Il Verbo imprendibile del Beck di “Odelay”

Era il critico americano Rob Sheffield a uscirsene con questa fulminante equazione: il Beck degli esordi stava a Kurt Cobain come Snoopy a Charlie Brown. Quant’è vero! Un genio in apparenza 100% istinto e innocenza a fronte di uno incapace di venire a patti con la perdita dell’innocenza stessa. Un “perdente” che in Loser invocava di essere fatto fuori – deliziosa commedia in partenza e tanto più nell’istante in cui il brano irrompeva in ogni classifica – a fronte di un vincente che non sapeva perdonarsi di esserlo e si faceva fuori da solo. Si potrebbero raccontare i primi anni ’90 giocandosela tutta sulle dicotomie “Mellow Gold”/”In Utero”, Loser contro Smells Like Teen Spirit. Siccome Beck Hansen ha per fortuna poi avuto una carriera giunta a oggi e ha continuato a regalarci dischi come minimo intriganti, con il senno di poi possiamo naturalmente dire che a grattare la superficie si trovava, già nell’esordio e parecchio di più due anni dopo in “Odelay”, una stratificazione di riferimenti e significati irriducibili all’immagine di poeta pin-up con una chitarra, una batteria elettronica e una tavola da surf. E che c’era molta ironia, ma non soltanto ironia. A riascoltarlo nel ventennale della prima pubblicazione pare, più del debutto “vero” o di successori pure quotati come “Mutations” e “Sea Change”, il capolavoro del Nostro. Quello dove ha meglio declinato un Verbo imprendibile. Il folk che si fa hip hop, che si fa blues, che si fa noise, che si fa bossanova, che si fa punk, che si fa funk, che si fa psichedelia, che si fa mariachi, che si fa pop, che si fa country. Eccetera.

Già nel 2008 questo indiscutibile classico aveva beneficiato di una ristampa, allora su Original Recordings Group e in quel caso mostruosamente espansa e lussuosa, quattro LP e un libro, per un prezzo al pubblico che si aggirava sui cento euro (chi investì fece bene, sul mercato dei collezionisti quell’edizione gira attualmente a due-tre volte tanto). Ci si limita ora a riprendere la scaletta originale, naturalmente a un prezzo (sui 22 euro, comprensivi di un codice per scaricare i file audio, disponibili sia in mp3 che in wav) assai più abbordabile. La stampa ORG risolveva il problema dell’elevato minutaggio (54’13”, più o meno equamente divisi sui due lati) spalmando il programma su tre facciate anziché due. Qui non si poteva, se non raddoppiando l’esborso richiesto, ma volumi e dinamica restano accettabili. Buona l’immagine stereo e silenzioso il vinile, una tantum (trattandosi di major, che su certi dettagli spesso cadono miseramente) ospitato in una busta antistatica.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.384, febbraio 2017.

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