Archivi del mese: Maggio 2017

Un Lenny Kravitz magari da recuperare

Sarà che era il disco che lo rendeva una megastar e per un certo pubblico in Italia il successo è il più imperdonabile dei peccati. Sarà che arrivava dopo un esordio già spettacolare (“Let Love Rule”, dell’89) e un indiscutibile capolavoro (“Mama Said”, del ’91). Fatto è che sin dall’uscita quello che fu il terzo album in studio di Lenny Kravitz, di cui viene adesso approntata per il ventennale una riedizione superallargata, è nella volgata comune quello che segnava il principio di un declino artistico subitaneo e rovinoso quanto l’ascesa mercantile era trionfale. Da lì a breve quel pubblico guarderà a Kravitz come a una macchietta e, va detto, con più di un’ottima ragione. Pressoché tutta la produzione successiva è indifendibile, in testa quel “5” che collezionava ori e platini.

Riascoltato dopo tantissimo, “Are You Gonna Go My Way” si appalesa invece assai meglio di quanto non fosse nel ricordo. Magari difettoso di quell’estro capace di riscattare i predecessori da ogni accusa di copia conforme, quando degli evidenti modelli – Sly Stone, Curtis Mayfield, Hendrix, Lennon – sono eccezionalmente abili nel mischiare i DNA, ma altrettanto sicuramente ancora generoso di canzoni brillanti. Tipo una traccia omonima e inaugurale che macina hard da paura, tipo il secco funk Come On And Love Me, o ancora un’ultrasentimentale Black Girl, o un’ultrapsych My Love. Ulteriore e positiva sorpresa è che il gruzzoletto di lati B recuperati per l’occasione sia di un livello medio che mai ti saresti atteso (svetta il blues in odore di… Barry White di For The First Time). Viceversa prescindibile un secondo disco di versioni acustiche, demo, inediti un po’ così.

Pubblicato per la prima volta su “Blow Up”, n.185, ottobre 2013. Lenny Kravitz compie oggi cinquantatré anni.

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Audio Review n.387

È in edicola dalla scorsa settimana il numero 387 di “Audio Review”. Contiene mie recensioni dei nuovi album di Cindy Lee Berryhill, British Sea Power, Dave & Russ Davies, Drake, Bob Dylan, Craig Finn, Greg Graffin, Heliocentrics, Garland Jeffreys, Kendrick Lamar, Arto Lindsay, New Pornographers, New Street Adventure, Laetitia Sadier Source Ensemble e Soulwax e di una ristampa degli Uriah Heep. Nella rubrica del vinile mi sono occupato dei Blue Öyster Cult.

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Tinariwen – Elwan (Wedge)

Sarebbe bello per una volta potere scrivere dei Tinariwen saltando la loro storia di guerriglieri che, costretti a usare le armi nel tentativo a oggi vano di fondare una nazione per quello che resta un popolo senza patria – tuareg o imajeghen che dir si voglia – a un certo punto rendono la loro battaglia pure culturale e lo fanno imbracciando delle chitarre elettriche. Sarebbe bello occuparsene non dovendo aggiornare il lettore (l’informazione che dovrebbe provvedere se ne guarda bene) sulla situazione disperata del Mali e sul prolungarsi dell’esilio dei nostri eroi, una volta nomadi in viaggio da questa a quella oasi e oggi peregrinanti fra club, teatri, festival e sale d’incisione (“Elwan” è stato registrato, fra il 2014 e il 2016, fra Francia, Marocco e California). Sarebbe bello recensire un loro nuovo album – questo è il settimo da quando nel 2001 “The Radio Tisdas Sessions” svelava a un mondo stupefatto un suono fino a quel punto circolato solo in Nordafrica, su cassette di qualità tecnica approssimativa – concentrandosi sulla musica e basta. Ci proviamo?

Dura scegliere in una discografia di eccezionale qualità media e nondimeno bastano un paio di ascolti per suscitare la sensazione – che un altro paio di passaggi trasforma in certezza – di avere fra le mani il lavoro più potente congegnato da questi combat rockers non in metafora da quel “Amassakoul”, datato 2004, sinora considerato il loro capolavoro. “Elwan” se la gioca da una prima traccia (vi risparmio i perlopiù impronunciabili titoli) incalzante e turbinosa, corale e ipnotica, sveltamente seguita da una seconda che è un’apoteosi di basso funk (tornerà, travolgentemente, nella decima) e chitarre distorte. Nel 2017 semplicemente non ci sono né un altro blues né un’altra psichedelia che abbiano il senso e l’urgenza di “Elwan”.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.385, marzo 2017.

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Di altri Scritti nell’Anima – Oggi, al Salone del Libro

Per chi vuole e può, l’appuntamento è oggi al Salone del Libro di Torino alle 14.30 (stand Archimede, pad 2 – H142-J141).  Ci saremo io e gli amici Carlo Bordone e Antonio Bacciocchi e si faranno quattro chiacchiere riguardo ai volumi che abbiamo curato nella collana di Vololibero Soul Books. Argomenti: James Brown, Curtis Mayfield e Ray Charles. Maestro di Cerimonie un signore che due cose di musica nera le sa: Cosimo Ammendolia.

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It was 51 years ago today (2)

Bob Dylan – Blonde On Blonde (Columbia, 1966)

Inciso a Nashville durante le pause concesse da un tour mondiale e perlopiù con navigati musicisti del posto (della Band c’è soltanto Robbie Robertson; Al Kooper fa il regista), il primo album doppio della storia del rock è la versione estesa, raffinata e pacificata di “Highway 61 Revisited”. Impressionantemente cresciuto è un eclettismo che consente di presentarsi con la marcetta di gusto felliniano, che trasmuta in vaudeville western, di Rainy Day Women # 12 & 35 e congedarsi con gli undici minuti filati della sognante, favolistica Sad Eyed Lady Of The Lowlands (un unico brano a occupare una facciata: nessuno aveva mai osato). In mezzo c’è parecchio blues (affilato in Pledging My Time, dinoccolato in Leopard-Skin Pill-Box Hat, striato di jazz e country in Temporary Like Achilles), ci sono shuffle chiesastici (Memphis Blues Again) e valzerini (4th Time Around), c’è il primo country-punk di sempre (Jason & The Scorchers non dovranno eccedere in foga per fare loro Absolutely Sweet Marie). Più di tutto, ci sono le gentili allucinazioni di Visions Of Johanna, una memorabilissima canzone d’amore come I Want You, romantica e spumeggiante, e la canzone definitiva di non-amore: Just Like A Woman.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti 2012. A oggi sono passati esattamente cinquantun anni dall’uscita di  “Blonde On Blonde”.

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It was 51 years ago today (1)

The Beach Boys – Pet Sounds (Capitol, 1966)

Migliore album di tutti i tempi per il “Times”. Passando alla stampa specializzata, l’undicesimo LP in studio dei Beach Boys è stato analogamente votato massimo capolavoro della popular music dal mensile “Mojo” nel 1995 e dal settimanale “New Musical Express” nel ’97. Nel 2003 il quattordicinale “Rolling Stone” lo piazzava invece “soltanto” secondo in una classifica di cinquecento titoli. Il primo? “Sgt.Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, ossia un disco che Paul McCartney ha sempre dichiarato essere stato influenzatissimo proprio da “Pet Sounds”. Laddove Brian Wilson non ha mai nascosto che senza “Rubber Soul” (per inciso: quinto nella graduatoria di cui sopra) “Pet Sounds” sarebbe stato a sua volta parecchio diverso o, addirittura, non sarebbe stato per nulla. Non si dà probabilmente altro caso in questo volume di influenze reciproche tanto virtuose e produttive.

Di ritorno a inizio 1966 da un tour di tre settimane di Giappone e Hawaii, sono i restanti Boys (da un anno il leader ha annunciato il ritiro dagli spettacoli dal vivo) i primi a restare sbalorditi dai brani che il maggiore dei fratelli Wilson ha scritto nel frattempo. Ancora di più, dai complessi arrangiamenti che va cucendo loro addosso. Figurarsi allora quanto devono restare spiazzati alla Capitol da una musica che con le canzoncine surf d’antan dei ragazzi non condivide che l’intricatezza delle armonie vocali. Tutto è viceversa cambiato attorno, ricchissimo un tessuto strumentale che agli arnesi classici del rock – chitarra, basso e batteria – non si limita ad aggiungere un profluvio di archi e tastiere, ottoni e legni. Osa inserendo dal theremin al campanello di bicicletta, da un harpsichord a un abbaiare di cani, a una lattina di Coca Cola trasformata in percussione. Come i troppi e troppo spesso orrendi emuli chiariranno, non fossero validissime di partenza le canzoni, non fosse studiatissimo e misuratissimo ogni dettaglio questo pop-rock fra il sinfonico e lo psichedelico risulterebbe un indigeribile pasticcio. È invece la pietra miliare che dal giorno dell’uscita – 16 maggio 1966 – si dice che sia.

Pubblicato per la prima volta in Rock – 1000 dischi fondamentali, Giunti 2012. A oggi sono passati esattamente cinquantun anni dall’uscita di “Pet Sounds”.

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Prossimamente nelle migliori librerie

E, auspicabilmente, anche nelle peggiori.

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Mark Eitzel – Hey Ferryman (Decor)

Non contando gli oscurissimi primi passi post-adolescenziali e post-punk con Cowboys e Naked Skinnies (e una cassetta autoprodotta da solista), Mark Eitzel è sotto i riflettori dal 1985, l’anno di “The Restless Stranger”, debutto degli American Music Club. Da allora e per un intensissimo, abbondante quarto di secolo ha buttato fuori dischi a getto continuo, molti alla testa del gruppo summenzionato (scioltosi a metà ’90, il Club si riformava da lì a un decennio per un paio di apprezzabili postille a un romanzo formidabile) e ancora di più usando la propria identità anagrafica. Catalogo ineguale ma con apici di enorme pregio che, al netto di uno sfortunato flirt con la discografia maggiore all’epoca in cui il successo dei Nirvana dava a tutti una possibilità, lo ha reso il più tipico degli eroi “di culto”: come un Morrissey californiano, con Raymond Carver in luogo di Oscar Wilde come modello esistenziale ed estetico. Per chi ne ha seguito la vicenda biografica con l’affetto che si deve ai “beautiful losers”, l’insolito e prolungato – cinque anni – silenzio andato dietro al precedente “Don’t Be A Stranger” non è stato una sorpresa. Quello usciva dopo che per poco un infarto non si era portato via l’artefice e che il nostro uomo abbia rallentato ci sta.

Inconsuetamente atteso, “Hey Mr Ferryman” premia i cultori con una dozzina di canzoni nella media alta del repertorio. Regia e chitarra solista (sopra le righe, con gusto talvolta glam) dell’ex-Suede Bernard Butler, si destreggia fra lo scanzonato folk-rock di The Last Ten Years e la dolcissima ninnananna Sleep From My Eyes, nell’ampio arco compreso, per tramite del blues Mr Humphries, fra una An Angel’s Wing… che potrebbe essere di Caetano Veloso e i National in fregola latina di La llorona.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.385, marzo 2017.

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Vinile n.7

È in edicola dalla scorsa settimana il numero 7 di “Vinile”. Ho contribuito con un articolo di quattordici pagine in cui racconto un po’ di cose riguardo al grunge, alla Sub Pop, ai venti singoli più rari che recano impresso quel riverito marchio.

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