attacchi d’ansia e di un generale stato di esaurimento psicofisico. Costretto infine a riposarsi. Naturalmente, non sarebbe stato lui se non avesse tirato le somme dell’accaduto, se non di una vita, scrivendo una nuova manciata di canzoni. Il risultato è il suo lavoro forse più intimista di sempre, il più raccolto e misurato. Ambizioni al minimo, risultato massimo.
Sono dieci brani alternativamente per voce e chitarra acustica o voce e piano, con a punteggiare un’armonica più dylaniana di Dylan. Ballate asciutte fra il confessionale e il brioso, qui desolate e lì sferzanti. Di seduzione melodica talvolta strepitosa e c’è da pensare che, se solo l’avesse voluto, Conor avrebbe potuto essere il James Taylor della sua generazione. O il Paul Simon.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.383, gennaio 2017.