Dove eravamo rimasti? Ah, già. A quel “Helplessness Blues” che nel 2011 non solo collezionava recensioni ditirambiche (finendo nelle playlist di più o meno qualunque testata possa venirvi in mente) ma anche una curiosa nomination a un Grammy nella categoria “Best Folk Album” (curiosa in quanto si provava a incasellare un lavoro mercuriale, in cui il folk non è che un elemento) e vendite importanti. Consolidando le posizioni raggiunte già tre anni prima dalla compagine di Seattle con un esordio omonimo. A un passo dallo stardom, quello vero, cosa pensava bene allora di fare Robin Pecknold? Fondatore del gruppo, cantante, chitarrista, arrangiatore, autore della totalità del repertorio. Di mettere tutto in pausa e tornare ai suoi studi universitari. Molto rock’n’roll, eh? Deve nel frattempo averla presa quella benedetta laurea alla Columbia se adesso i Fleet Foxes, confermando di essere una creazione di sua esclusiva proprietà, tornano in pista. Sebbene orfani di quel Josh Tillman divenuto nel frattempo una stellina in proprio con l’alias Father John Misty. Facendo musica che usa all’incirca gli stessi ingredienti, meno estrosa ma più accattivante.
Annotato il cambio di casa discografica (salto non da poco, dalla Sub Pop a un’etichetta nel giro major ma di ascendenze colte) e vista una copertina in stile ECM che segna uno stacco rispetto a una precedente estetica di gusto psichedelico, ci si potrebbero attendere rivoluzioni. Invece no. “Crack-Up” riparte da dove “Helplessness Blues” finiva e dispensa altri cinquantacinque minuti di post-folk orchestrale devoto a Brian Wilson e inclinante al progressive. La sensazione, dopo innumerevoli ascolti, è che a questo giri la magia non scatti. Che stavolta grandi ambizioni producano musica ammirevole ma non memorabile.
Pubblicato per la prima volta su “Audio Review”, n.388, giugno 2017.