Fra saudade e spleen: l’esilio londinese di Caetano Veloso

Avrei voluto iniziare citando l’Alighieri e i suoi versi su quanto sappia di sale il pane altrui. Gli studi liceali sono però lontani e la memoria non mi soccorre. Fate conto che l’abbia fatto. Nello sguardo del giovane Caetano Veloso sulla copertina di questo suo album l’amarezza dell’esilio è tangibile quanto nelle parole del nostro sommo poeta. La pelliccia che stringe al petto (il clima inglese non è fatto per chi è nato a Bahia) ricorda cosa riferì a casa del suo arrivo a Londra: “Dicono che qui sia estate. Io sto scrivendo vestito con un immenso giaccone di pelle”. Vi era giunto nel 1969, personaggio troppo controverso (fra gli alfieri di quel movimento tropicalista che rivoluzionò il pop brasiliano) perché la giunta militare che governava il suo paese potesse tollerarne l’attività e troppo famoso perché potesse sbarazzarsene impunemente. Da cui l’esilio.

Passa un anno e mezzo prima che la giustificata saudade del Nostro si traduca in canzoni. E lì – sorpresa! – si fa spleen (che non è la stessa cosa). Nel suo quarto LP, terzo consecutivo a chiamarsi “Caetano Veloso”, l’artista di Bahia ripone nel cassetto dei ricordi la sgargiante psichedelia tropicalista, canta in inglese e scopre in sé (occhio all’anno! 1971) afflati drakiani. Subito esplicitati da una A Little More Blue che stabilisce, con il suo lirismo raccolto e gentile, carico di indicibili malinconie, il tono generale dell’opera. Ribadito dal tenerissimo calypso di London, London e da Maria Bethania, toccante lettera alla sorella carezzata da vocalizzi alati e un violino drammatico. Né vale meno il resto del programma di un album che fa storia a sé nella sconfinata discografia velosiana. In ogni caso uno dei più memorabili.

Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.198, gennaio 2000. O Maestro compie oggi settantacinque anni.

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