Amerigo Verardi – Hippie Dixit (The Prisoner)

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Bel colpo, bel coraggio in un tempo in cui l’attenzione è sempre più volatile e una bulimia di ascolti porta a ingurgitare e digerire dischi tornando raramente sui propri passi (chi già approfondisce, laddove il resto del mondo funziona a Spotify e YouTube) pubblicare un lavoro siffatto. Non è solo perché è doppio e dura quasi cento minuti che “Hippie Dixit” è un album di altri tempi: fatto è che proprio come un album è stato concepito, che esige un approccio non distratto in una o due (trattandosi di doppio) sedute e rispettandone una scaletta congegnata per renderlo ciò che è. A mischiarla potrebbe risultare migliore o peggiore, ma certamente diverrebbe cosa “altra”. Così si segnala come una delle migliori e più suggestive uscite italiane (e non solo) del 2016.

Trentennale il percorso artistico del Verardi, avviato con i neo-psichedelici Allison Run e Betty’s Blues e proseguito, una volta abbandonato l’inglese per l’italiano nei testi, con altri nomi di culto come Lula e Lotus, un paio di collaborazioni con Marco Ancona e diversi dischi da solista, l’ultimo dei quali risaliva però a ben diciannove anni fa. A più riprese ha incrociato gente poi divenuta famosa (per dire: Carmen Consoli e Baustelle) e facilmente sarebbe potuto diventare famoso lui (chiedere a Manuel Agnelli, che lo stima) con il gusto che ha per la melodia insidiosa, che entra in testa senza parere. Stupito mi sono scoperto a canticchiarle alcune delle quattordici tracce che sfilano in un’opera monumentale e nondimeno del tutto fruibile: suggestioni mediterranee infiltrate alla Claudio Rocchi in un’idea di India, il primo Alan Sorrenti redivivo, Tangeri trasferita in una California che è quella di Tim Buckley ma ricollocata alle porte del Cosmo che, si sa, stanno lassù in Germania.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.383, gennaio 2017.

13 commenti

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13 risposte a “Amerigo Verardi – Hippie Dixit (The Prisoner)

  1. DaDa

    Credo che sarà uno dei miei (pochi) acquisti dell’anno, anche perchè con gli Allison Run all’epoca mi fece sognare. Per non parlare di Lula e Betty’s Blues ….

  2. Gian Luigi Bona

    Un disco complesso e molto bello, uno di quei dischi che non metti via dopo qualche ascolto.

  3. Francesco Manca

    Io l’ho ascoltato tutto d’un fiato: un disco evocativo, psichedelico, profondo e leggero, senza mai un momento di stanchezza, tra l’altro è proprio vero che ti ritrovi a canticchiare le canzoni subito dopo…

  4. Anonimo

    Grazie Venerato Master, non lo conoscevo, …sottoscrivo tutto.

  5. Mauro

    Ciao Eddy, come tutti quelli cresciuti musicalmente negli anni ottanta a pane e Mucchio Selvaggio (e poi Velvet) ho avuto per anni una sorta di idiosincrasia nei confronti di alcune espressioni musicali (progressive, disco music, heavy metal e… musica italiana). Col tempo, anche grazie a te, ho scoperto che non tutto era da buttare ed ho recuperato se non altro i capisaldi. So che sei restio a scrivere di artisti italiani, e ne hai anche spiegato il motivo, ma mi piacerebbe se pubblicassi una lista di quelli (50? 100?) che secondo te sono i dischi “italiani” da possedere anche da un rockettaro anglofono impenitente come me.

  6. Enrico Murgia

    Sarebbe un bellissimo regalo…

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