La musica ribelle di Eugenio Finardi, quarant’anni dopo

Gioventù e futuro non sono più quelli di una volta. Viviamo un’era grama in cui ragazzetti nell’anima, quando l’anagrafe li vorrebbe uomini, si sorprendono trentenni in crisi. Non avendo sfortunatamente chiaro che, come sintetizzato magistralmente da Michele Monina, in Italia “l’indie non esiste, è solo il pop mainstream che non si caga nessuno”. E allora ci pare strano che ci sia stato un tempo in cui il pop muoveva le coscienze, forgiava le generazioni, ed erano poco più che ventenni a esserne protagonisti. Eugenio Finardi sta festeggiando “40 anni di musica ribelle” e non ne aveva che ventiquattro quando scriveva il pezzo al quale il suo nome è maggiormente legato. Sistemandolo in apertura di un album classico cui avrebbe fatto subito seguire un secondo capolavoro. Facendogli andare rapidamente dietro minimo quell’altra mezza dozzina di brani che sono rimasti nell’immaginario collettivo e che continuano a parlarci con una forza che la quasi totalità della musica odierna manco si sogna. Tuttora attuali e andateci a uno spettacolo dell’Eugenio, guardatevi attorno: scoprirete un pubblico che naturalmente per metà è di reduci, e di fratelli minori dei reduci, ma per il resto è spiazzantemente giovane. Sono quelli che si entusiasmano di più, quelli che conoscono i testi a memoria e li cantano fieri. E adesso dai, ditemi una canzone, una sola, di chiunque, che in questo secolo seminuovo ci abbia segnato altrettanto.

Oltre che da alcuni concerti il quarantennale della Musica ribelle viene celebrato con un cofanetto (Universal) che contiene i cinque LP che l’artista milanese pubblicò in altrettanti anni, dal 1975 al 1979, per la Cramps. Il Finardi che si riaffaccerà alla ribalta nell’81 con un album omonimo (il primo di sette per la Fonit-Cetra), nel quale suscitando scandalo si farà dare una mano per i testi da Valerio Negrini, paroliere dei Pooh, sarà la stessa ma un’altra cosa. Manterrà costantemente un’intima coerenza (pure in anni Duemila marcati da giravolte stilistiche da vertigini) e firmerà, seppure disseminandole in un arco assai più ampio, un’altra mezza dozzina di canzoni di assoluta memorabilità, ma guardando la musica italiana come di lato. Similmente al Dylan post-incidente motociclistico, non più nel flusso delle cose, non più intento a cantare che i tempi stavano cambiando e, facendolo, a cambiarli i tempi. “40 anni di musica ribelle” è un viaggio emozionante perché simultaneamente racconto di un percorso artistico e umano eccezionale e fotografia in movimento di un’epoca irripetibile di sogni, contraddizioni, drammi.

Del suo inizio, “Non gettate alcun oggetto dai finestrini”, direi che è ora di rivalutarlo. Saranno pure ingenue le parole – commoventi però, con lo sguardo timido e insieme sfacciato che gettano sul futuro: “but until I get old/I’ll just be singing my rock & roll” programma cui l’autore si è mostrato fedele – ma gli spartiti appaiono già straordinariamente promettenti. Paradossalmente, in modo particolare nell’unico titolo non autografo, il folk delle risaie Saluteremo il signor padrone, reso dapprincipio come un hard quasi proto-punk e da lì in transito verso un mosso jazz-rock, con la coppia Hugh Bullen/Walter Calloni (la migliore sezione ritmica che mai abbia operato nel nostro paese: l’ho detto) già in spolvero. Nondimeno lo stacco con il successivo “Sugo” mozza il fiato. Pronti e via ed è Musica ribelle: istantanea generazionale fenomenale e rock come non se n’era mai udito dalle nostre parti e, in questa forma, raramente altrove. Con il violino in luogo della chitarra elettrica a disegnare la melodia, il ritornello una sarabanda guerriera e il basso e la batteria a incalzare fluidi. Segue il country’n’western sfrenato La radio. Segue una sospesa, misterica Quasar in tutto degna di quei Weather Report che apertamente omaggia. Ed è incredibile che ci sia ancora vita e ispirazione dopo un un-due-tre sì micidiale: con il rock’n’roll Soldi, con una Ninnananna di afflato addirittura cameristico, con il jazzeggiare liquido e ondeggiante, che troverà pieno sviluppo nella title track dell’album successivo, di Sulla strada. E ancora: con una Voglio che parte elegante e arriva deflagrante, cattiva; con la delicatissima Oggi ho imparato a volare; con lo scherzo reggae La C.I.A.; con La paura del domani, congedo storto e inquieto.

Il domani immediato si chiamerà “Diesel”. Invocherà Tutto subito, evocherà Joni Mitchell in Scuola, darà consigli a figli che ancora non ci sono con Non diventare grande mai, parlerà di quotidianità del rapporto di coppia con Non è nel cuore e di eroina in Scimmia. Pazienza per la pur musicalmente valida Giai Phong, irrealistico bollettino della vittoria da Saigon che lo stesso Eugenio si affretterà a smentire appena un anno dopo nella fulminante Cuba: un calypso per sanzionare che la lotta non è più continua, che forse è stato tutto un sogno, un’illusione; “che viviamo in un momento di riflusso/e ci sembra che ci stia cadendo il mondo addosso”. Altri sono i musicisti in “Blitz”, non più il giro Area/P.F.M./Battisti ma i giovanissimi Crisalide, e la musica è ancora (e anzi sempre di più) variegata, ma meno imprendibile. È il disco dell’escapista Extraterrestre, della dolente Come un animale, di una seconda musica ribelle mascherata da Op.29 in do maggiore. “Roccando rollando” sarà chiusa dimessa, pur piacevolmente minore, indimenticabile giusto nell’aggraziata danza acustica de La canzone dell’acqua.

Il diavolo sovente si nasconde nei dettagli. Forte di un remastering di strepitosa (stre-pi-to-sa) qualità e di un libro a corredo finalmente degno di analoghe operazioni delle discografie britannica e americana, “40 anni di musica ribelle” non pensa all’audiofilo quando lo costringe a mettere di suo delle buste antistatiche per proteggere dal rischio di graffi i preziosi (a proposito: in vendita sugli ottanta euro) vinili. Quel che più annoia è che la scatola abbia angoli inadeguati al peso di cotanto contenuto: in molti hanno già segnalato che il box si rompe e il Vostro affezionato deve tristemente confermare.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.382, dicembre 2016.

6 commenti

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6 risposte a “La musica ribelle di Eugenio Finardi, quarant’anni dopo

  1. Gian Luigi Bona

    Mette un po’ tristezza pensare a quando la musica faceva discutere per ore, erano i tempi in cui un disco era una dichiarazione al mondo.
    Eugenio Finardi resta una certezza, i suoi dischi fanno ancora discutere (anche se purtroppo siamo sempre meno quelli che danno importanza alla musica). Se penso al successo di autori che continuano a ripetere sempre le stesse cose come Vasco Rossi o Ligabue confronto a quello di un autore che si mette sempre in gioco come Eugenio Finardi mi viene male.

  2. Rusty

    Finardi è ancora capace di coinvolgere nei suoi spettacoli, se capita dalle vostre parti non mancate. Bona, chi glielo fa fare a Ligabue e Rossi di mettersi in gioco quando riproponendo la stessa minestra da anni fanno soldi a palate? Poca fatica, massima resa.

  3. Giorgio

    Eddy concordo con te che il remastering è di qualità stre-pi-to-sa, inusuale per una ristampa italiana. Ma il cofanetto presenta un altro problema: una volta finito un lato del vinile, la puntina invece di rimanere sul solco, come sarebbe di regola, va a urtare contro l’etichetta, producendo un rumore terribile. Si è costretti ad alzarsi subito per togliere il disco. Credo proprio che sia un problema comune a tutti i cofanetti, a te non è capitato?

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