
Esattamente un anno a oggi Prince se ne andava: dipartita quantomai intempestiva sia per un’età ancora non certo veneranda che perché lasciava come involontario congedo una sequela di album così così o francamente orrendi, quando il suo inizio di secolo nuovo era stato favoloso. Qui recupero le recensioni di cinque suoi lavori pubblicati fra il 2004 e il 2015.

Musicology (NPG/Columbia, 2004)
Il modo peggiore per accostarsi a questo disco con la certezza di non valutarlo poi affatto per quanto vale, che non è poco, è rimproverare al suo artefice di non essere più uno snodo cruciale del pop come lo fu negli anni ’80 e ancora appena oltre, fino al superlativo “& The New Power Generation” che è del 1992. A parte il fatto che da un dato punto di vista non è per niente vero – in quanto a influenza l’uomo di Minneapolis è centrale adesso più di quanto non fosse nella sua età aurea, visto il peso degli eredi: OutKast, Felix Da Housecat, Cody ChesnuTT, N.E.R.D., per non nominarne che alcuni – sarebbe un po’ come rinfacciare al Bob Dylan che tira fuori un “Time Out Of Mind” di non essere importante quanto all’epoca di “Highway 61 Revisited”. Come se il tempo si potesse fermare, come se a chi ha inscenato rivoluzioni non fosse poi consentito non dico un tranquillo tran-tran ma il licenziare lavori semplicemente eccelsi, non copernicani rivolgimenti, non fughe nel futuro. Colui che da qualche tempo possiamo di nuovo chiamare Prince verrà ricordato per “Musicology” se sarà su un album o due o tre che si concentrerà il ricordo? No di certo. “Musicology” è un grande disco e nello specifico un grande disco di Prince? Assolutamente sì. È un grande ritorno? No, ma soltanto perché Prince non se n’era forse mai andato (giocava a nascondino, quello sì, e noi eravamo distratti: capita) e se se n’era andato aveva già cominciato a tornare nel 2001 con il lunare, schizofrenico e a tratti genialoide “The Rainbow Children”. È rientrato in alveo major e questo lo rende di nuovo visibile: ottima cosa.
Ecco: volendo a tutti i costi muovere una critica a “Musicology” si può annotare che della precedente prova in studio, cui peraltro è superiore, non ha i vertiginosi guizzi, quel frenetico, a momenti zorniano rimbalzare fra generi all’interno di uno stesso brano, e attribuire ciò se non a diktat della Columbia (che il signor Roger Nelson non sia uno che si fa condizionare lo testimonia la sua storia) a un legittimo desiderio di essere, in un passaggio così importante, accessibile. Ma a che vale lamentarsene se il risultato sono canzoni di questa incisività? A partire da quella che inaugura e intitola, tastiere petulantemente ’80 innestate/innescate in un superbo funk di pura scuola James Brown, e proseguendo con il gusto da hip hop primigenio di Illusion, Coma, Pimp & Circumstance, con la squisita seduzione soul dalle parti di Purple Rain di Call My Name, con il rotolante basso wave e la chitarra hard di Cinnamon Girl, con il blueseggiare di On The Couch. Niente male, a un abbondante quarto di secolo dagli esordi.
Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.14, estate 2004.

3121 (NPG/Universal, 2006)
Tralasciando le innumerevoli realizzazioni “private” e il monumentale triplo dal vivo “One Nite Alone”, siamo al terzo atto della rivincita inscenata nel corrente decennio dall’Artista Che Per Qualche Tempo Non Volle Più Farsi Chiamare Prince. Il primo era stato, nel 2001, l’ineguale ma a tratti folgorante guazzabuglio stilistico, da Frank Zappa negro, di “The Rainbow Children”. Il secondo, nel 2004, il ritorno a una più canonica forma “canzone” e a vendite di tutto rispetto con “Musicology”, ritorno anche a una multinazionale del disco dopo il burrascoso divorzio dalla Warner, con un contratto per quel solo album con la Columbia. La vendetta nei confronti di quanti lo diedero per finito, cioè quasi tutto il mondo compreso il sottoscritto, si è completata con un lavoro che sin dai primi ascolti è parso candidarsi a riportare il Nostro in cima alle classifiche, dopo che in vetta a una particolare graduatoria era già tornato giustappunto nel 2004: cinquantasei milioni e mezzo di dollari i ricavi dei suoi spettacoli live, numero uno della stagione negli Stati Uniti.
Predestinati alla gloria il singolo Te amo corazon, sorta di tango con piano latin jazz, e una ballatona come Beautiful, Loved & Blessed, che in materia di modern soul dimostra come Roger Nelson sia in grado di dare lezioni a praticamente tutti gli epigoni. Promettono però di restare ancora più a lungo nella memoria i brani ritmicamente più accesi, da una traccia omonima che è un animale funk dagli artigli affilati a una singultante e mooolto clintoniana Lolita, da un’iperammiccante con tanto di rap Incense And Candles a una strepitosa Fury, che è una novella Kiss dal rockappiglio e dalla densità elevate al quadrato. Così come la collisione fra flamenco e hip hop di The Word e il favoloso soul-blues, da pieni ’60, di Satisfied e cosa ci si ritrova in mano dunque, a conti fatti? Magari non il Prince più bello, pur essendo notevolissimo, da “Purple Rain” in avanti: però quello commercialmente più solido.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio – Annuario 2006”.

Planet Earth (NPG/Columbia, 2007)
Peccato! Peccato che il frastuono mediatico che ha salutato l’uscita di questo disco in Gran Bretagna in omaggio con un quotidiano, e perdipiù in anticipo sulla data ufficiale di pubblicazione e la distribuzione nei negozi (a un prezzo analogo a quello delle novità di fascia alta), abbia finito per fare passare in secondo piano qualunque seria analisi del disco in sé. La notizia d’altronde era curiosa, né è mancato chi ha saputo fare discorsi intelligenti sull’apparentemente irreversibile perdita di valore della musica registrata. Della quale l’operazione “Planet Earth” si è limitata a prendere atto, rilanciando e trasformando, con un colpo di genio da parte di uno che economicamente ha sempre saputo gestirsi bene, la disfatta dell’industria nel trionfo del musicista. Non più schiavo, come il Nostro arrivò a scriversi in fronte a pennarello all’ormai lontana epoca della durissima polemica con la Warner.
Ma dicevo: peccato. Peccato che, tutti impegnati a discettare di massimi sistemi, nessuno si si sia accorto che “Planet Earth” incidentalmente è un lavoro con fiocchi e controfiocchi e insomma in questo nuovo decennio/secolo/millennio l’Artista Che Ha Ripreso A Farsi Chiamare Prince non ha ancora sbagliato un colpo. Quattro indizi, da “The Rainbow Children” in avanti, fanno più che una prova di come si sia definitivamente lasciato alle spalle i suoi buissimi anni ’90. Anche patetici, anche ridicoli dopo i due magistrali colpi piazzati in apertura. La scaletta di quest’album potrebbe mischiarsi a quelle memorabili pressoché in toto di “Diamonds And Pearls” e “Prince & The New Power Generation” e nessuno individuerebbe le intrusioni. Si consegnano alle future antologie, in rigoroso ordine di apparizione alla ribalta: l’insieme squadrata e sculettante Guitar, una Somewhere Here On Earth ricamata di jazz dalla tromba, la roboante e con un bel tocco di surf The One U Wanna C, la tenera All The Midnights In The World, una Chelsea Rodgers che il basso fa rotolare a rotta di collo verso una disco da manuale. Come minimo queste, ecco.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.638, settembre 2007.

Lotusflow3r (NPG, 2009)
Ne uccide più la fava che la spada e pure gli uomini più intelligenti possono venire diretti da un organo che non è il cervello. Ma non era diventato testimone di Geova, Prince? È un duro colpo alla fantasia che lo voleva indifferente alla carne che, cinquantenne e giunto a pubblicare l’album ufficiale numero ventisei, ceda a una tentazione cui nemmeno all’epoca in cui era circondato da più gnocca di Rocco Siffredi aveva ceduto: legarsi così strettamente a una protetta da costringere l’acquirente di un suo disco – che poi in questo caso sono due – a comprarsene un secondo. Che in questo caso è il terzo.
Non mi diffonderò (ne avrete letto pure sui quotidiani: per certi aspetti l’omino di Minneapolis è ancora geniale) sulle particolari modalità di commercializzazione di “LotusFlow3r”. Vado al sodo: al fatto che trattasi, più che di un vero triplo, di tre album nella medesima confezione. Uno sarebbe l’esordio di Bria Valente: grande fi… sico e voce passabile. Peccato che, visto che c’era, il buon Prince non abbia pensato a regalarle almeno una canzone minimamente memorabile. Si arriva al fondo dei tre quarti d’ora di “Elixer” con la sensazione di avere ascoltato… il nulla. È errebì da filodiffusione al cui confronto Sade potrebbe sembrare Aretha. Ben altra musica per fortuna nel dischetto che intitola l’opera tutta, nettamente il lavoro più hendrixiano di sempre del Nostro. Talvolta esagerato in grinta e volumi ma con qualche canzone proprio niente male – ad esempio Feel Good, Feel Better, Feel Wonderful (quasi una nuova Kiss) – a bilanciare lo scivolone di una Love Like Jazz viceversa imbarazzantemente light. Ci si sarebbe potuti lasciare così e invece no. Prince se non esagera non è lui ed ecco “MPLSound”. Che parte benissimo, p-funkeggiando alla Parliament, ma si va subito a incagliare nelle secche di lagne senza scusanti. Con Valentina si arriva a un auspicabilmente insuperabile apice di ridicolo e a una certezza: che ne uccida… eccetera.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.658, maggio 2009.

HITnRUN Phase One (NPG/Universal, 2015)
Prince come Neil Young? In questo senso: che così come l’artista canadese, dopo un decennio artisticamente e commercialmente buio (nel suo caso, gli anni ’80 quasi interi), improvvisamente ritrovò ispirazione e riacquisì rilevanza infilando una serie di album all’altezza dei precedenti classici, anche l’uomo di Minneapolis ha vissuto un prolungato periodo negativo (i ’90 quasi interi) per poi tornare in ogni senso in auge. Dopo di che, esattamente come Neil Young, pure Prince ha preso ad alternare a lavori ancora eccellenti cadute di tono brusche, talvolta rovinose. Per dire: bruttarelli assai il triplo box del 2009 “LotusFlow3r” e il seguito del 2010 “20Ten” e invece diversamente ottima l’accoppiata dello scorso anno “Plectrumelectrum” (una collezione di jam fra rock e funk) più “Art Official Age” (una raccolta di canzoni in prevalenza rhythm’n’blues). Si aspettava con fiducia questo nuovo “HITnRUN” e invece…
Invece è una delle sue prove più deludenti e raffazzonate di sempre e che razza di autogol è evocare subito, in una Million $ Show che campiona 1999 e Let’s Go Crazy, il gloriosissimo passato che sappiamo. Il confronto è francamente impietoso e da lì in avanti, raggiunto il fondo, spesso si scava, fra electro scolastica (Shut This Down, Like A Mack), ballate melliflue senza una melodia come si deve a redimerle (la già nota e notevolmente peggiorata This Could Be Us, June), techno sui generis (Mr. Nelson). Provo volonterosamente a salvare qualcosa e ne salta fuori un ideale singolo, con sul lato A il vivace pop Fallinlove2nite e sul retro Ain’t About To Stop, melodia orientaleggiante e un break funky. In altri tempi Prince le avrebbe regalate entrambe a una qualche sua protetta.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.368, settembre 2015.
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