Fa strano dirlo e constatarlo di nuovo proprio oggi: a fronte delle centinaia di libri che hanno come argomento, tanto per citare un nome non a caso, Bruce Springsteen pochissimo è stato scritto su Tom Petty. Mi risultano appena tre sue biografie e fra l’altro tutte di recente pubblicazione, uscite fra il 2014 e il 2016. La sproporzione pare clamorosa ma, d’altra parte, pure John Mellencamp ha trovato pochissimi esegeti, pochissimi cantori: un paio.
Notando ciò tempo fa proponevo a una rivista con cui collaboro una lunga monografia dedicata all’Heartbreaker, da fare uscire in coincidenza con il suo sessantacinquesimo compleanno. L’offerta veniva cortesemente declinata e allora per celebrare uno degli eroi più… silenziosi, eppure più presenti del mio pantheon musicale non mi restava che ripescare, qui su VMO, un articolo ben più breve, scritto cinque anni prima ancora per un’altra testata. Lo riprendo oggi. Magari un giorno mi ritroverò a spendere molte più parole per Petty. Quando avrò elaborato il lutto per uno capace di congedarsi (il secondo Mudcrutch una nota a pie’ di pagina; oppure la perfetta chiusura di cerchio) con “Hypnotic Eye”. Uno degli album più belli degli Heartbreakers, il solo che abbia mai capeggiato la classifica di “Billboard”.

“Mai capito cosa ci sia di tanto figo nel fare dischi che poi ascoltano in quattro”: così, in un’intervista concessa a Dave Marsh, Tom Petty replicava a chi lo accusava di avere tradito la new wave per il mainstream. Trentacinque anni e oltre sessanta milioni di dischi venduti dopo, nessuno lo ha per fortuna ancora convinto del contrario.

Ad aspettare qualche ulteriore mese a farla uscire, la “Live Anthology”, c’era il rischio che in tanti notassero la prossimità (cadrà il 20 ottobre) a un compleanno… importante per il rocker della Florida. Chi avrebbe allora potuto resistere alla tentazione di scrivere dei “favolosi anni sessanta” di Tom Petty? Intesi non come il decennio dei Beatles e della psichedelia. E d’accordo che nella Rock’n’Roll Hall Of Fame già lo hanno accolto da un pezzo, e che in ogni caso un cofanetto quadruplo o sestuplo o settuplo (tre le versioni disponibili) è un riepilogo di carriera con tutta l’aria della definitività, ma il nostro uomo ad andare in pensione non ci pensa proprio. Il prossimo album con gli Heartbreakers sarà una raccolta di blues inteso un po’ come lo intendevano gli Allman Brothers, ha già annunciato, e pare scommessa sicura che manterrà immacolata una discografia di rara consistenza, senza magari un capolavoro a sormontarla ma anche senza una caduta vera che in qualche punto la affossi. Petty è una garanzia: malissimo che vada, in un suo album una o due canzoni memorabili e altre tre o quattro comunque carine le troverai sempre. Dal 1976.
In “Tom Petty & The Heartbreakers” di indimenticabili se ne contano ben più di due (cinque? che fa metà programma), ma curiosamente le due più indimenticabili di tutte sono sistemate a fondo corsa ed è come se “Born To Run” si chiudesse con Thunder Road e la traccia omonima. Per certo a congedarsi con il romanticismo sospeso di una Luna eminentemente tastieristica, cui va dietro una American Girl che sono i Byrds apocrifi più sfrenatamente rock di sempre, non solo si lascia un ricordo fantastico ma si suggerisce che la cosa migliore da fare sarebbe girare di nuovo il disco e cominciare da capo. Dalle sincopi tambureggianti di Rockin’ Around (With You), che non preparano minimamente ai languori e all’epicità di Breakdown, così come dopo di quella non ti attenderesti un Hometown Blues infiltrato di beat. Dice bene il titolo del brano che sigilla il primo lato: in questo disco c’è Anything That’s Rock’n’Roll. Lo prometteva del resto già un davanti di copertina impossibilmente tarro e stiloso insieme, una Gibson Flying V a trafiggere il cuore nel logo del gruppo e sotto il capobanda, faccia da schiaffi, giubbotto di pelle e cartuccera. Quasi più Lemmy (che i Motörhead li stava ancora tramando) che uno dei Ramones. A non ascoltarlo o ad ascoltarlo distrattamente quel loro primo album, pubblicato nel novembre ’76 ma senza che nessuno se ne accorgesse fino a diversi mesi dopo, ci stava che gli Heartbreakers venissero scambiati per una punk band. In Italia il disco usciva addirittura con tanto di lametta in copertina e l’equivoco era subito servito. Se concisione delle canzoni, asciuttezza della scrittura, amore per il sixties-garage li accomunavano, per dire, ai Clash, sarebbe stato presto evidente che i ragazzi di Gainesville erano decisamente più prossimi a un Bob Seger o al limite a un Bruce Springsteen. Altro che California modello Eagles da spazzar via! Gli Eagles erano semmai eroi da emulare e fra l’altro – due di loro – eroi conosciuti da vicinissimo, concittadini: un Tom imberbe aveva preso lezioni di chitarra da Don Felder e del suo primo gruppo serio, i Mudcrutch, aveva fatto parte Tom Leadon, fratello minore di Bernie. Molto più avanti, il chitarrista solista Mike Campbell e il batterista Stan Lynch si ritroveranno a collaborare (proficuamente da ogni punto di vista) con Don Henley e sarà una chiusura di cerchio. Il leader aveva a quel punto già fatto comunella con Stevie Nicks, senza che più alcuno si scandalizzasse. Ce l’aveva scritto nel destino e probabilmente nel DNA Tom Petty il suo futuro di classic rocker. Fulminato a cinque anni da Rock Around The Clock e tuttora quando lo racconta traspare un’emozione vivissima. Rifulminato a undici dall’incontro con Elvis Presley sul set di Follow That Dream e definitivamente deciso a seguirlo, quel sogno, quando a tredici vedeva i Beatles prima all’“Ed Sullivan Show” e poi al cinema, in A Hard Day’s Night. Circostanze avverse e una bella testa dura – da redneck nell’accezione buona del termine, per quanto sia possibile dargliene una – faranno sì che debba arrivare a compierne ventisei prima di coronarlo. Non per questo dopo si adatterà mai a un compromesso: rifiutando ad esempio di farsi spostare come un pezzo di mobilio quando la piccola etichetta, la Shelter, che aveva pubblicato i primi due LP veniva assorbita dalla MCA e andando, un album dopo, di nuovo a uno scontro durissimo con una casa discografica che voleva lucrare un dollaro di troppo sul prezzo di vendita.
Storia complessa, e rimarchevolmente avventurosa per gente che a certi eccessi non ha mai ceduto, quella degli Spezzacuori (vi devo ancora nomi e qualifiche di due di loro: Ron Blair il bassista, Benmont Tench il cruciale tastierista): impossibile a riassumersi in due pagine e meritevole di una trattazione ben più estesa, quella che permette la testata trimestrale propaggine di questo mensile e sì, prendetela pure come una promessa. Qui lo spazio è quello bastante a ingolosire il lettore più giovane e indurre il più navigato a ritirare fuori dagli scaffali i lavori che scandirono le prime tappe di un’epopea. Riascoltarlo dopo tanti anni mi ha confortato nell’idea che “You’re Gonna Get It!” (1978) sia il fratellino meno brillante dell’esordio, ma rinunciaci tu al virile struggersi di Magnolia e agli scondinzolamenti rock’n’roll di Too Much Ain’t Enough, a una No Second Thoughts profumata di psichedelia e a una I Need To Know che dovette fare verdi d’invidia i Cheap Trick. Laddove “Damn The Torpedoes” (1979) fu l’album dove le promesse venivano mantenute e si diventava grandi in tutti i sensi: numero due (resterà il piazzamento più alto) e doppio platino negli USA e una scaletta – fra l’epica sudista di Refugee (la Free Bird della mia generazione) e la ballatona alla Little Feat Louisiana Rain – ai limiti della perfezione. Mai più Tom e sodali sfioreranno così da vicino il capolavoro. Ribadito un eclettismo che fa passare in scioltezza, caso da paradigma, dalla seduzione carezzevole di You Tell Me al Jerry Lee Lewis aggiornato di What Are You Doin’ In My Life, la Rickenbacker sfoggiata in copertina sa tanto di rivendicazione e dichiarazione di intenti: sì, sono io l’erede di Roger McGuinn e sono qui per servirvi. In apertura di “Hard Promises” (1981) The Waiting sarà la conferma più clamorosa e sublime che ci si potesse attendere. Però A Woman In Love (It’s Not Me) la si sarebbe potuta ascoltare dai Cars. Però Nightwatchman azzarda il funk. Però Insider sfida i Fleetwood Mac sul loro terreno e per farlo – sfacciata! – convoca Stevie Nicks. Disco niente male, ma per i secondi due album della banda Petty pare ripetersi lo schema dei primi due: un’opera gradevole ma non trascendentale e con qualche riempitivo a seguire, facendosene ispirare, una di superiore caratura.
Fece una pessima impressione al tempo che “Long After Dark” (1982) proseguisse sulla china discendente, ammiccando senza troppo sugo e regalando giusto quei due brani di incisività suprema, il singolo You Got Lucky (nuovamente Ocasek dietro l’angolo) e una A Wasted Life in ritardo su Roy Orbison o in anticipo su Chris Isaak, fate voi. Parve un inizio di decadenza e non sembrò un buon segno che “Southern Accents”, intervallo a quel punto inaudito, si facesse attendere tre anni. Controverso (ma anche vendutissimo) all’uscita, ha finito per invecchiare bene, forte soprattutto di una prima metà di programma spiazzante e calibratissima, con una seconda Refugee chiamata Rebels ad aprire e a tallonarla una It Ain’t Nothin’ To Me sull’orlo della funkadelia, l’irresistibile acid-pop di Don’t Come Around Here No More e una title track dolente che lacrima archi.
Classic rocker dentro, Petty pensa bene di suggellare il primo decennio di discografia con la più tipica delle celebrazioni: il doppio live. Ma siccome è pure discretamente iconoclasta, lungi dal costringere “Pack Up The Plantation” nei limiti della collezione di successi regala oltre un terzo di scaletta a brani altrui che per lui hanno significato molto. La dice lunghissima il titolo di quello delegato ad aprire le danze: So You Want To Be A Rock’n’Roll Star.
Pubblicato per la prima volta su “Il Mucchio”, n.667, febbraio 2010.
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