Archivi del mese: aprile 2017

Rap e rivolta sociale (quando Los Angeles bruciò)

Il 3 marzo 1991 Rodney King, un pregiudicato afroamericano, venne fermato durante un “normale” controllo da alcuni agenti del Dipartimento di Polizia di Los Angeles. Come pare essere “normale” da quelle parti se la tua pelle non è del colore giusto, venne brutalmente percosso, senza nessuna giustificazione. Ciò che quella sera sfuggì alla “normalità” fu che un videoamatore riprese il tutto e che le immagini del pestaggio fecero il giro del mondo suscitando enorme scalpore. A dispetto dell’evidenza dei fatti, il 29 aprile dell’anno dopo i poliziotti squadristi vennero assolti. Prima che calassero le ombre della sera il cielo di Los Angeles era illuminato dagli incendi. Per alcuni giorni i più gravi disordini razziali degli ultimi trent’anni tennero in ostaggio la seconda città degli Stati Uniti.

Scritto a ceneri ancora calde e pubblicato nel 1993 (titolo originale It’s Not About A Salary… Rap, Race + Resistance In Los Angeles), l’eccellente studio di Brian Cross sul rap losangeleno patisce inevitabilmente il grave ritardo dell’uscita italiana. Si perde, almeno in parte, l’impatto del commento a caldo. Senza contare che cinque anni nell’hip hop equivalgono a dieci, se non quindici, nel rock. Resta nondimeno una lettura appassionante e illuminante, esemplare per articolazione (alla parte saggistica segue una lunga serie di interviste a produttori, rapper e DJ) e per la capacità di arrivare ad analisi sociologiche non banali partendo dalla musica e da quanto ci sta attorno. Ammesso che con l’hip hop sia possibile fare questa distinzione, visto che è stile di vita come nessun altro genere musicale nella storia. Cross non dà voce soltanto alle star, ma anche ai pionieri (l’intervista ai Watts Prophets è imperdibile) e all’uomo della strada, e dà il giusto rilievo all’influenza esercitata dagli ispanoamericani nella nascita e nell’evoluzione della scena.

Cinque anni nell’hip hop, si è detto, sono un’eternità. Il gangsta-rap è oggi quasi un ricordo. E siccome la storia ama ripetersi è meno paradossale di quanto sembri che le conclusioni della prima parte di Hip hop a Los Angeles suonino nel 1998, con l’Old Skool che sta tornando prepotentemente in auge, attuali come non mai: “…l’hip hop a L.A. oggi è una comunità di camere da letto, microfoni aperti occasionali e frequenze radio. Nelle case di tutta la città la gente si raccoglie intorno a giradischi, collezioni di dischi, SP1200 e MPC60 per creare dei mondi che si intersecano e assorbono la realtà. In una rete di cassette, campionamenti difficili da trovare, club nomadi e spesso sotterranei… agenti dei beat mettono insieme il collage della colonna sonora per la sopravvivenza urbana”. (Shake, pp.258)

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.7, settembre/ottobre 1998. A oggi sono trascorsi esattamente venticinque anni da quell’assurda sentenza e dai disordini che le andarono dietro.

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Gang – Calibro 77 (Rumble Beat)

“E tutto che sembrava pronto/per fare la rivoluzione/ma era una tua immagine o soltanto/una bella intenzione”, cantava nel 1976 Giorgio Gaber in I reduci, brano di apertura di “Libertà obbligatoria”. Per poi concludere amaro che “già a vent’anni siam qui a raccontare/ai nipoti che noi/noi buttavamo tutto in aria/e c’era un senso di vittoria/come se tenesse conto del coraggio la storia”. Così Gaber si congedava dall’utopia sessantottina. Così, inconsapevole o preveggente, un anno in anticipo già annunciava la sconfitta del Movimento che a breve avrebbe occupato strade e università. Figli in ogni senso del ’77 – politicamente come musicalmente, ma la loro musica era d’importazione e si chiamava punk-rock – i Gang scelgono proprio I reduci per congedarsi da questa resa dei conti con la loro precedente educazione sentimentale. E la chiusa d’organo di un brano girato significativamente in blues ha un che di definitivo. Solo che poi ti viene da rischiacciare “play” e ripartire, da Sulla strada, dal Finardi di “Sugo” (sempre 1976), il jazz accantonato e in suo luogo un bel piglio funk.

Ancora troppo recente (2015) “Sangue e cenere”, ed esito di una gestazione troppo incredibilmente lunga (ma quanto fruttuosa!) perché già gli si possano fare andare dietro pezzi nuovi, la banda dei Severini sceglie di dargli un seguito con questa collezione di cover, di cui pure da tantissimo si favoleggiava. Brani che del ’77 furono colonna sonora e vengono ripresi con un affetto che non indulge al rispetto eccessivo. Sicché nulla vieta di trasportare in Centro America il De Gregori di Cercando un altro Egitto, di iniettare di soul il De André di Canzone del maggio o di virare country il Bennato di Venderò. Decisiva la produzione americana (Jono Manson) per evitare l’effetto nostalgia.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.385, marzo 2017.

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Prince, nel secolo nuovo

Esattamente un anno a oggi Prince se ne andava: dipartita quantomai intempestiva sia per un’età ancora non certo veneranda che perché lasciava come involontario congedo una sequela di album così così o francamente orrendi, quando il suo inizio di secolo nuovo era stato favoloso. Qui recupero le recensioni di cinque suoi lavori pubblicati fra il 2004 e il 2015.

Musicology (NPG/Columbia, 2004)

Il modo peggiore per accostarsi a questo disco con la certezza di non valutarlo poi affatto per quanto vale, che non è poco, è rimproverare al suo artefice di non essere più uno snodo cruciale del pop come lo fu negli anni ’80 e ancora appena oltre, fino al superlativo “& The New Power Generation” che è del 1992. A parte il fatto che da un dato punto di vista non è per niente vero – in quanto a influenza l’uomo di Minneapolis è centrale adesso più di quanto non fosse nella sua età aurea, visto il peso degli eredi: OutKast, Felix Da Housecat, Cody ChesnuTT, N.E.R.D., per non nominarne che alcuni – sarebbe un po’ come rinfacciare al Bob Dylan che tira fuori un “Time Out Of Mind” di non essere importante quanto all’epoca di “Highway 61 Revisited”. Come se il tempo si potesse fermare, come se a chi ha inscenato rivoluzioni non fosse poi consentito non dico un tranquillo tran-tran ma il licenziare lavori semplicemente eccelsi, non copernicani rivolgimenti, non fughe nel futuro. Colui che da qualche tempo possiamo di nuovo chiamare Prince verrà ricordato per “Musicology” se sarà su un album o due o tre che si concentrerà il ricordo? No di certo. “Musicology” è un grande disco e nello specifico un grande disco di Prince? Assolutamente sì. È un grande ritorno? No, ma soltanto perché Prince non se n’era forse mai andato (giocava a nascondino, quello sì, e noi eravamo distratti: capita) e se se n’era andato aveva già cominciato a tornare nel 2001 con il lunare, schizofrenico e a tratti genialoide “The Rainbow Children”. È rientrato in alveo major e questo lo rende di nuovo visibile: ottima cosa.

Ecco: volendo a tutti i costi muovere una critica a “Musicology” si può annotare che della precedente prova in studio, cui peraltro è superiore, non ha i vertiginosi guizzi, quel frenetico, a momenti zorniano rimbalzare fra generi all’interno di uno stesso brano, e attribuire ciò se non a diktat della Columbia (che il signor Roger Nelson non sia uno che si fa condizionare lo testimonia la sua storia) a un legittimo desiderio di essere, in un passaggio così importante, accessibile. Ma a che vale lamentarsene se il risultato sono canzoni di questa incisività? A partire da quella che inaugura e intitola, tastiere petulantemente ’80 innestate/innescate in un superbo funk di pura scuola James Brown, e proseguendo con il gusto da hip hop primigenio di Illusion, Coma, Pimp & Circumstance, con la squisita seduzione soul dalle parti di Purple Rain di Call My Name, con il rotolante basso wave e la chitarra hard di Cinnamon Girl, con il blueseggiare di On The Couch. Niente male, a un abbondante quarto di secolo dagli esordi.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.14, estate 2004.

3121 (NPG/Universal, 2006)

Tralasciando le innumerevoli realizzazioni “private” e il monumentale triplo dal vivo “One Nite Alone”, siamo al terzo atto della rivincita inscenata nel corrente decennio dall’Artista Che Per Qualche Tempo Non Volle Più Farsi Chiamare Prince. Il primo era stato, nel 2001, l’ineguale ma a tratti folgorante guazzabuglio stilistico, da Frank Zappa negro, di “The Rainbow Children”. Il secondo, nel 2004, il ritorno a una più canonica forma “canzone” e a vendite di tutto rispetto con “Musicology”, ritorno anche a una multinazionale del disco dopo il burrascoso divorzio dalla Warner, con un contratto per quel solo album con la Columbia. La vendetta nei confronti di quanti lo diedero per finito, cioè quasi tutto il mondo compreso il sottoscritto, si è completata con un lavoro che sin dai primi ascolti è parso candidarsi a riportare il Nostro in cima alle classifiche, dopo che in vetta a una particolare graduatoria era già tornato giustappunto nel 2004: cinquantasei milioni e mezzo di dollari i ricavi dei suoi spettacoli live, numero uno della stagione negli Stati Uniti.

Predestinati alla gloria il singolo Te amo corazon, sorta di tango con piano latin jazz, e una ballatona come Beautiful, Loved & Blessed, che in materia di modern soul dimostra come Roger Nelson sia in grado di dare lezioni a praticamente tutti gli epigoni. Promettono però di restare ancora più a lungo nella memoria i brani ritmicamente più accesi, da una traccia omonima che è un animale funk dagli artigli affilati a una singultante e mooolto clintoniana Lolita, da un’iperammiccante con tanto di rap Incense And Candles a una strepitosa Fury, che è una novella Kiss dal rockappiglio e dalla densità elevate al quadrato. Così come la collisione fra flamenco e hip hop di The Word e il favoloso soul-blues, da pieni ’60, di Satisfied e cosa ci si ritrova in mano dunque, a conti fatti? Magari non il Prince più bello, pur essendo notevolissimo, da “Purple Rain” in avanti: però quello commercialmente più solido.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio – Annuario 2006”.

Planet Earth (NPG/Columbia, 2007)

Peccato! Peccato che il frastuono mediatico che ha salutato l’uscita di questo disco in Gran Bretagna in omaggio con un quotidiano, e perdipiù in anticipo sulla data ufficiale di pubblicazione e la distribuzione nei negozi (a un prezzo analogo a quello delle novità di fascia alta), abbia finito per fare passare in secondo piano qualunque seria analisi del disco in sé. La notizia d’altronde era curiosa, né è mancato chi ha saputo fare discorsi intelligenti sull’apparentemente irreversibile perdita di valore della musica registrata. Della quale l’operazione “Planet Earth” si è limitata a prendere atto, rilanciando e trasformando, con un colpo di genio da parte di uno che economicamente ha sempre saputo gestirsi bene, la disfatta dell’industria nel trionfo del musicista. Non più schiavo, come il Nostro arrivò a scriversi in fronte a pennarello all’ormai lontana epoca della durissima polemica con la Warner.

Ma dicevo: peccato. Peccato che, tutti impegnati a discettare di massimi sistemi, nessuno si si sia accorto che “Planet Earth” incidentalmente è un lavoro con fiocchi e controfiocchi e insomma in questo nuovo decennio/secolo/millennio l’Artista Che Ha Ripreso A Farsi Chiamare Prince non ha ancora sbagliato un colpo. Quattro indizi, da “The Rainbow Children” in avanti, fanno più che una prova di come si sia definitivamente lasciato alle spalle i suoi buissimi anni ’90. Anche patetici, anche ridicoli dopo i due magistrali colpi piazzati in apertura. La scaletta di quest’album potrebbe mischiarsi a quelle memorabili pressoché in toto di “Diamonds And Pearls” e “Prince & The New Power Generation” e nessuno individuerebbe le intrusioni. Si consegnano alle future antologie, in rigoroso ordine di apparizione alla ribalta: l’insieme squadrata e sculettante Guitar, una Somewhere Here On Earth ricamata di jazz dalla tromba, la roboante e con un bel tocco di surf The One U Wanna C, la tenera All The Midnights In The World, una Chelsea Rodgers che il basso fa rotolare a rotta di collo verso una disco da manuale. Come minimo queste, ecco.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.638, settembre 2007.

Lotusflow3r (NPG, 2009)

Ne uccide più la fava che la spada e pure gli uomini più intelligenti possono venire diretti da un organo che non è il cervello. Ma non era diventato testimone di Geova, Prince? È un duro colpo alla fantasia che lo voleva indifferente alla carne che, cinquantenne e giunto a pubblicare l’album ufficiale numero ventisei, ceda a una tentazione cui nemmeno all’epoca in cui era circondato da più gnocca di Rocco Siffredi aveva ceduto: legarsi così strettamente a una protetta da costringere l’acquirente di un suo disco – che poi in questo caso sono due – a comprarsene un secondo. Che in questo caso è il terzo.

Non mi diffonderò (ne avrete letto pure sui quotidiani: per certi aspetti l’omino di Minneapolis è ancora geniale) sulle particolari modalità di commercializzazione di “LotusFlow3r”. Vado al sodo: al fatto che trattasi, più che di un vero triplo, di tre album nella medesima confezione. Uno sarebbe l’esordio di Bria Valente: grande fi… sico e voce passabile. Peccato che, visto che c’era, il buon Prince non abbia pensato a regalarle almeno una canzone minimamente memorabile. Si arriva al fondo dei tre quarti d’ora di “Elixer” con la sensazione di avere ascoltato… il nulla. È errebì da filodiffusione al cui confronto Sade potrebbe sembrare Aretha. Ben altra musica per fortuna nel dischetto che intitola l’opera tutta, nettamente il lavoro più hendrixiano di sempre del Nostro. Talvolta esagerato in grinta e volumi ma con qualche canzone proprio niente male – ad esempio Feel Good, Feel Better, Feel Wonderful (quasi una nuova Kiss) – a bilanciare lo scivolone di una Love Like Jazz viceversa imbarazzantemente light. Ci si sarebbe potuti lasciare così e invece no. Prince se non esagera non è lui ed ecco “MPLSound”. Che parte benissimo, p-funkeggiando alla Parliament, ma si va subito a incagliare nelle secche di lagne senza scusanti. Con Valentina si arriva a un auspicabilmente insuperabile apice di ridicolo e a una certezza: che ne uccida… eccetera.

Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.658, maggio 2009.

HITnRUN Phase One (NPG/Universal, 2015)

Prince come Neil Young? In questo senso: che così come l’artista canadese, dopo un decennio artisticamente e commercialmente buio (nel suo caso, gli anni ’80 quasi interi), improvvisamente ritrovò ispirazione e riacquisì rilevanza infilando una serie di album all’altezza dei precedenti classici, anche l’uomo di Minneapolis ha vissuto un prolungato periodo negativo (i ’90 quasi interi) per poi tornare in ogni senso in auge. Dopo di che, esattamente come Neil Young, pure Prince ha preso ad alternare a lavori ancora eccellenti cadute di tono brusche, talvolta rovinose. Per dire: bruttarelli assai il triplo box del 2009 “LotusFlow3r” e il seguito del 2010 “20Ten” e invece diversamente ottima l’accoppiata dello scorso anno “Plectrumelectrum” (una collezione di jam fra rock e funk) più “Art Official Age” (una raccolta di canzoni in prevalenza rhythm’n’blues). Si aspettava con fiducia questo nuovo “HITnRUN” e invece…

Invece è una delle sue prove più deludenti e raffazzonate di sempre e che razza di autogol è evocare subito, in una Million $ Show che campiona 1999 e Let’s Go Crazy, il gloriosissimo passato che sappiamo. Il confronto è francamente impietoso e da lì in avanti, raggiunto il fondo, spesso si scava, fra electro scolastica (Shut This Down, Like A Mack), ballate melliflue senza una melodia come si deve a redimerle (la già nota e notevolmente peggiorata This Could Be Us, June), techno sui generis (Mr. Nelson). Provo volonterosamente a salvare qualcosa e ne salta fuori un ideale singolo, con sul lato A il vivace pop Fallinlove2nite e sul retro Ain’t About To Stop, melodia orientaleggiante e un break funky. In altri tempi Prince le avrebbe regalate entrambe a una qualche sua protetta.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.368, settembre 2015.

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Audio Review n.386

È in edicola il numero 386 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni dei nuovi album di Clap! Clap!, Clap Your Hands Say Yeah, Feelies, Robyn Hitchcock, Kid Cudi, Sondre Lerche, Conor Oberst, Old 97’s, Shins, Son Volt, Tamikrest, Temples, Thundercat e Wire. Nella rubrica del vinile ho scritto di Pretenders, Elvis Costello e Ray Charles.

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I R.E.M., sulla strada verso l’uscita

Per i R.E.M. ho un amore infinito. Una predilezione speciale anche perché ci affacciammo alla ribalta più o meno insieme (loro appena prima) e insomma mi offrirono il privilegio (con i Clash ero sfortunatamente arrivato troppo tardi) di raccontare un gruppo “della vita” in diretta. Nel mentre lo diventava, un gruppo “della vita”. Ho scritto molto di loro. Nel 1992 curai e tradussi una raccolta di interviste per Arcana. Nel 1997 scrissi un libricino per Giunti. E nel 2001, sul numero 2 di “Extra”, firmai uno dei miei articoli più lunghi di sempre, quasi settantamila battute. Era appena uscito l’ottimo “Reveal”. Sempre per “Extra” recensii poi gli assai meno soddisfacenti “Around The Sun” e “Accelerate”. Del congedo “Collapse Into Now” non ebbi invece modo di occuparmi. Se devo essere sincero, ne ho un ricordo vago. Devo averlo ascoltato al massimo tre o quattro volte e poi mai più. Sono contento che si siano sciolti. Spero che non tornino mai su una decisione saggia. Sciuperebbero un romanzo pressoché (miracolosamente) perfetto.

Around The Sun (Warner Bros, 2004)

C’è chi va in crisi al settimo anno o al passaggio da un’indipendente a una multinazionale, chi ci rimette la buccia sul fatidico scoglio del “difficile secondo album”, chi un disco bello sul serio, per non dire un capolavoro, non l’ha mai fatto. La stragrande maggioranza, questi ultimi, di coloro che pubblicano musica. E poi ci sono i R.E.M.: un complesso – proprio adesso, nell’ora più buia e anzi nella prima buia davvero (e son pur sempre chiaroscuri), si può e si deve dirlo – unico nella storia del rock. Perché trovatene un altro che sia durato così a lungo, venti abbondanti anni e dodici album prima di questo, senza un calo di tensione, senza andare in pezzi nemmeno nel momento in cui i pezzi ha cominciato a perderli non per modo di dire, con l’abbandono di Bill Berry. Allora, hanno scritto in molti, il non-più-quartetto di Athens avrebbe dovuto fermarsi, lasciandosi dietro una discografia immacolata e per congedo uno zenit chiamato “New Adventures In Hi-Fi”. L’ultima prova di vera grandezza? E sia. Ma rinunci alle arditezze di “Up!” e al classicismo di “Reveal” chi nella musica all’incrocio fra il vecchio e il nuovo secolo ha trovato una simile abbondanza di canzoni pop memorabili e oneste da non sapere che farsene di quelle dei Georgiani, di Daysleeper come di At My Most Beautiful, di All The Way To Reno piuttosto che I’ve Been High o Imitation Of Life. Ci faccia sapere in che pianeta vive e lo raggiungeremo subito.

Restando nel nostro, scopriamo dei R.E.M. in un certo qual senso inediti: prevedibili, cioè. Per la prima volta un gruppo sempre riconoscibilissimo, ma in qualche miracoloso modo sempre diverso (si torni sul suo percorso e si noterà come ogni disco sia stato concepito in opposizione al predecessore, non come una replica), si arrende allo stereotipo, non cerca più di rifinire un canone che era sembrato nascere già perfettamente formato. “Around The Sun” riprende a tratti i suoni di “Up!” senza accompagnare loro l’efficacia melodica di “Reveal”, aspira a essere un altro “Automatic For The People” senza mai eguagliarne il pathos. Fra un paio di brani moderatamente brillanti – l’incantata Leaving New York, una traccia omonima di liturgico afflato – sistema undici canzoni assolutamente “già sentite”. Non serve una Make It All Okay da chi ci ha regalato Everybody Hurts, non si sa che farsene di una Boy In The Well avendo già Drive. È come se stavolta si guardasse al mondo di Stipe, Buck e Mills da dietro un vetro opaco che rende tutto indistinto, come le figure che campeggiano in copertina.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.16, inverno 2005.

Accelerate (Warner Bros, 2008)

Colpa – merito? – dei Rolling Stones. Perché un conto è essere un solista e avere una carriera ventennale o su di lì: mica devi preoccuparti di far durare in armonia (non ci si tiri i piatti, almeno) un matrimonio allargato del quale oltretutto i contraenti possono cambiare. Non ti tocca tenere d’occhio il chitarrista, con la paranoia che le scappatelle diventino tradimento. Non corri il rischio di scoprirti precario perché il bassista o il batterista hanno optato per una pensione – secondo te – anticipata. E quel che più conta non devi logorarti discutendo su ogni canzone/album/tour. Però Jagger e soci hanno dimostrato che, dai, si può fare, conservando la dignità e piazzando occasionalmente la zampata del vecchio leone. Ma… ringraziarli? Forse sarebbe troppo.

Non saprei dire a che punto della loro parabola si possano collocare i Georgiani, se con “Accelerate” siano arrivati a “Tattoo You” (non un brutto approdo) o si trovino oltre e magari parecchio. Era però un tratto critico da percorrere l’ultimo, il più critico a oggi essendo stato in tutta evidenza “Around The Sun” un inedito inciampo, schizzo deturpante sulla tela altrimenti immacolata di una discografia incredibilmente – per un gruppo che si apprestava allora a celebrare il primo quarto di secolo e vede adesso all’orizzonte il trentennale – perfetta. Del che Stipe, Buck e Mills devono essersi ben resi conto. Ergo i quattro anni trascorsi, il più lungo degli intervalli fra un lavoro in studio e un altro, e non induceva a pronostici favorevoli il “Live” onesto e modesto uscito nel frattempo. Ergo una certa aria di sfida, trasmessa già dalla concisione del programma – undici brani, trentacinque minuti, come si usava in quell’era del vinile cui i Nostri appartengono ancora – e soprattutto da un indice dei decibel in clamoroso rialzo. Era da tanto che i R.E.M. promettevano un disco di rock duro e puro, insomma il seguito posticipato sine die di “Monster”, e finalmente l’hanno fatto. Finalmente? Se “Accelerate” ha un problema non è una scrittura in più di un frangente (Supernatural Superserious, Hollow Man, Until The Day Is Done) brillante ma la muscolare uniformità degli arrangiamenti. Come se si stesse ancora a fare i conti con It’s The End Of The World. È un ritorno in quota. Che ciò ne giustifichi l’esistenza è dibattibile.

Pubblicato per la prima volta su “Extra”, n.31, estate 2009.

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