Da lungi inoltratosi in quella che per noi umani sarebbe la terza età (festeggerà il settantaquattresimo compleanno il 29 giugno), Garland Jeffreys continua invece felicemente a vivere una terza giovinezza di cui “14 Steps To Harlem” è il terzo atto, dopo “The King Of In Between” del 2011 e lo splendido “Truth Serum” del 2013. Un po’ piglia la malinconia, al pensiero di come il suo orizzonte sia inevitabilmente limitato. Quanti altri album? Quanti tour? Ma poi la si allontana e ne prende il posto la gratitudine per una classe di grandi artisti – Garland era appena più giovane dell’amico fraterno Lou Reed e ha giusto qualche anno più di un’altra sua conoscenza, Bruce Springsteen – che ha deciso che si dovesse andare oltre il manifesto giovanil/nichilista degli Who di My Generation. Che il rock potesse essere la missione di una vita.
Figlio della più meticcia e cosmopolita delle metropoli, Jeffreys ha vissuto ragazzino le epopee del doo wop e del rock’n’roll, studiato il blues nel mentre si imbeveva di cultura europea a Firenze, assorbito la lezione del soul negli anni in cui frequentava la New York dei Velvet. Salvo poi innamorarsi del reggae come di certa musica latina. Di tutto ciò il suo sound è sempre stato sinossi peculiare e accattivante e in tal senso “14 Steps” è appieno nel solco di negletti classici quali “Ghost Writer” (1977) o “Escape Artist” (1980). Qui due cover piacevolmente pletoriche – una Waiting For The Man risolta da “Rock’n’Roll Animal”, la Help dei Beatles rallentata e illanguidita – si accompagnano a dieci prove autografe di inappuntabile solidità. Si tratti di un indiavolato Schoolyard Blues o di un Reggae On Broadway alla Clash, di una spumeggiante Spanish Heart o di un accorato (Laurie Anderson al violino) Luna Park Love Theme.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.387, maggio 2017.