Per essere un album eccezionalmente influente di un gruppo assai riverito e che da lì a breve vivrà momenti di stardom autentico, “Cheap Trick” ha venduto singolarmente poco. All’epoca dell’uscita, quando nemmeno riusciva a entrare nei Top 200 di “Billboard”, e nei trentotto anni trascorsi: tant’è che negli Stati Uniti deve ancora essere certificato d’oro quando i tre successivi lavori in studio sono da lungi di platino e di platini il live “At Budokan” ne ha collezionati tre. Idolatrati in Giappone, Robin Zander, Rick Nielsen, Tom Petersson e Bun E. Carlos registravano un album in concerto per ringraziare l’adorante platea locale ed era precisamente quell’album a farli diventare profeti anche in patria, di rimbalzo. Consigliatissimo, “At Budokan”.
Nondimeno il disco più rappresentativo del quartetto resta un debutto in studio che rende perfettamente plausibile il suo essere implausibilissimo anello di congiunzione fra George Martin (più avanti l’ex-produttore dei Beatles firmerà la regia di “All Shook Up”, ma sarà un mezzo disastro) e Steve Albini (che designerà a lato A del singolo più famoso dei suoi Big Black una cover di He’s A Whore). Capace di mettere insieme la seduttività melodica dei Fab Four e l’incisività dei riff degli Who, con a buon rendere un tocco di sfacciataggine glam, “Cheap Trick” ha trovato nei decenni estimatori nei circoli più diversi e lontani: per non citare che alcuni fra i cultori dichiarati si possono ritenere in qualche misura sua progenie Smashing Pumpkins e Nirvana, i Green Day così come Foo Fighters e Weezer, i Mötley Crue ma anche i Trans AM, gli Urge Overkill, i Fountains Of Wayne. Essendo il classico LP che si trova sulle bancarelle a dieci euro o meno, il lettore potrebbe legittimamente chiedersi quale sia il senso di spendere tre volte tanto per questa stampa Speakers Corner calda di pressa. Non se lo chiederà più dopo avere strabuzzato… le orecchie di fronte a una ripresa sonora letteralmente tridimensionale che esalta oltre il dicibile quello che in fondo è solo rock’n’roll per voci, due chitarre, basso e batteria. Ma ci piace, oh se ci piace…
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.366, agosto 2015.
Gruppo…seminale, non si dice così?
Curiosità: è davvero questo il loro album più rappresentativo? Ho sempre pensato che fosse “In Color”, per la copertina (e il retro, e la combinazione dei due) e per “Hello There” e “I Want You To Want Me”.
Pazzesco pensare a dischi che da ggggiovini imberbi schifavamo come la peste, ora con l’età (ehm…) avanzata siano invece oggetto quasi da heavy rotation. Del resto, come potevamo fidarci di uno dei gruppi preferiti da Marco Predolin (dico, Marco Pre-do-lin…), allora sedicente vj della mesozoica era di TeleRadioCity da Castelletto d’Orba, l’unica TV privata pre-Casalbore che trasmetteva i video musicali? Eppure, eppure…solo il paraocchi da alternativi della mutua poteva impedirci di venire folgorati da un discone come questo, dalle bordate chitarristiche unite all’iracondo tambureggiare da Who hardelici dell’iniziale “ELO Kiddies” (eh no, la Electric Light Orchestra c’entrava meno di zero…), per proseguire con i Raspberries che ispirano i Beatles e non viceversa della irresistibile “Taxman, Mr. Thief”, insegnando due o tre cosette al Paul Westerberg che verrà, giù giù fino a quella cavalcata al calor bianco di “He’s a Whore”. PS: e rinunciateci voi ai tre dischi successivi (che varranno magari un po’ meno come assieme, ma aggregano un tot di pezzi da farci un – doppio – Greatest Hits stellare…
Diciamo che è il mio preferito. Sia per la qualità delle canzoni che per la rilevanza che ha assunto con il senno del poi. “In Color” si piazza comunque secondo, senza discussioni.